I treni provenienti da Bialystok si fermano ad Hajnówka, venti km dal confine nella più antica foresta d’Europa, Białowieża, condivisa da Polonia e Bielorussia. La stazione è fatta di due binari e un viottolo che costeggia un edificio inaccessibile ai viaggiatori, per poi proseguire lungo la ferrovia che lo separa dal centro abitato, fino al passaggio a livello lontano poco meno di due km. Per i villaggi vicini, compreso quello di Białowieża che oggi si trova nella zona interdetta all’accesso dal governo polacco, è il punto di riferimento per i servizi, e molti degli abitanti ci arrivano, in auto o in bus, anche solo per fare la spesa. Da quando è stato decretato lo stato di emergenza e la crisi migratoria al confine si è aggravata, anche quei diciotto km di strada sono diventati un percorso complicato, fatto di controlli, sospetti, paure.
I non autorizzati all’accesso perché a Białowieża non risiedono, non lavorano, non studiano e non sono proprietari di una casa, sono costretti a fermarsi lungo la strada che taglia il bosco, dove ci sono le indicazioni per raggiungere la Rezerwat Pokazowy Żubrów, la riserva che fa parte della foresta primordiale, finora meta di ricercatori naturalisti e turisti amanti della natura, e oggi luogo di passaggio, a rischio della vita, per i migranti che ci si trovano immersi dopo aver oltrepassato il filo spinato che segna la fine della Bielorussia e l’ingresso in Polonia.
Quando fa buio, in questa stagione poco prima delle quattro del pomeriggio, i mezzi pubblici non passano più, e senza un’auto è impossibile muoversi verso l’una o l’altra località. Il traffico dei mezzi militari invece si intensifica, soldati e personale di polizia cominciano a pattugliare i boschi. La custode del Museo della Riserva ha appena segnalato di aver visto due uomini camminare a pochi passi dall’ingresso.
“Nell’ultimo mese e mezzo la popolazione residente a Białowieża è raddoppiata – spiega un abitante che lavora nella Riserva – noi siamo circa duemila e cinquecento persone, e con i soldati oggi arriviamo a cinquemila.”
Tutte le strutture ricettive della zona sono state temporaneamente requisite dal governo per alloggiare i “nuovi abitanti”, che lavorano su turni di una, due settimane senza allontanarsi da lì, per poi rientrare nei comandi di appartenenza.
“Ogni giorno, se ci spostiamo fuori dal paese, veniamo fermati e l’auto perquisita, alla ricerca di migranti nascosti nel bagagliaio – dice ancora l’uomo – la polizia controlla tutti i mezzi in uscita e in entrata, anche più volte al giorno. È quasi impossibile riuscire a passare.”
Eppure c’è chi si assume il rischio, perché un gruppo di residenti ha messo in piedi una rete che lavora con le organizzazioni più esperte per soccorrere sul campo le persone che arrivano a bussare letteralmente alle loro porte di casa. E non è la prima volta che accade, perché questa foresta ha una storia di guerra, resistenza e rifugio che affonda le sue radici nella prima Guerra mondiale, quando la maggior parte della locale popolazione ortodossa fuggì all’avanzata dell’esercito tedesco che conquistò la zona nel 1915, e poi ancora nel 1941, anno in cui divenne ricovero per i partigiani polacchi e sovietici, e fu teatro di esecuzioni di massa organizzate dai nazisti contro i civili sospettati di aiutare la resistenza. Una terra, Białowieża con i suoi alberi centenari, tra le meno popolate d’Europa e dai confini sfumati, dove la maggioranza degli abitanti sono bielorussi col passaporto polacco, abituati a ricevere persone provenienti da ogni parte del mondo.
Oggi invece l’altro lato della barricata è più di una percezione, perché centinaia di persone sono accampate qualche manciata di metri più in là, con la speranza di riuscire a entrare in Europa. Lo scorso 26 novembre il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha fatto la sua prima apparizione pubblica al confine dall’inizio della crisi, presentandosi al centro di trasporto e logistica di Bruzgi, nella regione di Grodno, dove è stato allestito un campo profughi di fortuna in cui si trovano alcune migliaia di persone.
“Se qualcuno vuole andare in Occidente – ha detto, provocando dure reazioni internazionali – è un suo diritto: non cercheremo di catturarvi, picchiarvi e tenervi dietro un filo spinato, ma anzi lavoreremo con voi per realizzare un sogno.”
Le testimonianze di chi è riuscito a varcare il confine dicono altro: gente spinta con la forza a passare la frontiera, minacciata, lasciata in mezzo al nulla senza telefono dopo essere stata illusa che l’Europa fosse a un passo. Una provocazione lanciata all’Ue, alla Polonia e alla Germania in particolare, con tanto di esortazione a prendersi carico di queste vite, dopo averle strategicamente trascinate lì con la promessa di un futuro più semplice del loro presente.
La Bielorussia non è un paese di destinazione, anzi può essere classificato come uno stato di partenza, anche se l’uscita legale per i suoi cittadini è fortemente limitata, e molti, in particolare dissidenti politici, lasciano il paese illegalmente, soprattutto negli ultimi tempi, da quando, dopo la contestata rielezione del 9 agosto 2020 di Lukashenko – alla guida del paese dal 1994 – si è aperta una fase di proteste e pesanti repressioni, con almeno 35 mila arresti.
Basti ricordare il caso diplomatico scoppiato nel maggio scorso, quando Minsk dirottò con la scusa di un allarme bomba un aereo Ryanair partito da Atene e diretto a Vilnius, in Lituania, per arrestare il giornalista e blogger Roman Protasevich, che aveva denunciato brogli elettorali.
Solo chi ha un visto permanente per risiedere in un altro Stato ha diritto a lasciare la Bielorussia, mentre i permessi di soggiorno temporanei non sono considerati motivo sufficiente per viaggiare all’estero. Ulteriori restrizioni sono state giustificate, a partire dal dicembre del 2020, da ragioni di contenimento della pandemia.
Chi arriva oggi a Minsk, prevalentemente dal Medio Oriente e in particolare da Siria, Iraq, Yemen, oltre che da Afghanistan e in casi molto limitati da paesi africani, ha seguito una rotta nuova, all’apparenza semplice da percorrere, anche se estremamente costosa.
Le ambasciate bielorusse dei paesi di provenienza facilitano l’ottenimento dei visti, e spesso ne appaltano la gestione alle agenzie di viaggio; nel giro di due settimane chi vuole partire riesce ad ottenere l’autorizzazione, oltre al biglietto aereo e al trasporto in auto, per cifre spropositate (fino a quindici, diciassette mila dollari), ma che abbattono i tempi di richiesta, di percorrenza e soprattutto avvicinano all’Europa, in assenza di una politica di visti che consenta di raggiungere direttamente la destinazione sperata.
Alcuni dei cittadini stranieri che sono arrivati in Polonia attraversando a piedi il confine con la Bielorussia, riferiscono di essere stati accompagnati in auto dall’aeroporto di Minsk ai boschi di frontiera, consapevoli di aver pagato un traghettatore illegale ma non immaginando di ritrovarsi da soli, al freddo e senza viveri, a fronteggiare due eserciti, uno che ti spinge ad andartene e uno che cerca di rimandarti indietro. Dall’Iraq in particolare, le partenze avvengono da Erbil, Sulaymaniyah e Shelazid, nel Kurdistan Iracheno. Dall’aeroporto internazionale di Erbil partono voli per Minsk con scalo a Istanbul, che in alternativa si può comunque raggiungere in bus dall’Iraq. Ma i collegamenti aerei con la Bielorussia sono frequenti anche da Beirut, Damasco e Amman. Molte delle persone che oggi sono bloccate alle porte d’Europa hanno venduto tutto quello che avevano, casa compresa, per questo viaggio.
L’Iraq ha deciso di mettere a disposizione dei voli straordinari per rimpatriare chi sceglie di tornare indietro. Il Ministero dei Trasporti ha dichiarato di aver riportato a casa un totale di 1038 cittadini, fra il 18 e il 23 novembre. Nel frattempo ci sono stati anche casi di denuncia di rimpatri forzati, come quello del giornalista Rebin Sirwan, che al quotidiano tedesco Zeit ha raccontato di essere stato condotto in aeroporto con l’inganno, e poi imbarcato sul volo per Erbil con la forza dalla polizia bielorussa, dopo aver tentato invano di avere informazioni per chiedere asilo a Minsk, non riuscendo a raggiungere la Polonia.
La Bielorussia non ha interessi diretti in Medio Oriente, ma lì ha trovato terreno fertile fra i tanti che avevano in mente di lasciare il proprio paese, o ci avevano già provato senza successo da altre rotte, come quella del mare, dalla Turchia e dalla Grecia, a causa delle condizioni di guerra, della crisi economica, dell’assenza di servizi, dell’alto tasso di corruzione che spesso non consente di accedere ad un posto di lavoro se non si hanno le giuste connessioni. Sfruttare la disperazione è stato semplice, come pure riuscire nell’intento di mettere in imbarazzo e ricattare l’Europa attraverso la pressione alla frontiera, in uno schema già collaudato, come avvenuto in passato in Turchia, o in Marocco. Non a caso l’Ue potrebbe autorizzare la Polonia, oltre alla Lituania e all’Estonia, che completano i confini orientali, a continuare con la linea dura sul fronte accoglienza, con ampi margini di manovra sui respingimenti come già deciso dal governo polacco, per evitare il muro contro muro, in senso letterale, con la Bielorussia, e di conseguenza anche con Mosca, nell’ottica di un rischio energetico che nessuno vuole correre incrementando una politica di sanzioni, tantomeno per alcune migliaia di persone migranti.
In copertina: foto di Ilaria Romano, come tutte quelle presenti nell’articolo.