“Tutti pronti per il soccorso”, “tutti pronti per il soccorso” sì fanno eco i membri dell’equipaggio, sono le sei del mattino di giovedì e l’Humanity 1, la nave umanitaria dell’ong Sos Humanity, è da poche ore entrata nella zona di ricerca e soccorso libica.
Il sar team è pronto, i rhib – gommoni con i quali vengono effettuati i soccorsi in mare – sono in acqua. Pochi minuti di navigazione e appare un barchino con 31 persone ammassate, intorno a loro un blu che non ha mai fine. La sensazione che si percepisce quando ci si trova in mezzo al mare in un barchino del genere, come durante i training che l’equipaggio effettua prima di essere operativo, pervade la pelle e arriva dritta allo stomaco, un’inquietudine, un senso di disperazione che tolgono il fiato. Il primo approccio con una barca alla deriva è un momento delicatissimo. Me lo spiega Viviana Di Bartolo, la sar coordinator della tredicesima rotazione dell’Humanity 1. “Ciao amici, siamo europei, siamo una nave umanitaria, non siamo libici”, grida quando arriviamo a pochi metri di distanza dall’imbarcazione. La segue Zeina, la mediatrice culturale, spiegando tutto anche in arabo. Lentamente vengono distribuiti i giubbotti di salvataggio, e ad una ad una le persone salgono a bordo del rhib. Stanno tutti bene, erano partiti alle nove di martedì sera da Tripoli. Un viaggio breve ma che avrebbe potuto non giungere mai a destinazione.
Dopo lo sbarco le operazioni sul ponte di comando si susseguono veloci, e altrettanto velocemente viene assegnato dalle autorità italiane il porto sicuro per i 31 sopravvissuti: Ortona. Più o meno quattro giorni di navigazione da dove si trova adesso la nave di ricerca e soccorso, tempo sottratto alle operazioni in mare e alla possibilità di portare in salvo altre vite.
Intanto la radio continua a trasmettere conversazioni, tra loro un may day, un’altra imbarcazione alla deriva segnalata dall’aereo di ricognizione di Frontex. Prima di effettuare un secondo soccorso bisogna chiedere il permesso alle autorità italiane. Il permesso arriva, ma lungo la strada un altro barchino in difficoltà è più vicino del target indicato da Frontex. L’MRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) dà ordine ad Humanity 1 di andare lì. Dopo poco Seabird avvertirà che il target iniziale è stato intercettato dalla cosiddetta “guardia costiera libica”, le persone sono state riportate indietro in un porto non sicuro, lo stesso da cui stavano fuggendo. Siamo arrivati tardi.
Sul ponte nel frattempo non si ferma il lockout, tre diversi binocoli pattugliano il mare per assicurarsi che niente venga lasciato al caso. Succede molto spesso, mi spiega il capitano, che i target (le imbarcazioni alla deriva) vengano intercettati in questo modo.
Poco dopo un altro mayday, questa volta arriva dall’aereo di ricognizione Seabird dell’ong Sea Watch. Siamo ancora lontani ma i rhib vengono messi in acqua. La nave madre si allontana sempre di più dietro di noi fino a diventare un puntino quasi invisibile. Una corsa contro il tempo per evitare che la cosiddetta “guardia costiera libica” arrivi prima di noi, per evitare di trovare una barca vuota, per evitare un altro pushback.
Grazie ad un meticoloso lavoro di coordinamento tra il ponte di comando, i rihb e Seabird, dopo quindici minuti di navigazione, in lontananza si comincia finalmente a vedere qualcosa: sono 75 persone ammassate in un barchino fermo. “Ciao amici, siamo europei non siamo libici”, procede Viviana, “non muovetevi, non alzatevi o la barca potrebbe ribaltarsi”. Ad una ad una cominciano ad uscire le persone ammassate sottocoperta, otto donne e sedici minori sono tra queste.
Le operazioni procedono per circa due ore, due viaggi sui rhib per portare i sopravvissuti sulla nave madre. Un fumo nero si leva in lontananza poco dopo il soccorso, sono arrivati i libici ma questa volta la barca vuota l’hanno trovata loro.
Il viaggio a bordo continua, le persone vengono registrate e sistemate nei diversi spazi della nave. Intanto sul ponte tutto scorre ancora molto velocemente, un altro mayday allerta l’equipaggio. “Sar team riposatevi ma rimanete svegli, pronti per un altro soccorso”, da indicazioni Viviana nella stanza principale della nave. Ricomincia la nostra corsa contro il tempo.
“Ci sono i libici – comunicano dal ponte di comando – e hanno 18 persone a bordo”, le stesse che stavamo cercando. “Siamo arrivati tardi” ammette il capitano, “ma almeno non sono annegati”. Intanto a bordo della Humanity 1 ci sono 106 persone, stanno tutte bene e sono salve. Per loro adesso il tempo è fermo in una bolla di cura e attenzione che durerà il tempo del viaggio fino al porto di sbarco.
Leggi gli altri articoli di questo diario di bordo: A bordo della Humanity 1; Le storie delle persone salvate dalla Humanity 1; L’arrivo al porto di Ortona della Humanity 1.
Immagini. Le foto di copertina e dell’articolo sono di Lidia Ginestra Giuffrida