Stando ai dati raccolti da ILGA, nel 2017 sono 72 gli stati in cui l’attività sessuale consensuale tra persone dello stesso sesso è reato. Nonostante la criminalizzazione dell’omosessualità stia lentamente diminuendo (nel 2016 gli stati erano 78), la persecuzione e lo stigma delle persone Lgbti sono una realtà ancora molto diffusa in alcune aree del mondo.
La mappa ILGA parla chiaro: ad oggi, sono otto gli stati membri delle Nazioni Unite in cui la pena di morte viene utilizzata come punizione per atti consensuali. A questi vanno aggiunti cinque stati in cui, nonostante la pena capitale sia uno strumento tecnicamente utilizzabile, non viene in realtà messa in pratica. In altri 55 stati essere omosessuale può portare invece a una condanna che va da un mese a 15 anni di reclusione. Come evidenziato nel rapporto Fleeing Homophobia, nella maggior parte dei casi a essere apertamente criminalizzata è l’omosessualità, quasi sempre solo maschile. Solo in 45 dei 72 paesi la legge viene applicata sia a uomini che donne. Ciò vuol dire che le persone bisessuali, transgender e intersessuali sono al sicuro? No, tutto l’opposto. In un clima diffuso di omofobia statale, anche la posizione delle persone transgender e intersessuali diventa problematica.
Ai paesi dove la criminalizzazione dell’omosessualità è esplicita si aggiungono poi quelli in cui esistono disposizioni penali che puniscono comportamenti “indecenti” o “immorali”. Questi spesso finiscono per includere anche relazioni e atti sessuali tra lo stesso sesso. È questo il caso del Libano, il cui codice penale punisce dal 1992 “gli atti sessuali contrari all’ordine di natura”.
Queste leggi sono spesso eredità del colonialismo europeo. Se si guarda all’Africa, per esempio, si scopre che prima dell’avvento del colonialismo molte culture tolleravano le minoranze sessuali e di genere. Come sottolineato da Val Kalende sul Guardian, fra gli Azande del Congo e i Beti del Camerun esistono prove di relazioni tra persone dello stesso sesso in epoca pre-coloniale e quindi prima dell’introduzione delle “leggi anti-gay”.
Per alcuni paesi Ue anche la criminalizzazione non basta per l’asilo
Si potrebbe pensare che la criminalizzazione sia sempre motivo di riconoscimento di protezione internazionale ai richiedenti asilo provenienti dai paesi in cui essere omosessuali è un reato. Su questo punto la posizione dei paesi europei invece varia molto. Negli anni, nella maggior parte della Ue la sola esistenza di leggi che criminalizzano i rapporti fra persone dello stesso sesso nei paesi d’origine non è bastata. Oltre all’esistenza di disposizioni criminalizzanti, Austria, Irlanda e Regno Unito hanno chiesto al richiedente asilo prova dell’applicazione pratica di queste leggi, quando non addirittura la prova di un processo legale a loro carico. In altri stati (Bulgaria, Spagna, Finlandia e Norvegia), perfino l’applicazione delle disposizioni penali non è stata sufficiente a garantire protezione ai richiedenti asilo Lgbti provenienti da tali paesi.
La buona pratica? Quella dell’Italia, dove la criminalizzazione nel paese d’origine è considerata di per sé persecutoria, senza bisogno di ulteriori accertamenti. Una posizione rinforzata dalla Corte di Cassazione, che nel 2012 ha chiarito che “la sanzione penale degli atti omosessuali […] costituisce di per sè una condizione generale di privazione del diritto fondamentale di vivere liberamente la propria vita sessuale ed affettiva. […] Le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale […] e a esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità. Ciò costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini […] omosessuali che compromette grandemente la loro libertà personale. Tale violazione di un diritto fondamentale, sancito dalla nostra Costituzione, dalla C.E.D.U. e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, […] si riflette, automaticamente, sulla condizione individuale delle persone omosessuali ponendole in una situazione oggettiva di persecuzione tale da giustificare la concessione della protezione richiesta”.
Paesi sicuri (ma non troppo)
Legata alla questione della criminalizzazione è l’idea, diffusa in molti paesi europei e riconosciuta dalle stesse direttive europee in materia d’asilo, di creare liste di “paesi di origine sicuri”. Questi paesi vengono considerati talmente sicuri che le richieste presentate da richiedenti asilo provenienti dagli stessi hanno molte meno probabilità di andare a buon fine. Tra questi compaiono Giamaica, Nigeria, Senegal (nonostante qui essere gay sia un reato) e numerosi paesi in cui vige un clima generale di intolleranza omofobica e transfobica. Insomma paesi sicuri per molti ma non certo per le persone Lgbti.
Anche la comunità e la famiglia possono uccidere
“Se il governo ti cattura, possono mandarti in prigione per 15 anni. Se ti catturano dei cittadini, ti uccidono subito! Immediatamente! E senza che nessuno li contesti”.
Quella di Rashidi, richiedente asilo nigeriano nel Regno Unito, è solo una delle testimonianze raccolte nel report No Safe Refuge. E sono proprio le testimonianze di chi riesce a scappare a dare l’idea di quanto sia difficile essere Lgbti in queste condizioni. La criminalizzazione dell’omosessualità, come abbiamo visto, mette fuorilegge le persone lesbiche, gay e bisessuali e crea un clima di omo-transfobia generale, terreno questo molto fertile per persecuzioni e gravi soprusi. Nei paesi in cui essere omosessuale è un reato o dove la discriminazione contro le persone Lgbti è diffusa, le minoranze sessuali e di genere sono vittime quotidiane di violenza e di abusi fisici e psicologici. Come testimoniato da Rashidi e da molti altri richiedenti asilo, persecuzioni e maltrattamenti possono essere inflitti da soggetti statali (pochissime le persone Lgbti che nei paesi menzionati possono fare affidamento sulla polizia, ad esempio). Nella maggior parte dei casi la paura maggiore è quella di essere vittime della propria comunità, dei vicini, se non della propria famiglia – madri, padri, fratelli, sorelle che possono diventare un pericolo. Essere Lgbti viene visto come un abominio, e nei migliori dei casi un male da estirpare attraverso “terapie di conversione”, violenza fisica e stupri correttivi. In molti casi è la stessa famiglia a informare la polizia del reato di omosessualità, o a compiere la scelta di uccidere per la rabbia e la vergogna.
Molti richiedenti asilo Lgbti, quindi, scappano dal proprio paese d’origine sulla base di persecuzioni subite da agenti non statali. Quando il rischio di persecuzione non è causato dallo stato, per poter godere della protezione internazionale un rifugiato deve prima di tutto non poter ricevere protezione nazionale. Una nozione problematica, questa, se viene applicata alle minoranze sessuali e di genere, soprattutto in paesi che criminalizzano l’omosessualità o dove le autorità statali sono apertamente omo-transfobiche. Questo però non ha evitato che diversi stati europei diventassero protagonisti di un vero paradosso. Richieste d’asilo da parte di cittadini di paesi criminalizzanti sono state rifiutate proprio perché – secondo gli ufficiali di asilo – questi avrebbero potuto godere di protezione nazionale. Da parte di chi? Delle stesse autorità statali che risultano essere spesso i primi agenti di persecuzione.
Un altro paradosso, in generale, è che il pericolo concreto di persecuzione può esistere in una specifica area del paese. In quel caso, il richiedente asilo potrebbe essere trasferito nell’area sicura senza bisogno di accedere alla protezione internazionale, beneficiando così della cosiddetta “alternativa della ricollocazione interna”. Una possibilità, questa, che nel corso degli anni è stata ritenuta valida da molti paesi europei nei casi di richiedenti asilo Lgbti, ed è stata utilizzata come motivo di rifiuto della richiesta. Peccato che nei paesi che criminalizzano l’omosessualità o negli stati in cui le autorità statali hanno atteggiamenti omo-transfobici non esistano “aree sicure”, e pertanto questa alternativa non dovrebbe mai essere presa in considerazione.
Informazioni sul paese d’origine: le lacune
Come evidenziato dall’Unhcr, la raccolta di informazioni precise e attendibili sulle condizioni di vita nei paesi d’origine è un elemento fondamentale per capire e affrontare le problematiche specifiche dei rifugiati, soprattutto sulla fondatezza del timore di persecuzione. Queste informazioni sono fondamentali nelle richieste presentate dalle minoranze sessuali e di genere. Quali sono le condizioni di vita delle persone Lgbti in quel paese? Essere omosessuale è reato? In caso di atti persecutori da parte della famiglia, lo stato protegge la vittima? Queste sono solo alcune delle domande a cui dovrebbero rispondere queste informazioni. In realtà, come evidenziato da ILGA Europe l’assenza di informazioni complete, affidabili e oggettive sulle condizioni delle persone Lgbti nel paese d’origine è un problema che esiste in tutta Europa. Se raccolte, la maggior parte delle informazioni legate alle minoranze sessuali e di genere riguardano gli uomini gay, mentre le informazioni sulle donne lesbiche e le persone transgender sono rare e quelle sulle condizioni di vita delle persone bisessuali e transgender vengono di rado prese in considerazione. L’impatto di questo divario è significativo: nel 2007 una corte ceca ha concluso che non c’è differenza fra la situazione delle persone gay e quella delle persone transgender nel determinare un caso di richiesta d’asilo. La sentenza riflette la cattiva pratica di confondere le vulnerabilità e le situazioni delle persone Lgbti (evidenziate in un precedente articolo di Open Migration) e di estendere le informazioni relative a un gruppo agli altri. In molti casi, l’assenza di informazioni specifiche viene vista addirittura come prova dell’assenza di rischio di persecuzione (e non come una lacuna a danno del richiedente asilo).
L’Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo (Easo), fondato per aiutare a rafforzare la cooperazione fra stati europei in materia di asilo, come parte del proprio mandato ha il compito di raccogliere informazioni affidabili e aggiornate sui paesi d’origine promuovendo un portale online e pubblicando report con le proprie conclusioni. In effetti oggi il portale è attivo e nel 2015 l’Agenzia ha pubblicato una guida su come approfondire la condizione delle persone omosessuali, lesbiche e bisessuali nel proprio paese d’origine. Peccato che questa escluda del tutto ed esplicitamente la situazione delle persone transgender e intersessuali. La motivazione sarebbe che le richieste di protezione internazionale presentate da parte di persone transgender e intersessuali non sono “così comuni”. Vista la portata del problema e le sue conseguenze, sarebbe necessario un approccio più incisivo, che includa un supporto politico degli stati membri finora quasi inesistente.
Nel proprio paese d’origine, insomma, le minoranze sessuali e di genere possono vivere l’inferno. Arrivando in Europa quell’inferno potrebbe non essere sufficiente a ottenere protezione internazionale e, nel peggiore dei casi, rischia di rimanere sconosciuto.
In copertina: protesta contro la criminalizzazione dell’omosessualità in Uganda (foto: Kaytee Riek su licenza CC BY-NC-SA 2.0)