Da quest’anno, l’Italia ha finalmente un Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
Sono stati necessari quasi vent’anni – la prima proposta dell’istituzione di un Ombudsman per i luoghi di privazione della libertà, proveniente dall’associazione Antigone, risale addirittura al 1997 – affinché il nostro paese si allineasse agli standard di molti altri paesi europei. Nel frattempo è intervenuta la ratifica del Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la Tortura (OPCAT) che prevede appunto l’istituzione di un National Preventive Mechanism (NPM) cioè di un organismo indipendente nazionale con compiti di controllo dei luoghi ove le persone sono ristrette, per diverse ragioni, per ordine dell’autorità pubblica. Quindi in linea con quanto avviato in quell’antico dibattito di quasi venti anni fa, il mandato precipuo del Garante è quello di controllare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà (inclusi ovviamente gli hotspot e i centri di identificazione ed espulsione per gli immigrati). A ciò si aggiunge però un’altra importante funzione attribuitagli dal governo italiano in esecuzione di una direttiva europea del 2008: il monitoraggio dei rimpatri forzati.
Alla luce di tali competenze, il Garante assume un ruolo evidentemente centrale e cruciale nella tutela dei diritti degli stranieri. Abbiamo approfondito l’argomento con Mauro Palma, presidente del neonato organismo nazionale di garanzia.
Quale è lo stato dei diritti dei migranti reclusi in carcere e altrove in Italia? Le condizioni di detenzione sono rispettose degli standard europei?
Per quanto concerne i diritti degli stranieri in carcere, vi è una specifica e dettagliata raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa [1]. Qui il problema principale e più grave è senz’altro la non comprensione — delle regole, di come funziona il sistema — da parte degli stranieri reclusi, a cui non viene garantita un’informazione adeguata, anche perché molto spesso sono sprovvisti di un’assistenza legale appropriata ed efficace.
Il più delle volte sono i compagni di cella a spiegare ai detenuti stranieri come funzionano le cose in carcere, e quindi l’informazione che arriva è in qualche modo deformata.
Questo ha due conseguenze: la prima è che di fatto nell’istituzione carceraria la disuguaglianza sociale e personale invece che diminuire aumenta (che è esattamente il contrario di quanto dovrebbe succedere all’interno di una struttura, seppure punitiva, che si vorrebbe incentrata sull’uguaglianza dei soggetti di fronte al potere sanzionatorio dello stato); la seconda è che l’affidarsi da parte di molti detenuti stranieri all’informazione e spesso alle reti di connessione fornite dai compagni di carcere rischia di far sì che, paradossalmente, il loro accesso al sistema legale determini il contatto con sistemi “protettivi” di illegalità.
C’è poi il problema delle condizioni materiali, perché nella maggior parte dei casi gli stranieri non hanno familiari che possano garantire un supporto dall’esterno — ma qui in una certa misura supplisce l’attività dei volontari, ed a volte anche del personale del carcere, che spesso portano ai detenuti vestiti ed altri beni di prima necessità. Insomma, più che la questione delle condizioni materiali, a essere davvero centrale è la questione informativa, che finisce per privare i detenuti stranieri dei propri diritti fondamentali.
Questo per quanto riguarda il carcere. Per quanto concerne invece le altre strutture di privazione della libertà degli stranieri, ritengo che l’Italia stia facendo un lavoro in positivo come pochi altri paesi europei.
Parto proprio dalla questione degli hotspot, e cioè strutture temporanee all’interno delle quali i migranti in arrivo vengono divisi in tre categorie: un primo gruppo è quello dei soggetti che, in quanto provenienti da paesi a rischio, potranno essere ricollocati all’interno del piano di relocation europeo (questo quantomeno in teoria, lasciando da parte per il momento la questione dell’effettivo funzionamento di questo sistema); il secondo gruppo è quello dei soggetti che possono comunque presentare richiesta d’asilo, perché pur non provenendo da quei paesi sono soggettivamente in pericolo. E poi c’è il terzo gruppo, che è considerato come non rientrante nel sistema di protezione: quelli che chiamano ‘migranti economici’.
A margine dico anche che io non ho mai amato questa categorizzazione, questa distinzione netta tra possibili rifugiati e migranti economici, introdotta dalle Nazioni Unite (assai prima dell’Europa). La sottovalutazione implicita nella etichetta di “migranti economici” mi lascia molto perplesso perché il conflitto è sempre prodotto da condizioni economiche e queste ultime sono sempre origine e risultato di situazioni conflittuali o comunque drammatiche. In questo senso è quindi apprezzabile la recentissima ordinanza del Tribunale di Milano che ha dichiarato che un migrante economico in fuga dalla povertà dovrebbe avere gli stessi diritti di un rifugiato che scappa dalla guerra.
In ogni caso il problema si pone relativamente al periodo che passa dall’arrivo dei migranti negli hotspot al momento in cui questi si fanno foto-segnalare e prendere le impronte, come previsto dal Regolamento di Dublino , formalizzando così l’Italia come paese di primo ingresso (con tutto quello che ne consegue) . In questa fase si dà infatti luogo a una privazione di libertà che non è coperta da un ordine di privazione della libertà e quindi non è sottoposta ad alcun controllo dell’autorità giudiziaria – fosse anche soltanto il giudice di pace, come avviene invece per i ristretti nei CIE. Questo si pone in contrasto con l’Articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso all’autorità giudiziaria”.
La situazione di violazione è evidente, e infatti alcune voci europee invitano a forzare il foto-segnalamento in modo da annullare questa forbice di tempo. L’atteggiamento italiano è tuttavia quello di persuadere i migranti a dare il loro consenso alla procedura. Ma, questo può però richiedere ore, giorni, a volte anche settimane : un periodo di tempo nel quale si concretizza appunto una privazione di libertà illegale, con tutti gli ovvi problemi che ne conseguono.
Però io credo che sia comunque positiva la scelta di non forzare e di cercare invece di convincere. Mi pare che l’Italia su questo punto stia attualmente seguendo una politica di interpretazione in positivo delle norme europee.
A livello europeo, oggi al nostro paese si rimprovera che ci sono pochi CIE, che di fatto si privano della libertà pochi migranti. In altri paesi europei vengono segnalate situazioni decisamente peggiori: basti pensare alla riforma danese del diritto d’asilo (con cui si è introdotta la confisca di beni ai rifugiati), o a quanto succede in Ungheria, dove i detenuti sono stati fatti uscire dalle celle per andare a costruire muri contro i migranti. Se è anche vero che l’Ungheria non è mai stata in condizione di dare lezione sui diritti umani nell’ultimo secolo, quella dei paesi nordici è decisamente una sorpresa negativa. Io sono stato a lungo a Strasburgo, e allora l’Italia veniva spesso bacchettata — soprattutto dai paesi nordici — perché ci rimproveravano di avere un sistema che tutelava poco i diritti. Ultimamente invece è l’opposto: oggi molti paesi nordici ci rimproverano di fare pochi respingimenti, di attardarci troppo nel rispetto delle procedure e di essere, quindi, poco “efficaci”.
Il nostro paese è attrezzato per garantire ai migranti privati della libertà quantomeno gli stessi diritti dei detenuti (habeas corpus, difesa, integrità psicofisica, salute)?
I diritti dei detenuti sono sicuramente più tutelati di quelli degli stranieri privati della libertà in una sorta di detenzione amministrativa, in attesa di identificazione ed espulsione. Il sistema detentivo, il carcere nella sua materialità, sono comunque sistemi decisamente più strutturati e definiti. Nella pratica della privazione della libertà dei migranti vi sono invece molte, troppe zone grigie.
Quali sono secondo lei i luoghi particolarmente sensibili, che dovrebbero essere quindi oggetto di un monitoraggio più attento?
Sono due le dimensioni da tenere in considerazione, senza mai essere confuse: da un lato c’è il monitoraggio della società civile relativamente agli inserimenti territoriali delle persone e alla gestione del sistema di accoglienza; dall’altro c’è il monitoraggio che fa il Garante Nazionale, e cioè quello dei luoghi privativi della libertà.
In questo contesto, un’area molto sensibile è sicuramente quella del monitoraggio dei voli di rimpatrio[2].
Ci sono due tipi di voli che devono essere monitorati: innanzitutto, i semplici voli commerciali su cui sono di volta in volta sono imbarcati gli individui che vengono rimpatriati nel loro paese di origine; e poi i voli charter per i rimpatri di gruppo, che vengono però solitamente effettuati soltanto con paesi, come la Tunisia e la Nigeria, con cui esistono specifici accordi di riammissione. Tra i voli charter vanno considerati anche quelli coordinati da Frontex e organizzati di volta in volta da un diverso paese dell’Unione europea.
Sui rimpatri collettivi ci sarebbe da sollevare tutta una serie di dubbi: in primis in termini di sostenibilità, dato che si tratta di operazioni molto complesse e costose, che richiedono un grande dispendio di mezzi e risorse; ma poi anche una questione più ampia su come la pratica dei rimpatri di gruppo, semplificati e veloci, rischi di portare paradossalmente a un aumento degli attraversamenti di frontiera illegali [3].
Tuttavia con la pratica dei rimpatri forzati, combinata alla possibilità di rientro nel paese di origine come misura alternativa agli ultimi due anni di pena – prevista dal decreto del 2014 contro l’inflazione detentiva – si è ridotto il problema dell’imposizione di una “doppia pena” per i migranti irregolari. Il decreto è infatti anche intervenuto sull’Articolo 16 del testo unico sull’immigrazione disciplinando le pratiche di identificazione degli stranieri in carcere, che hanno ora inizio al momento dell’ingresso dei soggetti nella struttura penitenziaria. Questo fa sì che adesso al momento del rilascio i migranti possono essere condotti direttamente all’aeroporto per procedere immediatamente al rimpatrio. Prima, a causa dell’assenza di procedure che consentissero l’adempimento del processo di identificazione in carcere, gli stranieri uscivano dal carcere e finivano al CIE per essere identificati.
Ovviamente questo cambiamento di procedure, se riduce senz’altro il problema della “doppia pena”, rende però anche assai più certo l’effettivo rimpatrio del soggetto: uscire dal CIE con un foglio di via non lo implicava necessariamente, e molti riuscivano a sottrarsi. Uscire dal carcere per essere condotti all’aeroporto non lascia invece nessun margine di fuga.
In ogni caso, a prescindere dalla tipologia di volo, il controllo a campione delle operazioni di rimpatrio mira a verificare se esse siano rispettose della dignità e dell’integrità fisica dei cittadini dei paesi terzi, siano state sottoposte al vaglio della magistratura, rispettino il principio di non-refoulement [4], garantiscano il tempestivo diritto all’informazione del rimpatriando sull’intera procedura e assicurino la possibilità per il cittadino del paese terzo di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato in qualsiasi momento della procedura di rimpatrio.
Il monitoraggio viene quindi effettuato attraverso il controllo della documentazione relativa alla procedura di rimpatrio, le visite presso i CIE e presso le sale d’attesa dedicate degli aeroporti, i colloqui riservati con i rimpatriandi e con il personale di scorta, la partecipazione ai voli nazionali organizzati dal Ministero dell’Interno e a quelli congiunti organizzati dall’agenzia europea Frontex.
In un momento storico in cui è sempre più evidente la strategia europea di esternalizzare il controllo delle frontiere, come può il Garante Nazionale svolgere efficacemente il proprio ruolo di monitoraggio, anche nell’ottica di un probabile aumento degli accordi di rimpatrio e conseguentemente del numero di soggetti coinvolti in tali operazioni?
La questione è davvero complicata, soprattutto visto che il nostro è soltanto un controllo a campione. Le tendenze attuali sono davvero preoccupanti – per esempio, il discorso degli hotspot galleggianti che è emerso qualche settimana fa, anche se appare rientrato: una ipotesi che può essere presa in considerazione solo da qualcuno che non abbia mai assistito a uno sbarco.
Io me lo ricordo assai bene l’ultimo sbarco che ho visto: 600 migranti che arrivavano al porto di Reggio Calabria, a cui inizialmente sembrava si applicasse una sorta di approccio “semi hotspot”, facendo una pre-selezione tra le persone. Fortunatamente eravamo presenti insieme ad altre autorità – l’UNHCR, la Croce Rossa, Medici senza Frontiere – e, anche con il positivo approccio alla complessità del momento manifestato dal personale della questura si è stabilito che si procedesse preliminarmente alla conduzione di queste persone a un ricovero. .
Come già notato prima, è ovvio che rimandare il momento dell’identificazione comporta una estensione della situazione fattuale di privazione della libertà tecnicamente illegale, ma d’altro canto è evidente che questo resta preferibile a procedere all’identificazione forzata di soggetti in situazione di profonda vulnerabilità.
Per quanto concerne la proposta esternalizzatrice – e cioè l’idea di costruire strutture di accoglienza e identificazione dei migranti nei loro paesi di origine o transito – anche qui è necessaria davvero molta cautela.
Già molti anni fa, ben prima che la UE cominciasse a ragionare su strategie di questo tipo, l’Italia strinse accordi bilaterali di cooperazione con l’Albania che prevedevano la creazione di strutture di questo tipo; ma in questo caso il ragionamento era ancora accettabile, perché in Albania si applica la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Quando invece, per esempio, la Svizzera nel 2007 ha presentato il progetto di aprire centri del genere in Senegal, il Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT) – di cui ero allora Presidente – si è fermamente opposto, perché tali luoghi sarebbero stati dei luoghi di fatto opachi in cui non si sarebbero applicate le stesse fondamentali garanzie riconosciute in Europa.
Insomma, ragionare oggi sulla possibilità di stringere accordi in questo senso con stati come la Libia, mi pare davvero una boutade.
Ovviamente c’è il problema di come salvare le vite dei migranti, evitando loro i pericolosi viaggi della speranza. La priorità è sicuramente questa, che comunque una vita umana disperata è meglio di una vita umana spezzata. Io personalmente credo che il sistema migliore sarebbe quello di creare canali di accesso legali e sicuri per tutti, in modo da garantire la presa in considerazione effettiva di tutte le richieste di protezione. Ovviamente questo non implica che gli stati debbano accogliere tutti: la valutazione del singolo caso si potrebbe sempre concludere con la negazione della protezione e il rimpatrio. Non si può negare il pieno diritto (che poi è anche un dovere) degli stati di controllare e proteggere i propri confini, verificando l’identità delle persone che arrivano nel territorio nazionale e la loro titolarità a restarvi. Ma prima di tutto dovrebbe venire l’esigenza di tutelare le vite umane.
Per quanto concerne poi il modo in cui il Garante deve svolgere la sua funzione di monitoraggio nel concreto, è in primo luogo una questione di vigilanza sulla correttezza delle procedure e sull’accuratezza delle pratiche di identificazione. Bisogna essere innanzitutto particolarmente attenti a verificare che in tali processi non vengano coinvolti minori o persone la cui situazione giuridica non sia chiaramente definita (richiedenti asilo in attesa della conclusione dell’esame della propria domanda di protezione o ricorrenti contro il diniego dello status di protezione o contro i decreti di respingimento).
Bisogna poi supervisionare anche le modalità con cui le procedure hanno luogo, partendo dall’esigenza prioritaria di assicurarsi che sia garantita a tutti la piena informativa dei propri diritti e proseguendo con l’osservazione attenta delle operazioni dall’inizio alla fine. C’è tutta una serie di normative che devono essere rispettate, e ovviamente ciò include il principio di non-refoulement – per cui sarebbe assolutamente inammissibile procedere al rimpatrio di qualcuno verso un paese in cui sarebbe esposto al rischio di tortura o altri trattamenti inumani o degradanti. In questa ottica, sarebbe palesemente criminale prevedere rimpatri verso la Libia, che infatti non è certamente inclusa tra i paesi verso i quali si effettuano voli.
In Libia non si fanno rimpatri forzati, ma in Egitto sì (nonostante sia chiaro a tutti, soprattutto dopo il caso Regeni, quanto sia grave la situazione nel paese dal punto di vista delle sistematiche violazioni dei diritti umani). Qual è la coerenza di questa distinzione?
È vero, si prevedono ed effettuano rimpatri forzati verso l’Egitto, nonostante quello che sappiamo sulla situazione nel paese. Alla base c’è una valutazione tutta politica: il concetto è che quando un paese è riconosciuto a livello internazionale come legittima entità statale – si badi: non dico come stato democratico nella concretezza della sua vita istituzionale e quotidiana, perché mi parrebbe decisamente eccessivo, basta che non sia incluso nella black-list delle dittature – allora non c’è problema. Poi possiamo ovviamente ragionare su come si fanno queste liste, sui limiti che hanno queste valutazioni.
Il problema non riguarda del resto certo solo l’Egitto, sul quale noi abbiamo adesso (comprensibilmente) grande attenzione: ce ne sono diversi di paesi problematici sotto questo punto di vista. La Turchia è ormai da includere in questa valutazione.
Quali sono i diritti fondamentali che Frontex deve rispettare relativamente al controllo delle proprie frontiere e all’espulsione dei migranti irregolari, quanto questi diritti vengono rispettati e come pensa lei di monitorarne l’effettiva garanzia [5]?
Nel 2010, quando ero Presidente del CPT, sono stato io a negoziare con Frontex il fatto che i membri del Comitato potessero effettuare controlli a sorpresa sui voli – il che secondo me ha avuto grande importanza nel garantire un effettivo monitoraggio di tali operazioni.
Il CPT continua oggi a monitorare i rimpatri effettuati da Frontex, l’ha fatto per esempio a dicembre scorso su un volo Italia – Nigeria. Anche il Garante Nazionale, come National Preventive Mechanism, ha avviato questo monitoraggio e nelle settimane scorse ha compiuto il primo monitoraggio, ahc einq uesto caso relativamente a un volo verso la Nigeria.
Non è solo il caso italiano: per esempio, particolarmente attivo in questo senso è per esempio l’NPM svizzero.
Più che per quanto concerne le operazioni di rimpatrio aereo – nell’ambito delle quali Frontex svolge un ruolo in un certo senso servente, limitandosi di fatto a mettere in relazione i vari stati – è più problematico il ruolo dell’agenzia nelle gestione delle cosiddette operazioni di intervento rapido alle frontiere (RABIT). Basti pensare alla missione RABIT al confine tra Grecia e Turchia del 2011, in merito alla quale il CPT ha pubblicato un rapporto ed anche rilasciato una dichiarazione pubblica contro la Grecia in merito alle modalità di controllo dei confini. Qui veniva implementato un meccanismo di blocco totalmente deresponsabilizzante, nel senso che Frontex bloccava e consegnava i migranti alla polizia greca senza prendere minimamente in considerazione il trattamento che sarebbe stato riservato loro: visitammo centri di detenzione che definire molto sovraffollati è un eufemismo, e le autorità greche ci rispondevano che non potevano farci proprio niente, avendoli avuti in consegna da militari dell’agenzia europea. Questo tipo di meccanismo deresponsabilizzante è certamente molto preoccupante.
Poi c’è il ruolo di Frontex in mare. L’impostazione della nostra missione Mare Nostrum era sicuramente molto meglio dell’approccio adottato nelle operazioni di Poseidon e Triton, che oggi invece è diventato quello prevalente.
In sintesi, mi preoccupa senz’altro di più il ruolo di Frontex nell’ambito del controllo e blocco delle frontiere che la sua funzione nell’ambito dei rimpatri. Devo tuttavia riconoscere che recentemente il dibattito su ruolo e procedure di Frontex è al centro di discussione e revisione. Parallelamente credo però che debba essere aperta la discussione sul potenziamento della European Union Agency for Fundamental Rights (FRA). In Europa, infatti, sono state ormai create contemporaneamente due agenzie: Frontex per il controllo e la difesa dei confini, e FRA per il monitoraggio dei diritti umani. Basta guardare i bilanci di queste due autorità per rendersi conto di quale sia l’area prioritaria d’interesse per la UE.
D’altro canto è chiaro come questa sia in realtà una responsabilità dei governi europei, in quanto entrambe non sono altro che agenzie inter-governative che a essi rispondono.
In generale bisogna capire meglio – e i governi europei si devono impegnare in questo senso – quale siano il ruolo ed il profilo che a esse si vuole dare.
In conclusione, qual è la sua valutazione generale sul rispetto dei diritti fondamentali dei profughi in Europa?
Il primo diritto dei migranti è il diritto a migrare, perché tutti hanno il diritto di cercare condizioni di vita più felici. Il problema è come fare in modo che il diritto a migrare possa essere garantito senza compromettere la sicurezza degli stati.
Bisogna insomma riuscire a trovare il giusto equilibrio tra l’imprescindibile rispetto dei diritti fondamentali e l’altrettanto sacrosanta esigenza di garantire la sicurezza nazionale.
Ad esempio, come abbiamo già detto, sempre più persone viaggiano senza documenti spesso in conseguenza delle politiche di frontiera europee, e questo crea problemi di sicurezza: diventa quindi evidente che è necessario aprire dei canali di accesso legali e sicuri, e questo certo non per “buonismo” ma piuttosto per garantire la sicurezza e sostenibilità dell’ingresso di stranieri nel territorio nazionale.
[1] La numero 12 del 2012.
[2] Previsto dalla direttiva 115/CE del 2008 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle norme e alle procedure applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, come recepita in Italia con il decreto legge 23 giugno 2011 n.89.
[3] I migranti che potrebbero arrivare in Italia con il proprio passaporto spesso scelgono infatti di farlo senza documenti per tentare di sfuggire al rischio di respingimento.
[4] La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, all’art.33, sancisce il principio di non-refoulement prevedendo che “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Il divieto di respingimento è applicabile a ogni forma di trasferimento forzato compresi deportazione, espulsione, estradizione, trasferimento informale e non ammissione alla frontiera. Tale principio costituisce parte integrante del diritto internazionale dei diritti umani ed è un principio di diritto internazionale consuetudinario.
[5] Nell’intervallo di tempo intercorso tra l’intervista e la sua pubblicazione, è stato effettuato il primo monitoraggio del Garante su un volo charter Frontex, con cui si rimpatriavano 22 cittadini nigeriani, tra cui 3 donne. Nel corso della fase di verifica dei documenti al CIE di Ponte Galeria, è risultato che due donne avevano fatto richiesta di protezione internazionale e quindi la loro procedura di espulsione è stata sospesa.