Il 20 giugno, il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha presentato la Relazione 2022 sulle condizioni di coloro che si trovano in strutture di detenzione e di trattenimento. Il tema principale che fa da collante per tutte queste strutture, come è stato sottolineato da Mauro Palma, presidente del Garante Nazionale, è il tempo che, nel caso delle navi quarantena, dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) e degli hotspot risulta “sospeso”, con tutte le violazioni dei diritti umani che ne derivano ai danni delle persone trattenute.
Prima di affrontare la situazione nel nostro Paese occorre fare un passo indietro e partire evidenziando i dati allarmanti che riguardano gli attraversamenti nel Mediterraneo e i respingimenti in Libia. “Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim)”, si legge nella Relazione, “nel 2021 sono 1553 le persone migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale e 32.425 quelle riportate in Libia dalla Guardia costiera libica”. Ricordiamo che l’Italia è tutt’ora parte del Memorandum d’Intesa stipulato nel 2017 che prevede non solo il respingimento delle persone migranti da parte delle autorità libiche – in quella che risulta un’operazione di esternalizzazione delle frontiere -, ma anche e il finanziamento di quelle che sono vere e proprie milizie che imprigionano adulti e minori – il più delle volte sottoposti a torture e lavori forzati – nei centri di detenzione, in condizioni disumane e degradanti. Come si legge nella Relazione, “malgrado la piena consapevolezza dei continui naufragi e delle violazioni dei diritti umani che si consumano in Libia, fermamente stigmatizzate dagli Organismi internazionali, il Mediterraneo continua a scivolare in un buco nero di fronte alla risolutezza dei Paesi europei nel continuare a riconoscere una ‘Area Sar’ [ricerca e soccorso] libica illegittima nel quadro degli obblighi derivanti dagli articoli 2 e 3 della Cedu [Convenzione Europea dei Diritti Umani] e di non voler assumere alcuna iniziativa umanitaria che preveda la realizzazione di corridoi [umanitari]”.
Premesso ciò, anche le persone che riescono ad arrivare in Italia sono costrette ad affrontare non poche difficoltà e sono spesso recluse per un periodo di tempo indefinito. Si pensi alle navi quarantena dove, secondo i dati della Relazione, sono transitati 35304 richiedenti asilo. Strutture pensate per tutelare la salute pubblica, di fatto divenute delle “bolle temporali” in cui non viene concessa la “possibilità di esprimere, negli undici giorni di permanenza media a bordo, le proprie esigenze di protezione internazionale”. Qui, come evidenzia la Relazione, le domande di asilo vengono acquisite solo al momento dello sbarco, quando “l’azione di setaccio delle procedure d’ingresso arriva a distinguere chi accogliere e chi respingere e tra i respinti chi obbligare ad allontanarsi autonomamente e chi trasferire in un Cpr”.
Per quanto riguarda questi ultimi, continua l’analisi del Garante, “5147 persone hanno trascorso parte della loro vita in un Cpr” e meno della metà è stata effettivamente rimpatriata (ossia 3420 persone di nazionalità, in ordine, tunisina, albanese, egiziana, georgiana e nigeriana).
Ciò dimostra che, se si guarda al solo scopo per cui questi Centri sono stati creati, ovvero il rimpatrio, la privazione della libertà delle persone non garantisce maggiore efficacia. Allo stesso tempo, privare della libertà persone che in mancanza di accordi bilaterali non possono essere rimpatriate, risulta essere un trattamento illegittimo.
D’altra parte, questo non implica che per i Paesi con cui invece si hanno accordi bilaterali le cose vadano meglio, anche in quel caso i pericoli per le persone rimpatriate restano alti: si pensi all’Egitto, per esempio, un Paese che, si legge nella Relazione “continua a essere oggetto di attenzione da parte della comunità internazionale per la situazione più volte riportata come molto critica sotto il profilo della tutela dei diritti umani”. O ancora alla Tunisia – in cui, tra le altre cose, le proteste delle persone rifugiate per denunciare le condizioni di vita sono all’ordine del giorno -, i cui cittadini vengono rimpatriati con voli charter dall’Italia che, come è stato evidenziato nel rapporto Buchi Neri, hanno comportato gravi violazioni dei diritti umani. Tra questi ricordiamo la celerità con cui i rimpatri vengono effettuati, spesso senza che sia data la possibilità di formalizzare richiesta di asilo.
A proposito di quest’ultimo punto, nella Relazione è stato sottolineato come tra le violazioni ci sia anche la mancata informazione sui propri diritti. “Il tempo trascorso all’interno di un Cpr”, si legge nella Relazione, “in media poco più di 36 giorni, è spesso disinformato perché privo di informazioni in relazione tanto alle tempistiche e modalità di rimpatrio, quanto agli stessi diritti di chi vi è trattenuto”. A queste violazioni vanno poi aggiunte prassi prive di base legale come le convalide di trattenimento emanate da autorità non competenti – è il caso dei giudici di pace; convalide illegittime di trattenimento; decreti di espulsione illegittimi ai danni di minori.
Per quanto riguarda gli hotspot, ossia i centri di prima accoglienza definiti come “nonluoghi” e “contenitori” nella Relazione, nel 2021, in tre delle quattro strutture operative, hanno fatto ingresso 44242 persone: 31876 uomini, 3432 donne e 8934 minori. Gli hotspot nascono negli anni ‘90 con il fine di raccogliere le impronte digitali e distinguere il “migrante di tipo economico” dal “richiedente asilo”. Tuttavia, nel corso degli anni, le strutture sono diventate sempre più simili a luoghi di detenzione: le persone vivono in condizioni disumane e degradanti, tra la scarsità di cibo e i materassi a terra per dormire. Strutture pensate per un transito veloce si trasformano in luoghi di controllo, “in cui il sentimento prevalente è l’attesa che diventa inesorabilmente rabbia”, si legge nella Relazione. Ricordiamo infatti che nel 2016, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani, nel caso Khlaifia c. Italia, per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) e poi a bordo delle navi Vincent e Audacia, senza alcuna possibilità di fare ricorso a tale trattenimento. Nonostante la sentenza, le detenzioni continuano ad avvenire in maniera informale e sistematica: “senza una chiara base legale, senza un atto scritto adottato dall’autorità competente e convalidato da un giudice, in assenza di un termine massimo di detenzione e senza fornire adeguata informativa sui motivi della detenzione, in aperta e grave violazione dell’art. 13 della Costituzione e delle garanzie previste dall’art. 5 della Cedu” – come è già stato denunciato dagli esperti dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione lo scorso anno.
Va ricordato che la sistematicità con cui le persone migranti vengono rinchiuse e trattenute è in netto contrasto con l’articolo 5 della Cedu, che riguarda il diritto alla libertà personale. Secondo il Consiglio d’Europa, è necessario prediligere alternative non coercitive, al contrario delle prassi generalizzate di trattenimento che invece è possibile riscontrare in Italia.
In conclusione, è possibile constatare come le politiche migratorie che l’Italia continua ad adottare nei confronti delle persone migranti sono quelle di chiusura delle frontiere, criminalizzazione e trattenimento. Moussa Balde, Wissem Abdel Latif e altre persone morte di Cpr, o nel Mediterraneo, non sono frutto di effetti collaterali, ma la conseguenza di un sistema che continua a minare i diritti fondamentali di chi viene continuamente privato del diritto alla libertà di movimento.
Foto copertina via The CivilFleet/Twitter.