Riforma del diritto d’asilo o, meglio, del processo civile per la trattazione dei ricorsi in materia di protezione internazionale: è dall’inizio dell’estate che se ne parla, seppure in mancanza di un testo normativo da analizzare nel dettaglio (il relativo disegno di legge delega è al vaglio del dipartimento per gli affari giuridici e amministrativi della presidenza del consiglio).
Era infatti il 21 giugno quando il ministro della giustizia Andrea Orlando – durante un’audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione – preannunciava una profonda riforma del processo civile per la trattazione dei ricorsi in materia di “protezione internazionale” e dei giudizi in materia di immigrazione, anche comunitaria. Volontà poi ribadita nell’audizione del 3 agosto davanti al Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen.
Ma di che cosa si tratta esattamente, e perché la cosa è tanto preoccupante? Proviamo a fare un po’ di chiarezza, partendo dalle osservazioni dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).
Come (non) funziona oggi il diritto d’asilo in Italia
Facciamo prima un passo indietro, per guardare più da vicino come funziona allo stato attuale il diritto d’asilo in Italia.
In pratica: il richiedente asilo presenta una domanda di protezione internazionale alla polizia di frontiera o alla questura, e tale domanda è analizzata dalle commissioni territoriali competenti in materia, il cui lavoro è presieduto dalla commissione nazionale per il diritto d’asilo, che individua le linee guida per la valutazione. Tali organi sono composti da un funzionario della prefettura in qualità di presidente, un funzionario della polizia di stato, un rappresentante dell’ente locale e un rappresentante dell’agenzia ONU per i rifugiati e prendono in considerazione la domanda di protezione in base all’intervista individuale del richiedente (ovviamente assistito da un interprete). Ve ne sono attualmente 20 sul territorio nazionale.
La valutazione della commissione può avere esito negativo – concludendosi con il rigetto della domanda per manifesta infondatezza, la dichiarazione della sua inammissibilità oppure con il diniego della stessa.
Tre invece i possibili esiti positivi: la commissione può riconoscere lo status di rifugiato e quindi rilasciare un provvedimento che consente al richiedente di ritirare in questura il permesso di soggiorno per asilo (che ha una durata di 5 anni ed è rinnovabile ad ogni scadenza). La commissione può però anche non riconoscere lo status di rifugiato e concedere invece la protezione sussidiaria, se ritiene che sussista un rischio effettivo di un grave danno in caso di rientro nel Paese d’origine, oppure negare la protezione internazionale e riconoscere invece la protezione umanitaria, qualora sussistano gravi motivi di carattere umanitario.
Le decisioni delle commissioni territoriali possono essere impugnate davanti ai tribunali ordinari, le cui ordinanze di primo grado possono essere a loro volta impugnate in corte d’appello e, in ultima istanza, in Cassazione.
L’esigenza riformatrice: troppi ricorsi? Casomai, troppi dinieghi in prima istanza
Questo il contesto in cui si inserisce la proposta riformatrice avanzata dal ministro della giustizia. Riforma la cui necessità Orlando ha motivato basandosi su alcuni dati: nei primi cinque mesi del 2016 sono stati presentati (soprattutto a Napoli, Milano, Roma e Venezia) 15.008 ricorsi da parte di richiedenti asilo a cui la commissione territoriale aveva negato la protezione internazionale; nello stesso periodo, però, le sentenze di primo grado sono state solamente 985 (e cioè una ogni 15 richieste di ricorso) – con la conseguenza che il sistema giudiziario civile si trova di fronte ad un alto accumulo di pendenze.
Questo nonostante la durata dei procedimenti di primo grado in materia d’asilo si attesti sui 167 giorni, nel rispetto dei termini stabiliti dalla legge (secondo cui la durata massima di ogni grado di giudizio è di sei mesi, tradotti in 180 giorni) e con tempistiche evidentemente più efficienti di quelle del contenzioso civile (in cui si stimano quasi tre anni – per la precisione 1.007 giorni – per ottenere la sentenza di primo grado).
A questo riguardo non si può peraltro non menzionare come, stando a uno studio OCSE del 2013, l’Italia si posizioni ultima tra tutti i paesi europei per la durata media dei procedimenti civili: il tempo per la conclusione definitiva di un procedimento nei tre gradi di giudizio è in media di quasi 8 anni (2866 giorni), contro la media dei paesi OCSE di 788 giorni.
Il nodo critico sarebbe quindi, stando alla lettura del ministro Orlando, l’aumento delle domande di protezione presentate dal 2014 in poi e, soprattutto, l’aumento dei ricorsi contro le decisioni delle commissioni territoriali. La causa della difficoltà del sistema giudiziario nell’assorbire i ricorsi in materia di asilo sarebbe insomma l’eccessivo ricorso allo strumento della tutela giudiziaria a fronte dei numerosi rigetti delle istanze di protezione in sede amministrativa.
Il vero nodo critico
Stando alla lettura del ministro Orlando, sarebbe quindi l’aumento delle domande di protezione presentate dal 2014 in poi e, soprattutto, l’aumento dei ricorsi contro le decisioni delle commissioni territoriali. La causa della difficoltà del sistema giudiziario nell’assorbire i ricorsi in materia di asilo sarebbe insomma l’eccessivo ricorso allo strumento della tutela giudiziaria a fronte dei numerosi rigetti delle istanze di protezione in sede amministrativa.
Una lettura, questa, vigorosamente contestata – dati alla mano – dall’ASGI: dal 2014 si è infatti sì registrato un aumento delle domande di protezione internazionale e un significativo incremento del numero delle decisioni assunte dalle commissioni territoriali, ma il crescere del relativo contenzioso è evidentemente strettamente correlato con la notevole diminuzione del numero di riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria. Il valore percentuale dei dinieghi sul numero di domande esaminate è infatti quasi raddoppiato dal 2014 al 2015.
Aumento dei dinieghi che avviene pur a fronte di una sostanziale identità delle nazionalità e dei paesi di provenienza dei richiedenti asilo, e parrebbe dipendere piuttosto dall’approccio delle commissioni, “forse dettato più da ragioni politiche che di applicazione del diritto europeo e nazionale” – il che è del resto poco sorprendente, inserendosi le commissioni territoriali e la commissione nazionale all’interno dell’organizzazione del Ministero dell’Interno, non godendo quindi dell’autonomia dal potere esecutivo e politico che sarebbe necessaria per garantire un’effettiva e imparziale disamina delle ragioni delle richieste di protezione internazionale.
Allo stato attuale, insomma, il problema con effetti diretti sul contenzioso giudiziale parrebbe essere non tanto l’”abuso” dello strumento del ricorso quanto piuttosto – a monte – il numero eccessivo di dinieghi al riconoscimento della protezione da parte delle commissioni territoriali: una “serie impressionante di annullamenti di dinieghi da parte dei giudici ordinari” di cui invece il ministro Orlando manca di prendere atto, sottolinea il giurista Fulvio Vassallo Paleologo.
In ogni caso, ricorda ASGI, “il numero, pur in aumento, delle cause relative alla protezione internazionale non può giustificare la radicale riforma voluta dal Ministero della giustizia, perché l’aumento incide in termini contenutistici su un sistema critico, per ovviare al quale non può essere sacrificato il diritto di difesa relativo a un diritto fondamentale, mentre occorre investire su altri tipi di riforma”.
I punti salienti (e le grandi criticità) della proposta di riforma: niente udienza, niente appello, niente indipendenza della magistratura, un diritto ghettizzato
Andiamo a vedere più da vicino i punti principali (e le maggiori criticità) della riforma proposta da Orlando.
Il cuore della riforma è rappresentato dalla eliminazione del grado di appello per chi ha ricevuto un diniego dell’asilo in primo grado. Una proposta davvero molto preoccupante dal punto di vista della garanzia dei diritti fondamentali. Come ci spiega Dario Belluccio (avvocato ASGI):
“Non possiamo sacrificare i diritti delle persone, tanto più di quelle vulnerabili. La proposta di riforma vuole fare ricadere sui richiedenti asilo – il cui diritto è tutelato dall’art. 10 (comma 3) della Costituzione – le disfunzioni di un sistema amministrativo e la sofferenza del sistema giudiziario, non solo in materia di rifugiati; ciò che è più grave, è che lo si vuole fare sulla base di un dato contabile molto incerto. Non avere la possibilità di appellare la decisione di primo grado in questa materia, vuol dire rinunciare a tutelare pienamente un diritto che, se violato, può comportare violenze, torture, discriminazioni, mettere a rischio la vita delle persone. Se si vuole alleggerire il carico dei Tribunali si stabilisca che la competenza territoriale a decidere in materia è del tribunale ove ha il domicilio il richiedente e si destinino maggiori risorse alla formazione, alla integrazione, al sistema giudiziario”.
All’eliminazione del grado di appello si aggiungerebbe poi la sostituzione del rito sommario di cognizione con quello camerale e, soprattutto, l’eliminazione dell’udienza e quindi della comparizione personale del richiedente/ricorrente. Quest’ultima implicherebbe l’impossibilità per il giudice di primo grado di ascoltare di persona il richiedente/ricorrente, in violazione con la direttiva europea sulle procedure, secondo la quale il ricorso effettivo comprende l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto e quindi, nel caso di specie, l’ascolto del richiedente la protezione: secondo il diritto europeo il giudice dovrebbe insomma ascoltare il richiedente asilo, fargli delle domande, andare ad ascoltare le fonti – e per assolvere questi obblighi non può certo bastare, come si propone, la visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale. Questo strumento è del tutto inidoneo a garantire le regole del giusto processo, in quanto in questo modo si utilizzerebbe una prova formata dall’Amministrazione, senza che al ricorrente/richiedente asilo sia consentito di eccepire violazioni e la decisione giudiziale verrebbe basata su dichiarazioni rilasciate in fase amministrativa (e non invece su dati e elementi acquisiti dal magistrato al momento della decisione, come vorrebbe la legge).
La riforma prevederebbe inoltre l’utilizzo dei giudici onorari dei tribunali per supportare il lavoro dei giudici togati e la determinazione di orientamenti e prassi uniformi ai quali i magistrati avrebbero l’obbligo di uniformarsi: due punti davvero preoccupanti, in quanto determinerebbero una palese violazione del principio fondamentale dell’indipendenza della magistratura. Stando all’articolo 10 della nostra Costituzione, i giudici devono essere infatti soggetti soltanto alla legge e così non sarebbe qualora si imponesse loro di adeguarsi anche a orientamenti e prassi (che legge non sono) e gli si affiancasse figure per le quali non si può oggettivamente parlare né di indipendenza né di autonomia (come sono appunto i giudici onorari, la cui permanenza nelle funzioni dipende dalla rinnovabilità del contratto).
Infine, solleva grandi perplessità anche l’idea di creare nei tribunali di primo grado delle sezioni specializzate con giudici dedicati a cui non potrà essere assegnata altra mansione che quella di analizzare i giudizi in materia di immigrazione (anche comunitaria): non è innanzitutto affatto chiaro perché l’istituzione di tali sezioni speciali dovrebbe pesare – come prevede la riforma – soltanto su 12 tribunali (Roma, Bari, Catanzaro, Catania, Palermo, Milano, Venezia, Salerno, Bologna, Torino e Cagliari), con conseguente sovraccarico del ruolo degli stessi e quindi difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa dei richiedenti/ricorrenti. Inoltre, e soprattutto, questa specializzazione potrebbe tradursi in una vera e propria “ghettizzazione processuale” e quindi una marginalizzazione delle questioni giuridiche e delle persone straniere, nonché porsi in conflitto con il divieto costituzionale di istituzione di giudici speciali (ai quali, più che una materia, verrebbe assegnata una categoria di persone qualificate solo in base alla nazionalità).
Un’altra proposta di riforma: garantire l’equo processo per il cittadino straniero ma anche ripensare le politiche migratorie
“Le proposte del Ministro della giustizia sono declinazione sul versante processuale delle debolezze di analisi e della miopia delle politiche europee, oltre che palesemente finalizzate alla mera riduzione del contenzioso giudiziale” scrive l’ASGI. Insomma: un’ipotesi di riforma irragionevole e illegittima, che risponde inadeguatamente alla crisi sistemica determinatasi a seguito dell’aumento di richiedenti asilo – preferendo risposte approssimative, che nello specifico arrivano a negare il diritto di difesa del richiedente asilo e conseguentemente il diritto d’asilo stesso, all’affrontare le cause complesse delle migrazioni forzate e l’inadeguatezza dell’attuale sistema d’asilo nel rispetto dei principi ordinamentali e dei diritti fondamentali.
In questo senso sarebbe auspicabile non solo l’abbandono dell’infausta proposta di riforma ma anche e soprattutto l’apertura di una riflessione su che risposte dare alla problematica sul tavolo. Ovviamente è fondamentale garantire il raggiungimento di un equo processo in materia di trattamento del cittadino straniero, intervenendo su punti fondamentali come la radicale riforma del sistema decisionale in sede amministrativa delle domande di protezione internazionale, nonché la previsione di una giurisdizione unica in capo all’autorità giudiziaria ordinaria (con competenza ai tribunali del luogo in cui il richiedente asilo ha il suo domicilio), la sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti in caso d’impugnazione, la garanzia dell’effettivo accesso al patrocinio dello Stato per i soggetti bisognosi e la previsione generalizzata del contraddittorio con la persona interessata prima dell’adozione di provvedimenti negativi in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri in Italia.
Allo stesso tempo, però, non si può non dimenticare come alla riforma del sistema d’asilo si debba affiancare una politica migratoria che preveda ingressi legali per ragioni lavorative e di studio oppure sanitarie: in assenza di tale possibilità, la procedura d’asilo continuerà ovviamente ad esser vista (e di fatto essere) come l’unico canale possibile per entrare in Italia, con la conseguente ulteriore pressione che ne deriva sul sistema.