Nell’aprile del 2016 la notizia di 75 ragazze siriane ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi era su tutti i giornali libanesi e su alcuni quotidiani internazionali. Trafficate dalla Siria, le donne erano state vendute per 2mila dollari e imprigionate in un appartamento di Maameltein, nella periferia di Jounieh, la città costiera a nord della capitale Beirut, nota per il suo quartiere a luci rosse e per i club frequentati da turisti libanesi e internazionali.
La vicenda, nota come il caso “Chez Maurice”, dal nome dell’appartamento dove le donne erano rinchiuse, è stata resa nota da quattro di loro che sono riuscite fuggire e ad avvertire la polizia. Un caso eclatante, soprattutto per i dettagli raccontati dalle donne, ma di certo non isolato. Eppure dopo il clamore iniziale la questione è quasi scomparsa dai media.
Nel 2011, a seguito delle pressioni da parte degli Stati Uniti, il Libano ha approvato una legge per combattere il traffico di essere umani, una legge che, sulla carta, permette da un lato di perseguire gli sfruttatori e dall’altro avrebbe dovuto finalmente garantire un’adeguata protezione alle vittime. Eppure ad oggi le vittime di tratta identificate dalle autorità continuano ad essere poche decine all’anno: 19 nel 2015, 87 nel 2016 (in buona parte donne del caso “Chez Maurice”) e 54 nel 2017 – numeri che tra l’altro includono, oltre alle donne sfruttate ai fini della prostituzione, anche le vittime di sfruttamento lavorativo e i minori costretti all’accattonaggio.
Numeri che non raccontano la realtà
Se si guarda solo ai numeri insomma, il fenomeno pare ampiamente sottostimato. Le cause? Da un lato i meccanismi di identificazione delle vittime: deboli e scarsamente applicati. E dall’altro la crisi siriana che, dal 2011 ad oggi, ha cambiato tutte le carte in tavola.
“Dove c’è una crisi, c’è traffico di essere di essere umani”, afferma senza alcun dubbio Dima Haddad, che dalla sede dell’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di Beirut, coordina una task force regionale per rispondere al fenomeno non solo in Libano, ma anche in Iraq, Giordania e Turchia. “Le statistiche ufficiali non raccontano la realtà nemmeno lontanamente. I trafficanti conoscono la situazione e sono pronti ad approfittarsi della vulnerabilità delle persone”, precisa.
Il Libano è il paese al mondo che ospita il più alto numero di rifugiati in rapporto alla popolazione: 1 su 6. I siriani ufficialmente censiti dall’Unhcr l’organizzazione Onu per i rifugiati, sono 944 mila. Circa la metà sono donne, in condizioni di vita sempre più precarie.
Le Ong che si occupano nello specifico di tratta, invece, si contano sulle dita di una mano: impossibile per loro garantire assistenza alle donne sfruttate o a rischio, che potenzialmente sono diverse migliaia. La task force dell’Oim, insieme all’Unhcr e alle autorità libanesi, ha cercato in questi anni di tamponare il problema organizzando training per gli operatori umanitari ma anche per le forze di polizia che spesso si trovano ad arrestare donne accusate di prostituirsi illegalmente.
Alla domanda se ci siano falle nel sistema di identificazione delle vittime Haddad risponde “assolutamente sì”, per poi correggersi e aggiungere: “per dirla in maniera più diplomatica: c’è molto lavoro da fare”. Un lavoro urgente, perché “significa salvare la vita di una persona”.
L’ostacolo principale: identificare le vittime
La sfida principale, insomma, è proprio entrare in contatto con le vittime e garantire che siano protette in quanto tali. Ma anche da questo punto di vista la strada è tutta in salita: come ha mostrato una recente ricerca della Ong libanese Legal Agenda, alle donne viene di fatto chiesto di “dimostrare” che siano state effettivamente costrette a prostitursi.
Legal Agenda ha analizzato i 34 casi di tratta che sono arrivati in tribunale tra il 2012 e il 2017. Di questi 17 riguardavano lo sfruttamento della prostituzione: 44 le vittime (di cui 38 siriane) e 50 gli accusati (tra cui 24 libanesi e 24 siriani). Sempre nell’ambito di questi 17 processi, 16 donne sono state invece riconosciute colpevoli di “prostituzione clandestina” e quindi processate insieme agli sfruttatori.
Il problema, secondo Ghida Frangieh, avvocata e ricercatrice di Legal Agenda, è che il caso “Chez Maurice” ha paradossalmente reso le cose più difficili: “I giudici partono dal presupposto che le vittime di tratta, per essere considerate tali, debbano rispettare quello stereotipo: trafficate dal paese, vendute, rinchiuse e schiavizzate”. Ma la realtà è molto più complessa: in alcuni casi, ad esempio, la donna riceve dei soldi dallo sfruttatore, e non necessariamente le viene impedito di uscire dall’appartamento in cui lavora. In altri casi lo sfruttatore è un parente, o addirittura il marito – specie nei casi in di matrimonio precoce.
Eppure, come afferma il Protocollo di Palermo, adottato dalle Nazioni Unite nel 2000 e ratificato dal Libano nel 2006, i criteri per l’identificazione delle vittime dovrebbero essere ben più inclusivi. “Dove c’è vulnerabilità, c’è sfruttamento” sottolinea di nuovo Haddad. “È cruciale capire i meccanismi che i trafficanti usano e uno di questi è appunto abusare della condizioni di fragilità economiche, sociali o psicologiche – che il reclutamento avvenga in Siria o in Libano non dovrebbe fare la differenza. Se riuscissimo a far passare questo messaggio, il resto seguirebbe”.
Decine di Ong contattate negli ultimi mesi da Open Migration, hanno affermato di essersi imbattute più o meno direttamente in casi sospetti. Ma non sapendo a chi rivolgersi, né quali alternative poter offrire alle donne non hanno potuto fare nulla.
La domanda che si fa Frangieh ha il tono di un’accusa: “Vogliamo davvero combattere la tratta o vogliamo piuttosto limitarci a compilare delle statistiche per evitare sanzioni da parte degli Stati Uniti?”
Dentro e fuori dal carcere
Una ricerca della Euro-Mediterranean Women’s Foundation, coordinata sul campo dalla Lega libanese per i diritti delle donne (LLWR), ha approfondito la situazione nei sobborghi a est di Beirut, a Sin El Fil, arrivando ad una conclusione persino peggiore: “Tratta e prostituzione – si legge nel rapporto pubblicato a marzo 2018 – sono fenomeni avvolti da una cospirazione del silenzio che impedisce di trovare soluzioni adeguate”.
E che manchi quasi completamente un approccio sistematico per identificare le vittime lo indicano anche i dati citati nello stesso rapporto: se il numero di donne identificate come vittime di tratta nel 2016 sono state 87, molte di più sono state quelle arrestate per prostituzione: 304, di cui oltre la metà siriane.
“Restano dentro al massimo tre mesi”, spiega Ghinwa Younes, che per conto della Ong Dar Al Amal lavora come operatrice sociale nella prigione femminile di Baabda. Le donne sono insomma arrestate ciclicamente, ma presto rilasciate. Di solito grazie al protettore che paga la loro cauzione: “Tutte le donne che incontro vorrebbero smettere di prostituirsi, ma non ricevono nessun supporto e quando escono sono di nuovo nelle mani degli sfruttatori”.
Che ci sia una certa confusione tra prostituzione e tratta lo ammette anche il portavoce delle ISF (le forze di sicurezza interna), il colonnello Joseph Moussallem: “ma è un problema che riguarda la società in generale, non solo le forze di polizia”, dice. “Abbiamo mille priorità ed emergenze: tutto il sistema è sotto pressione. Facciamo del nostro meglio, ma non abbiamo i fondi né i mezzi per rintracciare le vittime”.
Dopo l’approvazione della legge sulla tratta nel 2011 è stata creata, all’interno dell’ISF un’unità anti-tratta che avrebbe proprio questo compito: ricercare i trafficanti e offrire protezione alle vittime. Ad agosto del 2018 il responsabile dell’unità, il colonnello Johnny Haddad è stato arrestato con l’accusa di corruzione e traffico di esseri umani.
Mousallem afferma, contrariamente a quanto riportato dai media, che l’unica accusa pendente su Haddad è quella di corruzione e che a suo avviso le indagini, ancora in corso, proveranno l’innocenza di Haddad.
Mancano le alternative
“Le Ong da sole, possono fare ben poco”, ribatte Ghada Jabbour, responsabile dell’unità anti-tratta di Kafa, “basta” in arabo. Kafa è una Ong che si batte contro la violenza di genere, ed è anche una delle poche organizzazioni con una preparazione specifica sul tema. Da anni Kafa collabora anche con l’Isf, da cui riceve la segnalazione delle donne che richiedono protezione.
Una rete di “case protette”, in località segrete, per le vittime di sfruttamento in effetti esiste – e a gestirne una è proprio Kafa. Ma i posti sono pochi e comunque si tratta strutture che non sono in grado di offrire un’alternativa a lungo termine. Dal 2015 ad oggi Kafa ha offerto protezione a circa un centinaio di donne, tra cui una ventina – quasi tutte siriane – sfuggite allo sfruttamento della prostituzione. In media le donne restano in queste strutture da tre mesi ad un anno. Kafa offre loro anche un sostegno legale: “Queste strutture sono un punto di partenza”, spiega Jabbour, “ma il problema è che non ci sono programmi di assistenza a lungo termine”. Alcune donne sono riuscite a ottenere asilo in Europa e alcune si sono sposate in Libano. Ma altre sono tornate in Siria, o, peggio, sono tornate di nuovo nel giro della prostituzione.
Oltre a tutti gli ostacoli oggettivi e alla generale mancanza di fiducia nel sistema denunciata dalle vittime e dalle Ong, c’è anche il profondo stigma. Il risultato è un circolo vizioso: se le donne non denunciano, non ricevono nessun aiuto. Ma come ci si aspetta che denuncino, che parlino, se sanno che non riceveranno nessun supporto?
Immagine di copertina: Vista di Beirut da un tetto di Geitawi. (Foto di Daniela Sala come tutte quelle presenti nell’articolo)