Castel Volturno. Joy è seduta sul divano. In una ventosa domenica di metà dicembre, vigila sull’andirivieni dei clienti frustrati. Siamo nel salone di una malridotta e decadente casetta estiva, simbolo del rapido e disordinato sviluppo edilizio di un borgo agricolo affacciato sul Volturno, un tempo castello fortificato. Da una stanza nella penombra escono un ragazzo e una ragazza. Lui paga, si allaccia la cerniera e se ne va. Un altro uomo si prepara al suo turno. Lascia la sua bottiglia di fragolino sul tavolo e segue la ragazza.
“Qui è una porcheria. Gli uomini non lavorano, bevono, guardali. E le donne? Ci hanno portate qui, a Castel Volturno. La madame mi ha aiutato. Vieni, mi ha detto, farai soldi. Non immaginavo di andare in Europa a prostituirmi”, racconta Joy, che ha 35 anni e viene dalla Nigeria. Seduta sempre sul divano, parla in pidgin – un impasto d’inglese, parole e suoni, sorseggiando un whisky e accendendosi una sigaretta.
Joy gestisce una delle centinaia di connection house nascoste ai lati della Domiziana: case chiuse, aperte solo ai giovani africani, adibite sia all’intrattenimento, sia al consumo di sesso. Sono le seconde case estive che proprietari italiani danno in affitto, in nero, agli stranieri che transitano e vivono in questo territorio dal 1980. Funzionano come un bar: qui i clienti bevono, fumano e, se vogliono, possono fare sesso, scegliendo la ragazza che c’è a disposizione, la quale a sua volta paga alla proprietaria l’affitto del letto.
A gestire questi bordelli sono donne nigeriane, alcune libere, altre ancora legate alla madame. Come Joy. Deve ancora pagare il suo debito, ma nel frattempo prova a guadagnare qualcosa qui.
“Cosa puoi fare qui a Castel Volturno se non questo?”, afferma perentoria, “Certo che non mi piace questo lavoro, ma devo pagare 35 mila euro, capisci? Il juju ti uccide. Non credo nel juju, credo in Dio. Ma se non paghi, usano il juju contro di te e uccidono la tua famiglia”. E alla domanda se ha mai pensato di denunciare risponde: “non posso andare dalla polizia. Mi chiederebbero ‘chi sono?’, ‘Dov’è la madame’? Io non so dov’è e comunque ho ancora il debito da pagare”.
Il juju – lo avevamo raccontato in questa storia – è uno degli ingredienti della coercizione che tiene migliaia di donne e ragazze nigeriane incatenate alla schiavitù sessuale in Italia e in Europa.
Secondo il rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) pubblicato lo scorso luglio, sono circa l’80 per cento delle donne e ragazze nigeriane arrivate via mare nel 2016 e 2017 quelle potenzialmente vittime della tratta a fini di sfruttamento sessuale in Italia o in altri paesi dell’Unione Europea.
Blessing Okoedion è la mediatrice culturale del poliambulatorio di Emergency a Castel Volturno. Conosce bene i complessi e perversi meccanismi della tratta. Laureata in ingegneria informatica, anche lei è arrivata in Italia dopo essere stata adescata con l’inganno dai trafficanti di esseri umani.
“Il rito vudù è un meccanismo psicologico che trattiene queste donne in schiavitù”, spiega seduta in una saletta del poliambulatorio, affollata di giovani ragazze in attesa del proprio turno. “Con questi riti, le ragazze si convincono che possono morire o diventare pazze se non ripagano il debito. Molte di loro, inoltre, non conoscono altro modo per vivere. L’unico ambiente familiare è quello della prostituzione e una volta pagato il debito diventano a loro volta madame. Si mescolano al sistema e alla mentalità del ‘quick money’, dei soldi facili”.
Pochi mesi fa, l’Oba, la massima autorità religiosa del popolo Edo (che vive in Nigeria e nella zona del delta del Niger) ha formulato un editto che revoca tutti i riti di giuramento che vincolano le ragazze trafficate a maledizioni terribili, obbligando i sacerdoti della religione tradizionale juju a non praticarne più.
Tuttavia, ricorda Okoedion, “l’altro grande problema è l’assenza di vie d’uscita. Le case d’accoglienza e le strutture dell’anti-tratta sono al completo. Anche se vogliono denunciare, dove le possiamo indirizzare?”.
La Libia, il ghetto e l’inferno in Italia
Sandra [nome di fantasia] si accarezza con dolcezza il ventre. È all’ottavo mese di gravidanza. Vive accanto a un’altra connection house, in una stanzetta tappezzata di muffa e di umidità. È riuscita a scappare dalla sua madame e ha raggiunto un’amica a Castel Volturno. Sussurra, quasi impaurita, la sua storia.
“Ho attraversato la Libia e sono finita in un ghetto. C’erano nigeriani, gambiani e ghanesi. I libici uccidevano e stupravano le donne. Ci hanno messo in alcune gabbie e ci hanno obbligato a chiamare le nostre famiglie per inviare i soldi. Sono sopravvissuta grazie alla forza del Signore. E poi sono arrivata in Italia, prima in Sicilia poi a Bologna. La madame mi ha detto di andare a Torino e l’ho raggiunta. Sono finita in strada. Non avevo altra scelta. Il primo giorno sono tornata senza soldi e mi ha picchiata. Avevo paura di lei, chiamava mia mamma in Nigeria e la minacciava. Mi ha detto che dovevo prostituirmi per pagare il debito. Il secondo giorno sono tornata in strada e ho fatto quello che dovevo fare”.
Una lacrima le scende sul volto. Apre l’armadio ed estrae alcuni fogli da una cartellina trasparente. È nata nel 1995, ha 22 anni.
“Non m’immaginavo l’Europa così. Pensavo di lavorare onestamente e di guadagnare dei soldi da inviare in Nigeria. Vorrei solo dei documenti veri per restare legalmente in Italia”.
Le connection house sono infimi e squallidi luoghi di aggregazione. Le pareti sono impregnate di fumo, di muffa e di stufato di carne. Gli uomini entrano a flotte. Ciondolano, visibilmente frustrati dai propri percorsi migratori falliti. Ordinano da bere o da mangiare. Altri guardano dei programmi nigeriani d’intrattenimento, trasmessi dal televisore in un salotto arredato con mobili pacchiani e luci psichedeliche. Alcuni, consumato il pasto, si spostano nelle stanze del sesso. La prestazione costa tra i cinque e i dieci euro. Su un cartello, la scritta: “no credit”.
Castel Volturno è sempre stato un territorio fluido e aperto. Prima verso i terremotati dell’Irpinia del 1980, dislocati dallo stato nelle villette estive della borghesia castellana e napoletana. Poi verso i primi braccianti stranieri, pionieri dell’agricoltura stagionale e della raccolta del pomodoro, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
“Con il tempo c’è stato un effetto di richiamo: la disponibilità di abitazioni, frutto delle costruzioni abusive e del depauperamento del territorio, e la mancanza di controlli, hanno attirato migliaia di persone, generando veri e propri ghetti”, spiega Antonio Casale, direttore del Centro Fernandes della Caritas a Castel Volturno.
La struttura dove lo incontriamo era negli anni Novanta il simbolo della migrazione massiccia. Più di 400 persone avevano occupato lo stabile abbandonato, poi nel 1994 la Caritas di Capua lanciò l’allarme e decise di investire nel primo centro di accoglienza e servizi, con una scuola, un presidio medico e alloggi per i migranti stagionali.
“Già allora, le istituzioni dovevano iniziare a pensare a una risposta al fenomeno migratorio perché, lasciato a se stesso, può creare ghetti e devianze. Non si può più parlare di emergenza. A Castel Volturno la maggior parte degli stranieri sono regolari, i loro figli sono nati in Italia. È lo stato che è assente e che dovrebbe offrire servizi di promozione sociale sia agli stranieri che agli italiani”, spiega Casale.
La strada dell’imperatore Domiziano, l’antica via che si staccava dall’Appia e doveva facilitare il collegamento con il porto di Pozzuoli, oggi è un susseguirsi di sale di slot machine, insegne luminose e luci rosse, pubblicità abusive, palazzi decadenti, supermercati, centri commerciali e piccoli bazar pieni di spezie africane e alimenti che arrivano da lontano. Uomini e donne, di ogni colore e nazionalità, attendono sul ciglio della carreggiata.
Da una villetta in rovina, in una stradina secondaria, risuona una musica calda che contrasta con i miseri vani interni. Tre giovanissime ragazze ridacchiano, mettendosi in mostra per noi. Ci mostrano le loro foto, i trucchi e i vestiti appariscenti. Arrivano tutte da alcuni villaggi remoti della Nigeria meridionale. Ci vuole tempo per conquistare la loro fiducia.
“Io non lavoro nella connection house”, dice Precious, capelli corti e occhiali da vista. “Vivo e lavoro a Palermo, sulla strada. Qualche volta guadagno 15 euro, qualche volta 50. Prima ero in Libia, sono rimasta sei mesi in un ghetto. Uccidono e stuprano. Libia is not good, is not good”, ripete. Si accende una sigaretta e abbraccia un orsacchiotto gigante. “Lo faccio per mia figlia, per pagarle la scuola”, dice.
In copertina: All’interno di una connection house di Destra Volturno, B. in un momento di pausa nel salone in cui i clienti sono soliti bere prima di consumare sesso nelle stanze adiacenti (fotografia di Federica Mameli, come tutte le immagini di questo articolo)