“Sono nata e cresciuta a Bucha, dove vivevano ancora i miei genitori, ma fino al 24 febbraio abitavo a Hostomel, vicino all’aeroporto. Quel giorno all’alba i miei amici di Kyiv mi hanno chiamata per dirmi che era iniziata la guerra, ma io non volevo crederci. Poi anche nella chat di classe di mia figlia sono arrivati una serie di messaggi di mamme e papà preoccupati, che non sapevano se la notizia fosse vera o si trattasse di un’esagerazione, e se fosse il caso o meno di mandare i bambini a suola. Poi sono arrivate le prime esplosioni nella mia zona.”
Cosa avete fatto quando è stato chiaro che la guerra era iniziata davvero?
Si diceva da mesi che ci fosse il rischio di una guerra, ma nessuno di noi credeva che fosse possibile. Pensavamo che al massimo sarebbe stato colpito qualche obiettivo militare, ma mai i civili. Per questo abbiamo deciso di allontanarci da casa nostra, troppo vicina all’aeroporto che poteva essere un bersaglio, e spostarci a Bucha, a casa dei miei genitori. Anche perché nel caso in cui avessimo programmato di andare via, saremmo già stati tutti insieme.
Bucha dista solo sei km da Hostomel, ma la prima cosa che abbiamo fatto è stata il rifornimento di carburante per la macchina. Anche da casa di mia madre continuavamo a sentire le esplosioni, ma non riuscivamo ad accettare che fosse davvero iniziata una guerra, e così abbiamo deciso di non lasciare la città, ma di restare tutti nel vecchio appartamento dove i miei genitori abitavano prima di comprare la nuova casa indipendente. Siamo tornati in quel condominio perché aveva lo scantinato, e un amico ingegnere ci aveva detto che in caso di bombardamento sarebbe stato un luogo sicuro.
La prima notte siamo comunque rimasti in casa, ma dal giorno seguente ci siamo organizzati per dormire nelle cantine.
Quanto siete rimasti nel piano interrato e come avete vissuto quei giorni
Siamo rimasti a dormire sottoterra per quindici giorni. Inizialmente la mattina si riusciva a uscire, per tornare a casa a cucinare, prendere dei vestiti, una coperta, oppure andare al supermercato, ancora aperto, a comprare del cibo. Della mia famiglia eravamo in dieci, e con noi c’erano anche altri otto abitanti dello stabile, gli unici rimasti, perché gli altri erano già andati via.
Cucinavamo a turno per tutti, come se fossimo un’unica famiglia. Avevamo un cucchiaio per tutti, che ci passavamo l’un l’altro, e mangiavamo il borsh direttamente dalla pentola, che potevamo lavare solo con le salviette umidificate. Il pane non è mai mancato perché nel palazzo c’era una signora anziana che non ha lasciato casa sua e che ogni giorno lo preparava e lo divideva con gli altri inquilini che si erano trasferiti nello scantinato.
I primi tre giorni abbiamo avuto la corrente elettrica, dopo ci siamo arrangiati con le candele e le torce dei telefoni. Ma avevamo talmente paura che entrassero i soldati russi che cercavamo di stare al buio il più a lungo possibile, e di coprire l’unica finestrella che affacciava all’esterno, per evitare che si accorgessero di noi. Più che dei bombardamenti aerei il nostro timore erano le continue sparatorie per strada, a pochi passi da noi. L’unica cosa che mi calmava era ascoltare le preghiere di due giovani che nel palazzo avevano da poco affittato una casa, finché non hanno deciso di andarsene verso Irpin, senza immaginare che anche lì la situazione sarebbe precipitata.
Una cosa che mi ha molto colpito è che da subito nel quartiere si sono creati dei gruppi di volontari che, rischiando la vita, si spostavano da uno stabile all’altro per portare viveri, medicinali, cose utili per i bambini. Alcuni di loro prima della guerra erano considerati dei ragazzi scapestrati, alcolisti, tossicodipendenti, e sono quelli che si sono dati da fare più degli altri.
La guerra ha sovvertito l’ordine della vita “normale”, e persone prima lontane sono diventate famiglia, alcuni vicini si sono allontanati. Questa esperienza mi ha fatto guardare tutto in modo diverso, ma sono felice perché siamo sopravvissuti, a tanti non è andata così bene.
Quando avete capito che bisognava considerare l’idea di lasciare Bucha?
La mattina, quando sentivamo silenzio e gli uccelli cominciavano a cantare, avevamo imparato che era il momento giusto per uscire dallo scantinato. Ma la vita lì sotto diventava ogni giorno peggiore, soprattutto per i bambini, e io mi sentivo molto in colpa per non averli portati via sin da subito. Mia figlia, che ha 11 anni, non riusciva a capire esattamente cosa stesse accadendo ma leggeva i messaggi dei suoi compagni che erano già all’estero e continuava a chiedermi perché noi fossimo ancora lì. Intanto la situazione peggiorava ogni giorno, e quando uscivamo fuori la mattina cominciavano a vedersi i corpi senza vita sulla strada, e la mia bambina continuava a chiedere perché non fossimo andati via. Al mio nipotino di quattro anni avevamo raccontato che andare a dormire in cantina faceva parte di un gioco, finché un giorno anche lui non ha visto un cadavere e ha detto che non voleva essere ammazzato nello stesso modo.
Qual è stato il momento in cui avete avuto più paura, durante quei giorni
Siamo stati così tanto tempo nel “bunker” all’inizio che quasi non avevamo mai visto i soldati russi. La prima volta che li abbiamo avuti di fronte, davanti alla porta del nostro condominio, siamo rimasti immobili. Ho detto agli altri che scappare sarebbe stato peggio, perché potevano pensare che avessimo qualcosa da nascondere. E comunque sapevano dove abitavamo, sarebbe stato inutile. Alla fine ci hanno guardati ma non si sono avvicinati. La seconda volta che ho pensato di morire è stata una sera verso le dieci, quando abbiamo sentito bussare forte alla porta e gridare in russo di uscire perché c’era un incendio. Abbiamo pensato che fossero i militari e che cercassero una scusa per farci aprire la porta per irrompere nello scantinato, e invece erano i vicini del palazzo accanto che effettivamente era stato colpito da un missile ed era andato a fuoco. E loro si preoccupavano per noi; ci siamo scusati non so quante volte con loro per non avergli creduto subito facendogli perdere tempo prezioso.
Che notizie vi arrivavano dagli altri quartieri, o dalle città vicine?
Tutte le giornate erano uguali, contavamo soltanto i giorni dal primo della guerra, il secondo, il terzo e così via, ma nessuno sapeva più se fosse domenica, o giovedì. Ci siamo abituati agli spari, al passaggio dei soldati a pochi metri, e poi per fortuna abbiamo conosciuto dei volontari che si muovevano in macchina per portare gli aiuti ai civili che come noi erano intrappolati sottoterra.
Uno di loro, che poi abbiamo scoperto essere un militare dell’Esercito ucraino in abiti civili, andava tutti i giorni in ospedale dove c’erano i generatori e caricava anche i nostri powerbank per non lasciarci senza cellulari. Tutta la città era senza corrente. Il giorno che non è arrivato abbiamo pensato che fosse morto, ma poi è tornato: era stato nelle periferie di Bucha e ci ha detto che eravamo fortunati, perché lì c’erano i Kadyrovtsy, i miliziani ceceni di Kadyrov, e dove erano loro era un inferno. Non riuscivano a smettere di piangere per quello che avevano visto, era pieno di corpi per strada, molte persone erano state colpite solo per aver preso la macchina e aver tentato di andarsene. Le famiglie avevano scritto “bambini” sui vetri delle auto, chi con lo scotch, chi con il dentifricio, con ogni mezzo possibile, ma non era servito a salvare i loro figli.
I nostri vicini di casa di Hostomel erano riusciti a scappare, non so come, perché anche da loro c’erano i Kadyrovtsy, e sono arrivati alle porte di Bucha. I militari russi li hanno rimandati indietro e poi hanno sparato alla macchina: la mia vicina e la sua bambina di un anno e mezzo sono rimaste ferite. Lei, che aveva il mio numero e sapeva che mi trovavo a Bucha, mi ha chiamata per chiedere aiuto, volevano essere evacuati e avevano bisogno di un ospedale. Ho chiamato tutti i contatti possibili per cercare di fare qualcosa, dicendo che tra i feriti c’era una bimba piccola, ma ognuno rispondeva che in quella zona i soccorsi non potevano entrare. I volontari hanno trattato per tutto il giorno con i militari russi, e alla fine solo la sera sono riusciti a portarle via, dopo una giornata trascorsa rannicchiate dietro la loro auto, in mezzo alla strada, ferite e sotto la neve.
In quel momento ho capito che i ceceni erano la cosa peggiore, e ho cominciato a temere che se fossero arrivati anche da noi le possibilità di restare vivi si sarebbero ridotte quasi a zero.
Non tutti mi capiscono quando lo dico, ma noi siamo stati fortunati perché i soldati russi che controllavano la nostra zona non hanno infierito, hanno chiesto di rispettare le loro regole ma almeno ci hanno permesso di uscire per andare a prendere l’acqua nelle case dove c’era ancora, e di accendere il fuoco nel cortile per cucinare qualcosa. Altrove hanno sequestrato la gente che hanno trovato negli scantinati, gli hanno portato via i cellulari e gli permettevano di chiamare i parenti solo una volta al giorno di fronte a loro. E chi parlava di guerra veniva giustiziato sul posto, davanti agli altri. Una mia amica mi ha raccontato che loro erano in 19 nella cantina del palazzo, una donna è stata uccisa e non hanno permesso agli altri nemmeno di portare fuori il corpo per seppellirlo: lo hanno tenuto con loro per dieci giorni.
Ho saputo di donne violentate e poi impiccate: insomma, noi abbiamo passato ben poca cosa rispetto a orrori più grandi.
Come siete riusciti ad andare via?
Avevamo saputo che il 9 marzo sarebbe stato aperto un corridoio umanitario, mai ufficialmente confermato, ma l’amministrazione comunale aveva già messo a disposizione dei minivan, e la gente cominciava ad assembrarsi al punto di ritrovo per provare a partire. Potevano salire solo donne e bambini. Abbiamo deciso di provare anche noi, seguendo i bus, così mio marito è riuscito a procurarsi un altro mezzo che potesse contenere noi e i vicini con i quali condividevamo la cantina. La notte prima della partenza i russi hanno squarciato le gomme a tutti i minivan che erano parcheggiati per le strade, e quindi siamo rimasti a piedi. A quel punto ho pensato di andare a prendere una vecchia auto che si trovava nell’altra casa dei miei genitori, distante un quarto d’ora a piedi. Mi sono avvolta un lenzuolo bianco addosso e ho cominciato a camminare. La strada era deserta ma si sentiva sparare costantemente. Quando sono arrivata la macchina non è partita perché aveva la batteria scarica: ho cominciato a piangere e a gridare, e un vicino mi ha sentito ed è corso a vedere cosa stesse succedendo. Ha provato a sostituire la batteria, ma anche questa era scarica.
Allora sono uscita in strada, completamente isterica, e cercavo di fermare ogni auto che passava, ma tutti si scusavano e andavano via. Finché una famiglia non si è fermata e abbiamo messo in moto la mia macchina.
Sono tornata indietro cercando di evitare le strade principali dove fermavano ai chekpoint, ma uno non l’ho potuto evitare. E così prima che mi chiedessero i documenti, che non avevo con me perché nella fretta li avevo dimenticati, sono scesa dall’auto piangendo e urlando che mi dovevano credere se gli dicevo che il mezzo era mio. Alla fine hanno solo fatto un controllo, dal bagagliaio cadevano i giocattoli e le cose che avevo caricato alla rinfusa e mi hanno lasciata passare.
Quel giorno, tutte le persone che avevano deciso di partire con la propria auto sono state ammazzate per strada. Noi avremo tentato il giorno dopo. Non c’era nessun corridoio, così abbiamo deciso di formare una carovana di macchine e andare, ci saranno stati duecento mezzi. Per la prima volta dal 24 febbraio ho rivisto la mia città e sembrava un film: case distrutte, incendiate, macchine ridotte a rottami, persone morte lungo la strada. Abbiamo superato sette posti di blocco russi prima di riuscire a raggiungere la prima postazione ucraina. Non so descrivere cosa abbia provato quando ho rivisto la nostra bandiera.
Dove vi siete diretti?
Siamo andati a Kyiv, abbiamo impiegato sette ore per fare dodici chilometri e lì abbiamo trovato un altro mondo. A così breve distanza non c’era più la distruzione, c’era anche qualche negozio aperto, passavano degli autobus. Non riuscivamo a crederci, è stato molto difficile accettare che a casa nostra fosse rimasta solo la morte.
Abbiamo proseguito fino a Vasylkiv, dove abbiamo trovato accoglienza in una chiesa che era stata adibita a rifugio per gli sfollati. Il giorno dopo siamo arrivati a Bila Tserkva, e ci siamo fermati in un albergo talmente pieno che ormai la gente dormiva anche sul pavimento con le coperte. Da lì abbiamo proseguito verso ovest, fino a Truskavets, dove siamo ora.
Come è cambiata la vostra vita in queste settimane?
Eravamo una famiglia benestante, io sono capo contabile in una compagnia canadese di energia elettrica, mio marito aveva un’attività in proprio. Ci eravamo costruiti una bella casa, viaggiavamo spesso all’estero perché potevamo permettercelo. Ora l’unica che lavora ancora sono io, da remoto, ma non si sa fino a quando, perché una delle centrali gestite dalla mia società è stata distrutta. Mio marito ha perso tutto. Quando squilla il telefono ho paura di rispondere perché potrebbero essere brutte notizie: l’altro giorno una vicina di Hostomel mi ha chiamato per dirmi che mia zia è stata uccisa mentre stava cucinando in cortile. Una mia amica originaria del Donbass, già fuggita dalla guerra nel 2014, è stata colpita in auto mentre cercava di lasciare la guerra una seconda volta da Irpin. Lei e il marito sono rimasti feriti, la figlia adolescente e la madre anziana sono state uccise.
Si vive così, col fiato sospeso e il senso di colpa, ma noi aspettiamo solo di tornare a casa. Ora che Bucha è stata liberata, un vicino è andato a vedere la nostra abitazione e ha detto che sono rimasti solo i muri, perché dentro è stata completamente saccheggiata. È possibile che ci voglia molto tempo prima di poter rientrare, ma noi siamo pronti, anche se non sarà rimasto niente.