Joy e Blessing viaggiano sul pullman da Palermo a Catania, dove hanno il cambio per una meta ben più lontana nel nord Italia: Torino. Durante le due ore e quaranta minuti di viaggio non si rivolgono la parola neanche per un istante. Sembrano due passeggere sconosciute, ma si sono sedute accanto, nonostante i diversi posti vuoti nel pullman. Hanno la stessa meta e soprattutto la stessa persona che le aspetta. Con il suo Nokia vecchio modello sempre in mano, una volta giunte a Catania, Joy si assicura che sia lì il cambio per Torino, chiedendo ad altri passeggeri. Hanno entrambe il volto terrorizzato anche perché questo viaggio dalla Sicilia al Nord non l’hanno mai fatto. Diversamente da loro, centinaia, forse migliaia, di giovanissime donne nigeriane, lo percorrono da anni. Se non è Torino, è Verona, è Pescara, è Roma, se non addirittura oltralpe. Questi sono infatti gli snodi principali della tratta della schiavitù sessuale e le due adolescenti, entrambe originarie di Benin City in Nigeria, sono solo all’inizio.
Ma qualcosa, negli ultimi mesi, è cambiato.
“Le nostre famiglie ci hanno chiamato e avvisato. Non dobbiamo più pagare, non dobbiamo più stare con le madame” dice Blessing, in un momento di fiducia. “Ma non sappiamo ancora dove andare, non sappiamo esattamente cosa fare”. Lo sguardo continua ad essere spaventato, ma c’è qualcosa che si muove dentro loro. Una sensazione, che qualcosa potrebbe cambiare, o meglio finire.
La gioia di Sandra, il sollievo di Beauty
Le chiamate piene di speranza non hanno raggiunto solo Joy e Blessing, ma migliaia di donne. La notizia è girata tramite Facebook e Youtube e molte si sono subito messe in contatto tra loro per capire cosa fare.
Si è così sparsa la voce dell’editto dell’Oba (Re) Ewuare II che il 9 marzo a Benin City – Edo State, Sud-est nigeriano – ha cambiato il destino di migliaia di giovani donne. In Italia, così come in tutti i paesi in Europa e nel resto del mondo dove le giovani donne vittime di tratta vengono mandate: dalla Russia all’India, dalla Spagna alla Danimarca. Nel 2017 l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) aveva stimato che il traffico di donne provenienti dalla Nigeria fosse aumentato negli ultimi anni del 600%.
“L’Oba ha un potere come un secondo Dio” dichiara Sandra Faith Erhabor, mediatrice culturale nigeriana e vicepresidentessa dell’associazione ‘Nigerian Association Verona’. “Il mio Oba ha detto così: i riti juju compiuti dalle ragazze prima del viaggio non hanno più valore e la maledizione cade su chi continua a sfruttare queste ragazze. L’Oba ha una funzione spirituale e morale: è il nostro rappresentante di Dio sulla terra. La tratta non deve più esistere: persino le madame hanno paura. La mafia deve avere paura.”
L’entusiasmo di Sandra è coinvolgente. La sua fiducia nell’Oba le fa predire che la tratta è destinata a finire, almeno tramite i falsi riti e ricatti spirituali. “Se le donne continuano ad andare in strada è perché devono vivere e necessitano dei soldi per pagare l’affitto e, purtroppo, in assenza di altro, continuano ad andare in strada.”
Oltre che leader religioso, l’Oba è un uomo di cultura rispettato, e conosce bene il tema della tratta essendo stato anche ambasciatore in Italia. A Benin City, nelle settimane successive al rito dell’Oba, alcuni native doctors o preti juju si sono dati alla fuga; altri hanno contattato le famiglie delle ragazze per restituire i cofanetti del giuramento, dove erano custoditi peli, capelli e sangue delle donne. Dalla Libia, invece, è giunta voce che alcune ragazze sono state abbandonate dalle madame nel cammino: libere sì, ma in un contesto dove saranno probabilmente preda facile di altri sfruttatori. Nel frattempo, il quadro legale ed istituzionale legato alla lotta alla tratta nell’Edo State si è allineato con la decisione dell’Oba. Il 23 maggio scorso Obaseki, governatore dell’Edo State, ha firmato una legge per il divieto, la prevenzione, la punizione del traffico di esseri umani. Lo scopo è difendere le vittime e al contempo promuovere cooperazione, anche internazionale, per combattere le attività illegali nella migrazione.
La storia di Sandra ed il suo percorso, anche professionale, sono legati alla tratta. “Quando sono partita agli inizi degli anni Novanta, pensavo di fare in Italia un lavoro come baby-sitter. Nessuno allora sapeva che saremmo finite in strada. Mi sono ribellata e non ho pagato. I miei genitori hanno fatto sacrifici per farmi studiare per poi trovarmi a fare la prostituta in Italia? La Polizia a Torino non ha fatto niente, allora sono scappata a Verona dove una suora della Caritas mi ha aiutata. Per questo vivo qua. In Italia, in quegli anni, tra il ’93 ed il ’95 molte di noi si rifiutavano di pagare. Ed è così che sono iniziati in Nigeria i riti juju prima del viaggio, dal ’95 in poi, per legare le ragazze al debito, tramite un giuramento”. Con la benedizione dell’Oba, un ciclo nelle loro vite si concludono e si aprono nuovi orizzonti di speranza per molte.
Sandra e le donne che a Verona sono impegnate con lei da anni contro la tratta hanno organizzato un’assemblea all’università e una festa di quartiere per aprire un dibattito pubblico trasversale sulla questione e celebrare la notizia, “Freedom for Few is Freedom for All”.
Accanto a Sandra, la ricercatrice dell’Università di Verona Rosanna Cima, pedagogista che da anni anche al fianco di Sandra, organizza percorsi di formazione per i professionisti nei servizi socio-educativi. “Sandra non è una testimone che porta la sua esperienza. Sandra è docente insieme a me. Io sto vivendo la gioia di Sandra per questa notizia ed è così che abbiamo deciso di portarla all’Università di Verona, in un incontro che riunisse diversi livelli: dagli operatori, alla comunità nigeriana.” Sandra e Rosanna da quattro anni insegnano in corsi di formazione che da Verona, tramite fondi europei, hanno portato in Spagna, Francia, Romania.
Al contrario di Sandra, Beauty è arrivata in Italia meno di un anno fa. “Mi sento sollevata. Un sollievo che mi rende ora felice e a mio agio qui”. Beauty è scappata a Pescara da Torino, dove i suoi sfruttatori l’avevano picchiata. Ha incontrato una ragazza italiana che l’ha aiutata nella fuga e messa in contatto con un’avvocatessa. “Mia sorella era presente al Palazzo dove l’Oba ha fatto la cerimonia a Benin City. Il prete juju ha ridato a mia sorella il cofanetto coi miei capelli e pezzi di unghia. Mi sento veramente libera adesso. Il juju ci fa paura. Ma prendiamo seriamente le parole dell’Oba. Non funzionerà al 100% ma molte di noi adesso si sentono libere”. Adesso Beauty lavora come badante, dalla mattina alle dieci fino alla sera tarda. Ha solo paura per il fratello rimasto a Torino, che tramite l’avvocatessa vorrebbe far arrivare a Pescara. “Ci sono delle persone testarde che fanno il lavoro del diavolo. Io sono libera ma ho paura per lui”. Insieme al fratello, Beauty porterebbe con sé tante amiche, ma non sempre ci sono possibilità fortunate, di lavoro e accoglienza per tutte. E l’ottimismo e la fiducia di Sandra non trovano lo stesso riscontro altrove.
“Non si è fatto nulla”
L’associazione PIAM di Asti ha analizzato in un documento pubblico i rischi presenti e futuri dell’editto. Se da un lato infatti si è accolta con la stessa iniziale euforia la diffusione dell’editto – evento giudicato di portata epocale – e si è rilevato un afflusso maggiore nella richiesta di accoglienza da parte di chi ha lasciato la strada, dall’altro c’è il rischio che i ricatti dei trafficanti si facciano ora maggiori per dimostrare che la loro forza è più grande di quella dell’Oba.
Un primo metodo per aggirare l’editto potrebbe essere quello di far compiere i riti juju fuori dall’Edo State, dove la fede nel potere spirituale dell’Oba non ha la stessa forza, o addirittura compierli in Italia. “Alcune madame sono di etnia Yourouba o Ibo e non provengono da Edo State, quindi non credono all’Oba di Benin City” dichiara Lilian, mediatrice culturale dal 2008 in Italia che prima di partire aveva fatto il rito juju ‘completo’ e che ora lavora con l’associazione On the Road a Pescara. “Altre madame hanno ingannato le ragazze dicendo che l’annullamento del rito juju compiuto non è retroattivo” racconta invece Massimo Ippoliti, operatore dell’unità di strada sempre di On the Road, “e dunque, una volta fatto il rito e il giuramento, le donne devono comunque ormai pagare”. Come se l’editto valesse solo da quando è stato pronunciato, mentre chiaramente l’Oba intendeva annullare i riti già compiuti. “Credere alle madame fa parte della complessa forma di assoggettamento che le tiene legate a queste donne”, continua Massimo.
“Alcune ragazze hanno dichiarato in sede di Commissione Territoriale per la richiesta d’asilo che hanno lasciato le case dove vivevano, sfruttate dalle madame, dopo l’editto. Questo è un fatto molto positivo” afferma Alberto Mossino, di Piam Asti. “Sappiamo di molte madame che hanno lasciato andare le ragazze per paura.”
A questi eventi, però, non è seguito finora nessun impegno da parte delle istituzioni.
La stessa associazione Piam di Asti, appena due settimane dopo l’editto, aveva fatto delle proposte operative di intervento, auspicando in particolare una soluzione che il Ministero dell’Interno avrebbe potuto mettere in atto, “autorizzando tramite le Prefetture, l’inserimento delle ragazze nigeriane che si ribellano ai trafficanti in strutture CAS gestite dagli enti anti-tratta attuatori o titolari di progetti articolo 18, nell’attesa che si liberino posti nelle strutture del sistema nazionale anti-tratta”. Prevedendo un aumento delle denunce, situazione effettivamente verificatasi, un’informativa precisa del Ministero della Giustizia e la predisposizione di un apposito piano organizzative avrebbero potuto facilitare e velocizzare le procedure.
“Non si è fatto nulla” dice Rosanna Paradiso, esperta del programma anti-tratta della Procura di Torino. “Il ministero di Giustizia italiana dovrebbe ufficialmente ricevere la notizia dall’ambasciata nigeriana, il governo nigeriano dovrebbe mandare una lettera ufficiale e prendere un appuntamento urgente dal ministro. L’Oba ha fatto questo passo importantissimo, una scelta saggia. Ma nel suo rito c’è anche una minaccia per chi continua a praticare i riti e per i trafficanti, prenderlo sul serio significa anche riconoscere il suo rito, la sua maledizione contro chi non lo ascolta”.
Dal punto di vista legale, l’avvocatessa Michela Manente di On the Road non è convinta che ci sarà un grande cambiamento. “La domanda di accoglienza allo sportello della nostra associazione si è triplicata dopo l’annuncio dell’Oba. Anche a livello di denunce, il numero è aumentato, ma di poco. Se denunciano, si riapre per loro il percorso nel sistema di accoglienza che molto spesso hanno abbandonato, perdendone dunque il diritto. Le vittime di tratta devono anche fornire prove: chi decide di uscirne, deve dire qualcosa di rilevante, se non vogliono proprio denunciare. Portare la storia in questura è nella tutela della vittima secondo il percorso istituzionale. Poi chiaramente noi accoglieremo lo stesso, non lasciamo nessuno in strada, in primis i casi vulnerabili”. Chi decide di liberarsi dalla tratta può seguire il percorso giudiziario o il percorso sociale, senza l’obbligo di denuncia.
“Le denunce per le ragazze sono spesso pericolose, le madame sono le vicine di casa, come fanno a denunciarle?” dice Osas Egbon dell’associazione Donne di Benin City di Palermo che sono state le prime in Italia ad organizzare una festa per la liberazione. “Resta difficile per le ragazze uscire dalla strada, ma l’Italia deve accettare che adesso sono libere. Le ragazze hanno detto che le madame le hanno lasciate libere. Possono fare la denuncia delle madame in questura, ma loro stesse chiedono: ‘perché mi porti in questura? Ah, devi arrestare la madame? Allora no, già mi ha liberato, non voglio che sia arrestata’”.
Denuncia o no, la mafia è più forte
Di fatto, la rete della mafia ben ramificata che agisce e gestisce questo traffico ha una forza più grande delle stesse madame. Il 21 maggio al Tribunale di Palermo in una sentenza di primo grado sono stati condannati a 87 anni di carcere quattordici membri della Black Axe come associazione di stampo mafioso, una delle gang più strutturate che gestisce spaccio e prostituzione a Palermo, con sede nel centrale quartiere di Ballarò dove ha stretto legami con la mafia locale, Cosa Nostra.
“Sono venuta a sapere che ci sono già nuove riunioni a Ballarò sul come organizzarsi. Probabilmente ci sarà più prostituzione indoor e più violenza” dice Osas. “Una delle altre confraternite più pericolose anche della Black Axe è Eiye; sono spesso in lotta fra loro. Non hanno solo asce, anche pistole”, riferendosi al nome Black Axe che significa appunto ‘ascia nera’. “Black Axe, Eiye, Blue e molte altre. Io ho paura di loro. Sono pericolosi e quando li vedi, passi, fai finta di non vederli”, confessa Toyn, di Giulianova, in provincia di Teramo, ex vittima di tratta che si è liberata. “In Nigeria, sono i figli dei ricchi: possono compiere dei crimini tanto i papà li tirano fuori.” La catena iper-codificata tra Benin City e l’Italia, gestita da tanti facilitatori nelle diverse tappe, con la paura e l’omertà che genera, non si fa insomma intimidire né dall’Oba né dalle condanne. “Bisognerebbe aprire più indagini, tracciare i soldi che le madame ricevono, ci vorrebbe meno assistenzialismo che favorisce in fondo la mafia e più criminalizzazione dei responsabili” afferma Luana Melza di On the Road.
Di questo editto, in una situazione in costante evoluzione, gli effetti immediati si sono visti nel primo mese: “si festeggiava e ballava per strada, là dove le ragazze sono costrette a vendere il proprio corpo. C’era un sollievo collettivo,” racconta Massimo “ma adesso mi sembra tutto uguale: stesse posizioni, stesse tariffe, stesse persone, anzi di nuove”. Secondo Massimo, che le ragazze le va a trovare ogni giorno per strada, la schiavitù sessuale nigeriana dopo l’Oba si occidentalizzerà, ovvero ci sarà meno quel tratto peculiare legato ai riti ancestrali africani ed il legame psicologico che creava, ma come le donne dell’Est, avranno più uomini che spacciandosi per finti fidanzati o protettori, costringeranno le ragazze a vendersi. Magari con una dose di alcool e di droga in più.
Per Lilian invece anche se non finirà lo sfruttamento, almeno non ci sarà più l’ansia del debito, una vera malattia per le ragazze: “Dopo l’Oba, una ragazza che conosco ha cominciato ad ingrassare, mentre prima dimagriva per ogni centesimo di euro che ancora doveva pagare”.
“Gli effetti dell’Oba si vedranno nel lungo periodo. Sicuramente un aspetto positivo c’è: adesso a Benin City la tratta è vista come negativa, se ne parla male, ci sarà un cambiamento culturale progressivo” spiega Vincenza Castelli, operatrice dell’accoglienza di On the Road. “Era difficile far capire alle donne vittime di tratta che erano delle schiave, vittime di un fenomeno più grande di loro e della loro sofferenza individuale”.
Con la povertà e la mancanza di opportunità in Nigeria, nonché con l’avidità delle famiglie spesso colluse coi trafficanti, le ragazze continueranno a partire. Libere forse dal juju, ma non dai tentacoli dei mafiosi. Tuttavia, è proprio in quell’istante di gioia, nel sollievo di Beauty, nei chili in più di chi non pagherà il debito e nella fede del proprio Oba, che forse una rivoluzione culturale può cominciare. Come dice Sandra, “Freedom of few is freedom for all”.
In copertina: Sandra ascolta la conferenza di Wole Soyinka a Palazzo Steri. Giugno 2018, Palermo (fotografia di Naomi Morello, come tutte le immagini di questo articolo)