Il navigatore satellitare, appena fuori dalla strada principale, non si orienta più. Campi agricoli, a perdita d’occhio, canne al vento. Subito dietro un canneto come un altro, all’improvviso, la terra diventa sabbia. Si avanza affondando un po’, fino alla riva. Benvenuti sul fiume Evros, il confine tra la Grecia e la Turchia: miglia e miglia di tutto e di niente. Uno stormo di fenicotteri si alza in volo, offeso dalla presenza umana. Tra quelle canne, da sempre, ci sono persone che avanzano verso un futuro incerto.
Il confine del fiume Evros, come quello tra Turchia e Grecia in generale, è sempre stato caldo. Le tensioni politiche tra i due paesi hanno una lunga storia, per anni le opposte rive del fiume sono state minate. Oggi quella tensione si chiama Balkan Route: assieme alla rotta marittima per le isole, in quella terra che non è mai finitamente greca o turca, nel 2015 si riversarono decine di migliaia di persone. Oggi sono piccoli gruppi, via terra o via mare, per la pericolosa rotta per le isole o per il porto Alexandroupolis, a passare la frontiera. Che tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo ha vissuto una nuova, grande crisi.
“L’Unione europea si sta nascondendo dietro all’abuso di potere delle forze di polizia greche, anziché aiutare la Grecia a tutelare i richiedenti asilo e a ricollocarli nei vari Stati membri. L’Europa dovrebbe proteggere chi è in difficoltà e non fiancheggiare chi picchia, deruba, denuda e respinge i richiedenti asilo al di là dell’Evros”. Nadia Hardman, ricercatrice di Human Rights Watch, racconta così lo spazio di poco più di 500 km di lunghezza, di cui meno della metà segna il confine greco-turco. I fatti a cui fa riferimento sono quelli avvenuti tra fine febbraio e inizio marzo nei pressi di Pazarkule, l’unico punto dove il corso del fiume piega a destra e forma un’ansa che penetra l’Asia. È lì che gli interessi geopolitici della Turchia hanno incrociato i primi sintomi europei della pandemia da coronavirus. A farne le spese, i migranti che si sono trovati schiacciati in un limbo fisico e burocratico.
Dal 27 febbraio, giorno in cui il governo turco ha annunciato di voler “aprire le frontiere” verso l’Europa, nella striscia di terra incuneata tra Turchia, Grecia e Bulgaria hanno iniziato a confluire centinaia di migliaia di persone, tra migranti e richiedenti asilo: 150mila per le autorità turche, un po’ meno di 3.500 secondo i dati ufficiali diffusi da Atene. Uomini e donne convinti che questa sarebbe stata la volta buona. Molti di loro, prima di raggiungere Pazarkule, ultima località turca ai confini d’Europa, si sono disfatti di tutti i pochi averi accumulati nella precarietà di una vita nomade. Molti di loro sono stati spinti ad arrivare fino a quel punto dalle stesse autorità turche.
Ester Cristaldi, che vive e studia a Istanbul, per la rivista Q Code Magazine, aveva raccontato quelle giornate con un reportage e oggi – rispetto a quanto si parli del tema – racconta: “I media turchi si sono concentrati molto sul fatto che fossero tanti i rifugiati, siriani e non, a partire verso il confine con la Grecia. Molta enfasi è stata data a questo aspetto, perché negli anni i rifugiati sono stati visti dall’opinione pubblica e dai media populisti come la reale causa dell’aumento della criminalità in Turchia e della crisi economica. Quando si parla di rifugiati, in Turchia, i primi a venire in mente al turco medio sono i siriani. È comune leggere titoli come ‘I siriani se ne vanno’. Questo perché, secondo molti turchi, la distribuzione dei rifugiati in questi anni non è stata equa: alla Turchia 3 milioni e mezzo, e ai Paesi europei quanti, invece? Il fatto che venissero inviati verso il confine greco non ha attirato molto l’attenzione. I media continuano a mostrare immagini dei rifugiati nei campi profughi greci parlando di ‘crisi umanitaria’ e delle violenze contro i rifugiati da parte della polizia greca. In generale, con l’emergenza Covid-19, l’atteggiamento dei media sembra essere cambiato. Ci sono notizie che enfatizzano come, nel caso in cui fossero affetti da coronavirus, i rifugiati avrebbero assistenza sanitaria garantita presso gli ospedali turchi, altri che fanno notare la mancanza di cibo, pannolini e medicine per i più disagiati. Alcuni giornalisti fanno criticamente notare come non sia stata una mossa intelligente quella di aprire i confini ai rifugiati a fine febbraio: al momento ci sono molte persone per strada e senza un tetto. In altri casi si fa notare come in questo periodo molti rifugiati siano rimasti senza lavoro o costretti a lavorare illegalmente. I politici e l’opinione pubblica ne parlano invece poco, nonostante la situazione al confine con la Grecia resti drammatica: lo scorso 30 aprile, al confine tra Grecia e Turchia, si sono verificati scontri tra l’esercito turco e Frontex. Allo stesso tempo, pare che il flusso di rifugiati che si sposta dalla Turchia alla Grecia sia calato del 85-90%. Stando alle statistiche, è il dato più basso dal 2009. Rispetto alle condizioni dei profughi nei campi turchi, invece, non si danno mai informazioni.” Per la stesura di questo articolo, si è tentato di contattare Unhcr – Turchia, ma non è giunta nessuna risposta.
Al di là degli ultimi avvenimenti, però, le immagini di quanto accaduto al confine greco-turco tra il 4 e il 7 marzo, hanno lasciato il segno. Alcuni migranti sono stati picchiati e detenuti dalle forze di polizia e da uomini armati non meglio identificati, come dimostrano le testimonianze raccolte da Human Rights Watch. Tre di loro avrebbero perso la vita.
Uno era Muhammad Gulzar, originario del Pakistan. In base ai documenti che gli sono stati trovati addosso, fino a gennaio, viveva e lavorava ad Atene. Sarebbe tornato nel suo paese d’origine per sposarsi. Secondo l’inchiesta dello Spiegel, basata sulla ricostruzione di Lighthouse Reports, Forensic Architecture e Bellingcat, il proiettile che ha ucciso Gulzar è stato sparato il 4 marzo dal lato greco del confine. Il rimpallo di responsabilità sulla pelle dei disperati è partito da Atene: “Sono tutte fake news”, ha dichiarato lo stesso 4 marzo il vice ministro e portavoce del governo di Mitsotakis, Stelios Petsas:
Greek Government Spokesperson @SteliosPetsas: The Turkish side creates and disperses fake news targeted against Greece. Today they created yet another such falsehood, with injured migrants and one dead supposedly by Greek fire. I categorically deny it. pic.twitter.com/ApHxJGTPEr
— Ελληνική Κυβέρνηση (@govgr) March 4, 2020
Non la pensa così Massimo Moratti, vice direttore dell’ufficio europeo di Amnesty International: “Le persone si sono recate dalla Turchia alla Grecia per cercare sicurezza, eppure sono state accolte con una violenza così grave che almeno tre persone sono state tragicamente uccise. Le accuse di violenza devono essere indagate prontamente e in modo imparziale. Tutti dovrebbero essere trattati umanamente, protetti dalla violenza e avere accesso alla protezione nei Paesi in cui cercano sicurezza”. Amnesty International ha presentato alla stampa l’indagine: “Europe: Caught in a political game: Asylum-seekers and migrants on the Greece/Turkey border pay the price for Europe’s failures”, svolta dall’organizzazione rispetto a quanto accaduto alla frontiera greco-turca nei mesi scorsi.
“A fine febbraio, inizio marzo, il presidente turco Erdogan ha dichiarato che non avrebbe più fermato la gente che voleva lasciare la Turchia, dichiarando i confini aperti. Un segnale forte e chiaro. Le guardie di frontiera turche, al confine con la Grecia, hanno cessato i controlli e autobus gratuiti trasportavano chi lo volesse al confine, nella zona di Edirne”, spiega Moratti. “Avendo lavorato tanto, in questi anni, con le persone lungo la Balkan Route, era chiaro cosa sarebbe successo: le parole ‘borders are open’ sono come una formula magica che mette le persone in moto, in generale, figurarsi quando questo messaggio arriva direttamente dal presidente della Turchia. Ovviamente i confini erano aperti solo dalla parte turca, la Grecia ha messo in campo uno spiegamento di forze notevole, sia di polizia che dell’esercito. Questo ha generato – per alcuni giorni – violenti scontri tra coloro che tentavano di passare e le forze dell’ordine greche, che li hanno respinti utilizzando gas lacrimogeni, effettuando arresti e, in tre casi che abbiamo potuto documentare, hanno utilizzato pallottole che hanno causato almeno tre vittime”, spiega il dirigente di Amnesty International.
Alcune persone sono riuscite ad entrare in Grecia, ma sono state fermate e tenute in detenzione in siti non ufficiali e poi respinti. “Parecchie migliaia di persone sono rimaste in zona, dormendo all’addiaccio, nel tentativo di passare. La situazione è andata avanti fino ai primi giorni di marzo, poi alcune persone sono tornate indietro, altre si sono praticamente accampate là. Il 27 marzo le ultime persone sono state sgomberate dagli agenti turchi per ragioni sanitarie, avendo il timore che si potesse diffondere il virus Covid-19. In parallelo, a inizio marzo, erano ripartite anche le imbarcazioni dalla costa turca dirette verso le isole greche come Lesbo, Samos e le altre. Anche in questo caso la situazione era molto preoccupante per queste persone: dalla parte greca abbiamo registrato tentativi di motovedette di affondare i gommoni, oppure casi di persone che sono arrivati a Lesbo e sulle altre isole, ma sono stati respinti dai cittadini sulla costa, alcuni sono stati costretti a rimanere sulle imbarcazioni per ore senza poter sbarcare. Centinaia sono sbarcati, ma non hanno potuto richiedere asilo, perché i greci prima li hanno tenuti sulle spiagge e sulle barche, poi, con un decreto presidenziale, hanno sospeso il diritto d’asilo. E questo non si può fare, è una violazione della Convenzione dei rifugiati, una mossa illegale del governo greco, come illegali sono stati i respingimenti alla frontiera di quei giorni, le violenze e le detenzioni illegali. Oggi quel decreto presidenziale non è stato confermato dal parlamento, ma gli uffici per le richieste d’asilo sono rimasti chiusi causa pandemia per due mesi e mezzo. Un altro aspetto di quei giorni che andrà chiarito è come mai la zona dove sono stati portati i profughi è vicina anche al confine con la Bulgaria, ma il flusso era diretto solo in Grecia.”
Già, la Bulgaria. Basta passare a piedi il confine tra Grecia e Turchia, a nord, tra Kastanies (Grecia) e Pazarkule (Turchia), per vedere le indicazioni stradali verso Bulgaristan, come viene chiamata in turco. Eppure, tra venditori annoiati di sigarette a prezzo conveniente, e qualche compratore in senso opposto che porta alcool, il confine della tripla frontiera – nei caldi giorni di fine febbraio – non è stato sfiorato.
“Alla fine di febbraio, quando Erdogan ha aperto il confine, c’è stata tensione in Bulgaria per una nuova crisi dei rifugiati. Si sono svolti incontri a tutti i livelli, nazionali e internazionali, coordinati dall’International Organization of Migration (IOM). All’inizio di marzo, il primo ministro bulgaro si è recato in Turchia per una visita ufficiale in materia di migrazione e questo ha tranquillizzato l’opinione pubblica, che sui media continua a leggere reportage allarmanti dal confine greco”.
A spiegare la situazione dal fronte bulgaro è Boriana Rainova, ricercatrice dell’Università di Sofia in Sociologia Economica, che ha lavorato a lungo per IOM e si occupa di migrazioni.
“La preoccupazione maggiore è quella del Covid -19, ma dal 13 marzo non sono state date indicazioni particolari rispetto ai migranti. Durante la crisi, noi dell’IOM eravamo allertati in particolare nella zona di sicurezza per i minori non accompagnati. I minori erano isolati e non potevano avere contatti perché il governo bulgaro ha vietato l’accesso ai centri di accoglienza a tutte le ONG. C’era solo personale della SAR (Agenzia di Stato per i rifugiati). Per questo motivo, il resto dei lavoratori delle ONG ha iniziato a lavorare con molti rifugiati e richiedenti asilo che vivono fuori dai campi e a fornire loro consulenze online. Questo è senza dubbio un aiuto, ma temo che non sia sufficiente. Come potete immaginare, molti rifugiati hanno perso il lavoro e hanno chiesto un aiuto finanziario supplementare, non solo per la distribuzione di cibo. In generale, la situazione dei campi in Bulgaria è tranquilla: non sono pieni e hanno acqua calda e materiale igienico. Al momento nessuno parla del confine greco-turco. Lo stato di emergenza in Bulgaria è terminato il 13 maggio scorso e i rifugiati hanno ricominciato a tentare di attraversare il confine con la Serbia e, in alcuni casi, ci sono riusciti, anche se non è facile e se la polizia li cattura li rimanda indietro e devono essere di nuovo in quarantena per 14 giorni.”
Al momento, la situazione al confine greco-turco è apparentemente tranquilla, ma a fine aprile sono iniziati ad emergere i primi strascichi di quei giorni concitati. Secondo alcune testimonianze raccolte da diversi attivisti sul campo e riportate anche dal Wall Street Journal e dal Deutsche Welle le autorità greche starebbero sfruttando l’emergenza Covid-19 per mettere in atto un’operazione sistematica di espulsioni illegali verso la Turchia.
A confermarlo a Open Migration anche Hardman, la stessa ricercatrice di Human Rights Watch autrice del rapporto sulle violenze. “Al momento Hrw sta ancora indagando il fenomeno, ma secondo le dichiarazioni raccolte finora le forze dell’ordine starebbe prelevando i migranti dai campi informali o dai centri di accoglienza e li starebbero portando sulle rive dell’Evros per poi costringerli a tornare in Turchia”. Come ricostruito da WSJ e da DW, si tratta di uomini e donne arrivati in Grecia nei primi mesi del 2020 e quindi impossibilitati a fare richiesta d’asilo, visto che il diritto era sospeso e gli uffici chiusi.
Come nel caso di Bakhtyar, un ragazzo afghano di 22 anni che dopo essere riuscito a bucare il confine a febbraio, aveva raggiunto il campo profughi di Diavata, alla periferia nord di Salonicco. Al suo arrivo è stato registrato dalle autorità, il primo step per ottenere la protezione internazionale, ha raccontato al DW. Una fotografia del suo documento mostra la data del 12 febbraio 2020. Una mattina di aprile è stato fermato dalla polizia greca: “Vieni con noi e ti facciamo avere i documenti”, gli avrebbe garantito l’agente.
Sempre al DW ha detto di essere stato messo su un furgone bianco e portato in una stazione di polizia nel centro di Salonicco. Invece di ottenere i documenti come gli era stato promesso, la polizia gli ha confiscato tutte le sue cose, incluso il telefono. Poi è stato trasferito in un’altra stazione di polizia dove, dice Bakhtyar, gli agenti lo hanno schiaffeggiato e preso a calci prima di metterlo sul retro di un altro furgone, diretto questa volta al confine con la Turchia. Quando è stato fatto scendere, si è reso conto che non era solo. Insieme a lui c’erano altri richiedenti asilo ordinatamente allineati lungo la riva dell’Evros in attesa che una barca guidata da un uomo che parlava greco li portasse sull’altra sponda. In Turchia.
La stessa sorte sarebbe toccata anche a centinaia di altri migranti e richiedenti asilo, come dimostra il documento raccolto da Border Violence Monitoring Network, in cui si racconta di prelievi forzati dalle strutture di Diavata e Drama, violenze e torture. A parlare sono anche i segni che portano sui corpi. Alcuni sono stati costretti a firmare dei documenti scritti in greco e ad attraversare il fiume. “Ti facciamo tornare presto da Erdogan”, questa la frase di commiato che degli agenti avrebbero urlato ad alcuni di loro.
In copertina: la strada verso il check-point di Kastanies. Foto di Laura Filios