Sono passati ormai tre mesi e diciotto pescatori partiti dall’Italia per una battuta di pesca al largo della Libia, sono ancora in stato di fermo a Bengasi, nell’estremo est del paese controllato dal Generale Khalifa Haftar. Nessun capo di imputazione ufficiale, se non accuse lanciate via stampa su pesca non autorizzata di gambero rosso in acque libiche. Ad un certo punto i media allineati con il Generale dell’Est della Libia avrebbero mostrato anche le immagini di un carico di stupefacenti che sarebbe stato rinvenuto a bordo dei pescherecci italiani.
A quel punto da Bengasi è stata avanzata anche una proposta di scambio di prigionieri tra l’Italia e la Libia. Da oltre cinque anni quattro giovani calciatori di Bengasi sono in carcere in Italia con l’accusa di traffico di esseri umani. Sono accusati di essere i responsabili della strage avvenuta nel Mediterraneo centrale il giorno di Ferragosto del 2015, con 49 morti che vennero fatti sbarcare al porto di Catania dalla nave norvegese Siem Pilot che li aveva stipati all’interno di una cella frigo. L’impianto accusatorio è debole, ma sono stati giudicati colpevoli in primo e secondo grado. I ragazzi poco più che ventenni sono stati condannati a trenta anni di carcere in Italia. Dalla scorsa estate attendono che venga accettato il ricorso in Cassazione. Uno scambio che si appellerebbe ad un accordo bilaterale tra l’Italia e la Libia che però non è stato ancora ratificato.
“Il Magnifico ci ha ricevuto nel suo ufficio” racconta da Bengasi Saif, fratello di Alaa, uno dei quattro calciatori in carcere in Sicilia, riferendosi al Generale Khalifa Haftar, “e secondo il Magnifico, ogni libico deve essere processato in patria”. Da quando suo fratello piccolo è finito in prigione, Saif ha abbandonato l’università a anche l’Olympic Team di cui faceva parte. “Io so che mio fratello è innocente, e chiunque lo conosca non può che esserne certo” spiega Saif. Alaa aveva chiesto il visto alcune settimane prima, ma la sua richiesta per il visto Schengen era stata respinta. “Un giorno ha saputo di un altro giocatore di Bengasi che ce l’aveva fatta ad arrivare in Europa via mare, e ha tentato la fortuna pure lui” sospira il fratello. “Sai che cosa mi ha chiesto l’ultima volta che abbiamo parlato per telefono” La maglietta del Bengasi Alhi, la sua squadra di calcio preferita. E dopo il Bengasi, Alaa tifa Milan” sorride Saif.
Nonostante tre mesi siano già passati dallo scorso primo settembre in cui i pescherecci italiani furono fermati dal personale militare di Haftar, le autorità di Bengasi ancora non hanno formalizzato le accuse. “Il peschereccio Medinea era a 40 miglia dalla coste libiche” dice a Open Migration Marco Marrone, armatore di uno dei pescherecci sequestrati dai libici. “Sì, sapevamo che per i libici le acque territoriali arrivano fino a 75 miglia dalla costa. Ma noi, mi creda, noi ci spingiamo più in là per un pezzo di pane”. Nel 1973 la Libia dichiarò il Golfo di Sirte come parte delle sue acque interne. All’epoca i principali paesi membri dell’Europa tra cui Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito liquidarono come illegittima la rivendicazione dei libici. Ma nel 2005 e nel 2009 venne dichiarata una zona economica esclusiva nel Golfo di Sirte le cui miglia di competenza però restavano non definiti. Nel giugno del 2018, sulla scorta del processo di esternalizzazione della frontiera a sud dell’Europa, l’Organizzazione Marittima internazionale (IMO) registra su comunicazione delle autorità libiche la zona di ricerca e soccorso (SAR) della Libia, di fatto affidando il controllo delle acque un tempo internazionali ai libici.
Da allora i militari della Marina italiani avevano in più occasioni invitato i pescherecci italiani a non entrare nelle 75 miglia al largo della Libia. Tuttavia negli incidenti tra personale militare libico e pescherecci italiani che da allora si sono verificati, il fermo si era sempre risolto nel giro di poche ore. Nel caso della Medinea e della Antartide invece sono passati già tre mesi. “Io penso che le autorità libiche non sarebbero volute arrivare a tanto” sostiene l’armatore Marrone, da qualche giorno tornato a Mazara del Vallo dopo un presidio di sessanta giorni, accampati in tenda giorno e notte, davanti al palazzo di Montecitorio a Roma. “In altre occasioni i libici avevano chiesto agli italiani di spostarsi di qualche miglio. Io credo che i nostri pescherecci si siano trovati in un momento sbagliato per la situazione che sta vivendo la Libia” dice con tono franco l’armatore.
Da Tripoli il vice presidente Ahmed Maiteeq ha dichiarato lo scorso 26 Novembre che il suo Governo, quello riconosciuto dalle Nazioni Unite, è in contatto con gli ufficiali di Bengasi per portare avanti le trattative per la liberazione dei diciotto pescatori di Mazara del Vallo. “Le autorità italiane stanno lavorando senza sosta per la risoluzione di questo caso” ha continuato Maiteeq parlando alla stampa. Uno scenario che apre però a molti dubbi. I pescherecci italiani sono stati fermati al largo di Bengasi proprio nel giorno in cui il Ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio era in visita ufficiale a Tripoli. L’obiettivo della kermesse diplomatica era congratularsi con il Presidente del Consiglio Presidenziale libico Fayez Al Serraj, a capo del Governo di Accordo Nazionale (GNA), per i progressi nei negoziati sull’accordo di pace con Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobrouq nell’Est. Dal 2014 i due schieramenti sono impegnati in una sanguinosa guerra civile che ha già provocato oltre 350 mila sfollati. Tuttavia quello è stato il primo accordo che Saleh aveva firmato senza il pieno sostegno di Haftar. Dopo essere uscito con le ossa rotte dalla sua offensiva su Tripoli lo scorso luglio, nelle settimane immediatamente successive evidentemente Haftar non aveva ancora avuto tempo di riorganizzarsi sul piano diplomatico. E il primo settembre, quando i suoi gruppi armati si erano già riposizionati sulla linea del Rubicone a Sirte e i soldati russi, suoi alleati, nuovamente nelle retrovie a copertura, il Generale è tornato in campo.
Un conflitto congelato
A quasi dieci anni dalla rivoluzione che defenestrò il Raìs Muammar Gheddafi, nel paese nordafricano le interruzioni di luce, acqua, internet e copertura telefonica vanno avanti per giorni interi sul tutto il territorio nazionale, nell’Ovest come nell’Est e nel Sud del Paese. Anche i generatori di cui negli anni si sono dotati le famiglie come i palazzi governativi restano a secco di benzina per giorni perché il carburante di cui la Libia vanta ricchi giacimenti è troppo costoso nel mercato locale. Bene sussidiato dai tempi di Gheddafi, un litro di benzina nel mercato ufficiale costerebbe solo quindici centesimi di dinaro libico, ma i libici sono costretti a comprarla nel mercato nero per due dinari libici al litro. Così anche i generatori che con il loro chiassoso rumore scandivano le giornate nel centro città e nelle periferie delle principali città, oggi tacciono. Anche il prezzo dell’acqua è aumentato esponenzialmente tanto che un litro oggi costa circa trenta centesimi di dinaro libico. Un dettaglio non marginale se si considera che anche il trend del contagio del Covid 19 in Libia ha subito un’impennata significativa lo scorso agosto tanto che ad inizio dicembre i casi di contagio da coronavirus sono quasi 83 mila con un bilancio di circa 1180 vittime, su una popolazione di neanche quattro milioni di abitanti al netto dei libici andati via nel corso dell’attuale guerra civile. A fine agosto scorso, in tanti sono scesi in strada contro la corruzione della classe politica, nella Tripolitania come in Cirenaica e in Fezzan.
La Libia è oggi teatro di una guerra fredda tra potenze internazionali. Come la Siria, anche la Libia è finita nel braccio di ferro tra Turchia e Russia. Ankara detta l’agenda del GNA di base nella capitale Tripoli, mentre Mosca garantisce per il Parlamento insediatosi a Tobruk ma soprattutto per il ribelle generale Khalifa Haftar. Tuttavia gli equilibri che reggono il cessato il fuoco raggiunto lo scorso agosto tra il Presidente Al Serraj e il Presidente del Parlamento dell’Est Saleh, sono molto fragili e il rischio che si torni a combattere in Libia resta alto. Perché Haftar e la Russia sono stati sconfitti sul campo di battaglia, e non in un’urna elettorale né tanto meno ad un tavolo negoziale.
Nel settembre del 2019, la Russia si è unita a Egitto, Emirati Uniti Arabi e Giordania al fianco del Generale, mandando i mercenari della Società Wagner. Haftar aveva lanciato la sua offensiva su Tripoli cinque mesi prima, durante i quali i suoi uomini non erano riusciti ad entrare nella città nonostante intensi bombardamenti sulle aree civili, con da droni emiratini a disposizione e anche una manciata di forze speciali francesi. Eppure la resistenza della capitale, compatta, aveva trasformato quella che il Generale dell’Est aveva preannunciato come una operazione lampo in una guerra di posizione.
Nelle prime settimane dal suo dispiegamento, la difesa antiaerea di Mosca su Tripoli portò subito i risultati importanti. Droni turchi e italiani vennero abbattuti tanto che le forze di Haftar riuscirono a spostare la linea del fronte verso il centro città. Le forze di Haftar erano in una posizione di vantaggio quando Serraj decise di sbarazzarsi definitivamente dell’Europa che, nonostante un migliaio di morti e centomila sfollati nella capitale, continuava ad escludere qualsiasi risoluzione militare al conflitto in corso. Serraj e il presidente turco Receyep Erdogan firmarono dunque l’alleanza per la difesa di un tratto del Mediterraneo Orientale, al largo di Cipro, su cui Tripoli rivendica i diritti di estrazione con la Turchia. Il sostegno militare di Ankara a Tripoli, alleato sotto attacco, veniva dunque legittimato. A dicembre arrivarono in Tripolitania soldati turchi, nella fattispecie mercenari turcomanni di nazionalità siriana. Contemporaneamente Ankara schierava navi da guerra al largo della Libia da dove ufficiali turchi hanno assunto il coordinamento del sistema di droni UAV e di quello missilistico. In Europa scattava l’allarme, finalmente. In gran fretta veniva convocato il summit di Berlino pensato come incontro riparatore tra Haftar , leggi Russia, e Serraj, cioè Turchia. A poche ore dall’inizio dei lavori nella capitale tedesca, uomini di Haftar chiusero gli oleodotti che pompano l’oro nero verso i terminal nel Golfo di Sirte. “È stata un’iniziativa spontanea della mia gente, stanca della corruzione delle milizie a Tripoli” dichiarò il Generale, portando in scena l’ultima trovata della sua strategia di sabotaggio. Il cessate-il-fuoco concordato a Berlino venne presto disatteso, e quindi ancora guerra. I turchi dunque decisero di alzare l’asticella e misero in campo droni di ultima generazione UAV, quelli che avevano già sbaragliato sul terreno siriano i pantsir S1 russi, fiore all’occhiello della tecnologia di difesa aerea a corto raggio nota come SHORAD. La Russia probabilmente aveva già messo in conto che la Turchia non sarebbe stata a guardare, forse l’obiettivo del presidente Vladmir Putin non era vincere la guerra su Tripoli ma parteciparla. Le forze libiche insieme con la tecnologia turca e i combattenti siriani, hanno respinto in due mesi l’avanzata delle forze di Haftar e dei mercenari sudanesi, siriani e soprattutto la tecnologia emiratina e russa.
Per Haftar è persa la battaglia, non la guerra
Le fazioni opposte avrebbero dovuto procedere alla demilitarizzazione della città di Sirte, linea di confine tra le due amministrazioni rivali libiche, all’evacuazione dei mercenari stranieri presenti sul territorio e alla programmazione di nuove elezioni presidenziali, secondo quanto previsto dal cessate-il-fuoco siglato dal presidente Al Serraj a Tripoli e Saleh nell’Est. Ma a oltre un mese da quella firma, a Sirte sia i gruppi armati allineati con Tripoli sia quelli a sostegno di Haftar non hanno abbandonato il campo. Nel frattempo i russi continuano ad espandere la propria presenza nella città di Jufra, comando militare ai tempi di Gheddafi che vanta il maggior numero di depositi di armi, infrastrutture sotterranee e un aeroporto militare. Qui i russi hanno trasferito lo scorso settembre cacciabombardieri Sukhoi 24 e jet militari Mig 29. Più che ritirata, questo riposizionamento fa pensare una riorganizzazione tattica per una futura offensiva. Almeno le elezioni sono state messe in calendario, 21 Novembre 2021, 70esimo anniversario della indipendenza nazionale.
“La Libia non è mai stata più vicina come oggi ad una potenziale risoluzione del conflitto” ha detto a fine novembre, in una conferenza online dell’International Crisis Group, l’ex inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia Gassame Salame. Nel corso del suo mandato in Libia, Salame è sempre stato molto critico verso la comunità internazionale, paesi-membro delle Nazioni Unite, di cui denuncia il doppiogiochismo, anche se senza mai fare i nomi. “I paesi che avrebbero dovuto aiutare la Libia, non stanno facendo nulla. Allo stesso tempo però i paesi notoriamente interventisti nel conflitto libico hanno ridotto il loro slancio interventista. Nel mezzo c’è spazio oggi per una reale soluzione del conflitto” ha concluso l’ex rappresentante UN Salamè, lasciandosi andare ad un raro moto di ottimismo. Ai margini dei negoziati sull’accordo di pace che si sono tenuti in Tunisia lo scorso Novembre, la rappresentante speciale UN ad interim Stephanie Williams, ex vice di Salame, ha abbandonato l’atteggiamento conciliante che si confà ad un mediatore e ha assunto un tono quasi minaccioso. “I dinosauri che non hanno saputo adattarsi alle condizioni climatiche sopraggiunte, si sono estinti. Oggi, in Libia, chi non saprà adattarsi alle nuove regole del dialogo libico si estinguerà come i dinosauri” ha detto la Williams. I libici si sono divisi tra chi pensa “La Williams ha fatto bene a parlare chiaro. Perché tanto noi capiamo solo la logica delle minacce” e chi invece si è scagliato contro la prepotenza di un diplomatica americana “Che pensino a far valere la democrazia a casa loro. Trump ha perso ma si rifiuta di cedere il posto proprio come succede in Libia”.
La questione irrisolta tra Stati Uniti e Turchia
Tuttavia il dossier libico resta uno dei principali grattacapi nello scacchiere del Mediterraneo. Ad una prima analisi, più superficiale, la Turchia di Erdogan paese membro della NATO farebbe da scudo per gli Stati Uniti per una eventuale avanzata della Russia nel Mediterraneo. D’altronde anche in Siria, Ankara si sta confrontando con Mosca combattendo al fianco delle forze governative di Bashar Al Assad. Scenario simili anche nella partita tra azeri e armeni nel Nagorno Karabakh. Sebbene un argomento noto solo agli addetti ai lavori, in realtà le sorti dei diversi conflitti dove oggi Turchia e Russia si stanno confrontando sono legate a doppio filo all’industria delle armi. Dopo il rifiuto da parte degli Stati Uniti di vendere ad un prezzo di favore il suo sistema di difesa aerea all’alleato turco, Ankara un anno fa ha intrapreso trattive di acquisto del sistema di difesa aereo S-400 russo. Per gli Stati Uniti questo minerebbe la sicurezza della NATO perché comporterebbe una fuoriuscita di informazioni sul jet di quinta generazione F35 dei paesi NATO alla Russia. Tuttavia la Turchia non pare voler accettare il diktat degli Stati Uniti. Questa variabile, non necessariamente indipendente, resta tra i fattori più determinanti degli equilibri futuri tra queste superpotenze.
Haftar attende, impaziente, che gli attori stranieri della partita libica decidano quanto prima che mossa fare. Lui è lì ovviamente è disponibile a fare da testa di ariete per chiunque si schieri con Tripoli. Agila Saleh, impegnato nei negoziati con Tripoli, ancora oggi parla a nome dell’intera fazione che controlla l’Est del Paese. A Saleh è assegnato da una parte il compito di consolidare il consenso dei nostalgici gheddafiani, che non vedono di buon occhio il generale traditore di memoria gheddafiana Haftar, dall’altra di prendere tempo.
I pescatori e la campagna elettorale in Libia
Questo è il momento in cui l’Europa potrebbe tornare a fare la differenza nella partita libica. Come stabilito dall’accordo sul cessate-il-fuoco, tra un anno la Libia dovrebbe andare a nuove elezioni. I potenziali candidati sono già in campagna elettorale. Il vice presidente Ahmed Maiteq a Tripoli ha deciso di giocare la carta del mediatore, o facilitatore, del dialogo tra l’Est e l’Ovest del paese. Al suo primo tentativo, non ebbe molto successo. Maiteq lo scorso settembre incontrò a Mosca uno dei figli di Haftar, Khaled, e dall’incontro uscì una proposta di accordo sul ripristino della produzione e dell’esportazione del petrolio. Gruppi armati di Misurata e Tripoli giurarono sul sangue dei loro martiri che non avrebbero mai lasciato alle forze di Haftar il controllo dei terminal nel Golfo della Sirte. Serraj sconfessò l’operato del suo vice e Mustafa Sanalla, governatore della società nazionale petrolifera (NOC), dichiarò che non avrebbe revocato lo stato di emergenza dai terminal petroliferi sotto il controllo di Haftar nel Golfo della Sirte, fino a quando tutti i mercenari russi non fossero fuori dal paese. La controversia diplomatica tra Italia e Libia sui pescatori di Mazara del Vallo sotto custodia delle autorità della regione orientale della Cirenaica, e i quattro giovani calciatori libici già condannati in primo e secondo grado in Italia per traffico di esseri umani, potrebbe essere una seconda chance per Maiteq per riproporsi come l’uomo della mediazione. Di fatto però il Ministro degli Interni Fathi Bashaga, uomo di Erdogan in Libia, ultimamente pare essere – secondo fonti diplomatiche a Tripoli – il favorito degli italiani. Inoltre ha anche ottenuto da Ankara il lasciapassare per una visita ufficiale a Parigi, nemica giurata di Roma in terra libica ma anche di Ankara per via del sostegno che Parigi ha sempre garantito al Generale Haftar. Insomma forse è un tentativo disperato da parte del vice presidente Maiteq, forse un impegno che Maiteq riuscirà a portare a termine.
“Io sono fiduciosa nel lavoro del Governo italiano” dice la moglie di uno degli italiani in detenzione a Bengasi. “Sono sicura che riusciranno a risolvere questo incidente diplomatico. Anche perché i libici sono persone ragionevoli. Questo è quello che penso” continua la donna. “Certo è che quando mio marito tornerà a casa, prima gli farò le feste, lo coccolerò per aiutarlo a superare il trauma di questa disavventura. Ma poi mi dovrà sentire… Lui sapeva che era pericoloso andare lì” conclude la donna.
In copertina: Il porto di Bengasi. Foto via Twitter