È passato oltre un anno dal tre ottobre 2017. Il quarto anniversario della strage di Lampedusa è cominciato il processo a Mehdanie Yedhego Mered, alias il Generale. Un processo che, comunque vada, resterà nella storia.
L’uomo, arrestato a maggio 2016 in Sudan, è ritenuto essere uno dei cinque principali trafficanti di uomini che operavano in Libia negli anni immediatamente successivi al naufragio di Lampedusa. Fin dal suo arresto sui media internazionali è nato il dubbio, instillato dalla comunità degli eritrei della diaspora, che il ragazzo in carcere fosse vittima di uno scambio di persona. Ma come si poteva rovinare così il primo successo europeo nella lotta ai trafficanti?
Il primo processo in Europa ad un boss del traffico di uomini, però, in un anno e tre mesi ancora non è riuscito a stabilire con esattezza se l’arrestato sia o meno Il Generale. O quantomeno uno dei suoi uomini. I testi eritrei intervenuti nelle 17 udienze del 2018, tuttavia, le loro certezze le hanno espresse: la prima è che l’uomo in carcere non è Medhanie Yedhego Mered, la seconda è che si chiama Mered Tesfamariam Behre (come testimonia anche la prova del Dna). Per ora, questo secondo nome, al processo è considerato un alias del Generale. Al contrario, però, la Procura si avvale ancora delle sue perizie e delle testimonianze di esponenti di forze dell’ordine italiane e inglesi chiamati a processo per sostenere il contrario. E l’imputato, chiunque esso sia, sta ancora in carcere.
Cosa accadrà nel 2019
L’incipit di questa storia avrebbe potuto essere differente se il 17 dicembre la Corte di Assise di Palermo avesse preso una decisione diversa. Cinque giorni prima, l’avvocato dell’imputato, Michele Calantropo, ha depositato una richiesta di scarcerazione. L’esito, però, è stato negativo.
“Il giudizio in ordine alla sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari appare strettamente collegato al definitivo accertamento della reale identità dell’imputato quale soggetto delle condotte contestate come risalenti sin dall’anno 2014 e protratte sino al momento dell’arresto nel maggio 2016”, scrivono i giudici. Le sentenze non le scrivono i giornalisti e i processi si fanno in Tribunale e non sui media, per fortuna. Le discrepanze temporali tra fatti accertati sui giornali e in aula sono sempre esistite e sono più che fisiologiche. Soprattutto in questa inchiesta giudiziaria, così transnazionale. Però c’è in ballo la vita di una persona, che si trova dietro le sbarre nonostante molti elementi depositati finora lascino intendere che è vittima di uno scambio di persona.
Entro il 10 gennaio 2019 sarà depositata una delle prove che fin dall’inizio del dibattimento è ritenuta essere tra quelle cardini dell’impianto accusatorio: il saggio vocale. Tra gli elementi che fanno dire ai procuratori palermitani che Mered e Behre siano entrambi il Generale, infatti, c’è un confronto vocale tra alcune delle conversazioni intercettate (in particolare nel 2014) e la voce dell’imputato. Finora, a processo sono state depositate due perizie di parte: quella dell’accusa si conclude con un nulla di fatto, mentre quella della difesa esclude che l’imputato sia la persona intercettata. Il problema fondamentale per entrambe le analisi consiste nel database del software utilizzato per il riconoscimento vocale, che non prevede il tigrino, la lingua di imputato e trafficante. Ora si aspetta la terza prova, che andrà effettuata da uno studio di Padova.
L’altra perizia che ancora si attende è quella calligrafica. Tra il materiale sequestrato al presunto Mered nel momento dell’arresto c’è infatti un’agenda grigia, in cui ci sono appuntati dei numeri telefonici. Secondo l’accusa, anche quella di trafficanti di uomini. L’altra ipotesi è che invece di nomi e numeri ce ne sia solo uno: quello che Behre avrebbe voluto chiamare una volta recuperati i soldi necessari per pagarsi il viaggio della speranza attraverso il Mediterraneo.
Le tappe salienti degli ultimi sei mesi di processo
Il primo snodo c’è stato a luglio, durante la prima udienza dell’imputato. La deposizione inizia con Behre che afferma per l’ennesima volta di non essere il Generale e da subito prende una piega che fa capire perché sia tanto difficile arrivare a un verdetto.
Sono cominciate le incomprensioni tra interprete e imputato, le risposte sono diventate sempre di più improbabili. Uno dei casi più complicati ha riguardato la vita di Behre in Sudan e il suo rapporto con una delle sorelle da cui era ospite. Non aveva un lavoro e viveva con i soldi della famiglia. Chi li spediva a Khartoum? Behre dice di non saperlo, ma nella deposizione con l’avvocato aveva spiegato che arrivavano attraverso il sistema hawala, una sorta di money transfer che si basa sulla fiducia e sul passaparola: il denaro viene prestato da una persona senza chiedere garanzie, sapendo che prima o poi gli verrà rimborsato. È un sistema comune a certe latitudini, ma Behre a processo si limita ad affermare: “È una parola araba, non so cosa sia, parlo solo tigrino”. È una reazione emotiva, comprensibile, di uno in carcere da due anni nonostante professi di non essere chi gli inquirenti stanno cercando. Alla fine, in ogni caso, l’avvocato Calantropo riesce almeno a fargli dire quello che ha sentito sugli hawala, vincendo l’iniziale reticenza dell’assistito.
A ottobre c’è stata poi l’analisi dei profili social che si ipotizza appartengano all’imputato. Dei tre che ritiene la procura, solo uno, quello che si attribuisce lo stesso Behre, risulta appartenergli stando ai risultati della perizia della difesa. Gli altri due, invece, però potrebbero essere dello stesso trafficante Mered, visto che sono stati usati anche nell’ambito dell’indagine per stabilire le connessioni con altri criminali.
I due profili sono rintracciabili su Facebook come meda.yedhego e meda.yedhego.7. Il primo è quello certo, sul quale non ci sono nuovi contenuti caricati da una data che tornerà più avanti, il 22 agosto 2016. La foto profilo ritrae l’ultimo nato di Mered, il figlio avuto con l’ultima moglie Lidya Tesfu, anche lei ascoltata un paio di mesi fa nell’ambito del processo, come abbiamo scritto. L’analisi dei social, per quanto non possa garantire nulla al 100%, indica però che chi ha fatto accesso al primo profilo ha girato parecchio tra luglio 2015 e il gennaio 2017. Ci sono accessi dal Sudan, da Dubai, dal Kenya e infine dall’Uganda. Possibili conferme degli spostamenti del Generale, compresa la permanenza a Kampala, dove la troupe della tv svedese SVT, insieme alla giornalista-attivista eritrea Meron Estefanos, ha cercato di rintracciarlo ad aprile 2018, trovando solo tracce e non la prova inconfutabile della sua presenza.
L’altro profilo – meda.yedhego.7– risulta di un certo Rahel Smret. Questo nome però non porta ad alcuna identità e confrontandolo con meda-yedhego si notano 35 amici in comune tra cui Lidya Tesfu e il fratello del Generale, Mehrawi. Due invece quelli in comune tra il primo profilo (meda.yedhego) e quello attribuito all’imputato (medhanie.meda). Secondo l’analisi del perito Danilo Spallino, l’utente di meda.yedhego avrebbe fatto l’accesso dalla rete di Dubai il 22 agosto 2016, giorno nel quale dalle 20.04 ora italiana (GMT+2) risulta poi essere collegato a Nairobi. Lo stesso risulta anche per meda.yedhego.7. In teoria, il Generale doveva essere in carcere da oltre due mesi. C’è di più: l’immagine di profilo di meda.yedhego.7 è scattata dentro un ristorante, il Golden Burger dell’Abraj center di Dubai. Analizzando i metadata, una sorta di Dna delle fotografie digitali, risulta che l’immagine sia stata caricata sul profilo il 21 agosto 2016, alle 10.06 della fascia oraria di Greenwhich. Il giorno prima degli altri accessi.
L’ultima udienza dell’anno si è poi chiusa con il fratello del Generale, Mehrawi Yedhego Mered, che dai Paesi Bassi ha detto che l’imputato non è il trafficante. L’ennesimo teste che lo sostiene: lo aveva detto la moglie Lidya Tesfu, mentre madre e sorella dell’imputato avevano confermato che il suo nome è Medhanie Tesfamariam Behre.
Cosa è cambiato in Libia e nell’approccio europeo
Fin dall’inizio abbiamo scritto che su questo processo rischia di schiantarsi l’intero sistema europeo costruito per contrastare il traffico di esseri umani, ossia l’Operazione Sophia. Avrebbe dovuto chiudersi con la fine del 2018, ma alla fine è stata prorogata per la terza volta, fino a marzo 2019. È stato il primo dispositivo che ha portato National crime agency inglese e procura italiana a collaborare da vicino. E Mered è stato arrestato proprio dagli uomini di Sua Maestà. A Londra già nel 2016 e nel 2017 due report della Camera dei Lord avevano però identificato le fragilità della missione, definendola in uno impossibile, nell’altro fallita. Eppure la Gran Bretagna – Brexit permettendo – è ancora parte del dispositivo e aggiungerà delle forze d’intelligence alla missione.
Il ruolo chiave di Palermo è nato da una semplice intuizione: le nostre procure sono abituate da anni a usare le intercettazioni per scovare i mafiosi italiani. Applicare lo stesso metodo ai trafficanti del Nord Africa produrrà gli stessi arresti. Tre anni dopo l’inizio di Operazione Sophia, però, né in mare, né a terra si sono visti risultati straordinari. Forse perché tutti – procuratori, analisti, giornalisti, cittadini – ci siamo fatti ammaliare dall’idea di replicare un metodo fortunato contro un’altra categoria di criminali. Senza però capire le differenze.
Guardiamo alla Libia oggi, a due anni dalla scomparsa di Mered e di buona parte dei suoi uomini. I cartelli del 2014 non esistono più, il profitto – con il calo delle partenze – si è spostato dall’organizzazione dei viaggi, alla gestione dei campi per i migranti. Un personaggio come Mered era diventato importante perché aveva saputo cogliere la domanda – arrivare in Europa – e aveva saputo in pochi mesi mettere in piedi una portentosa offerta criminale. Ma questo non lo rende un mafioso. I mafiosi, in Italia come in Libia, cercano di sostituirsi al potere, oppure di infiltrarlo. Mered non ha mai avuto né tanta forza, né tanta ambizione. Continuare a indicarlo come il perno del sistema criminale dei traffici di uomini dalla Libia è un’altra mistificazione. Sarebbe più utile che Sophia invece che concentrarsi su qualunque “scafista”, cambiasse mandato per concentrarsi sui trafficanti di gasolio, che spesso coincidono con quelli di uomini, oppure sulle milizie libiche. Perché lì stanno anche gli uomini che controllano i campi di detenzione dei migranti e che ne violano in continuazione ogni diritto. Ma per farlo servirebbe aprire un complesso fronte diplomatico con Tripoli.
È evidente che tutto questo mondo dei trafficanti di uomini sia ancora tutto da scoprire. È anche evidente che se sappiamo qualcosa, lo dobbiamo soprattutto a Glauco, l’inchiesta della procura di Palermo che probabilmente ha messo in carcere l’uomo sbagliato. Siamo al punto in cui però si è fallito e sbagliato a sufficienza. Serve un cambio di strategia e una nuova definizione di chi sono i nemici dell’Unione europea in Libia, andando oltre la categoria – un po’ vaga – di “trafficante di uomini”. E l’augurio è che il 2019 sia l’anno buono per farlo. Magari cominciando con il ridare la libertà a Medhnie Tesfamariam Behre, se il saggio vocale confermerà quanto sostiene la difesa.
In copertina: le impronte digitali registrate per Medhanie Mered