I due mesi di lockdown si sono fatti sentire. Per le misure ferree adottate, per aver visto la libertà individuale chinarsi a quella collettiva. Le rinunce richieste sono state importanti . Ma c’è chi ha patito in maniera amplificata le conseguenze di questa pandemia. Sono i ragazzi stranieri che si trovano nelle strutture di accoglienza del nostro paese, in attesa dei responsi delle commissioni territoriali per verificare la loro richiesta di asilo. Tutto fermo, ad oggi. I permessi di soggiorno in scadenza valgono automaticamente fino al 31 Agosto. Analogamente è prorogata l’incertezza di sapere se, questo paese che si rialzerà con le ossa rotte, avrà un posto anche per loro.
Un settore messo in ginocchio dagli ultimi decreti sicurezza
Il settore dell’accoglienza italiano è stato molto ridimensionato dagli ultimi decreti sicurezza, al punto che la maggior parte delle associazioni e cooperative del terzo settore non hanno partecipato all’ultimo bando indetto dalla Prefettura, a causa dei forti tagli economici. E così, il 31 Dicembre dello scorso anno, molte strutture hanno chiuso i battenti.
Una situazione che ha investito anche la provincia di Lecco. Il territorio, che si era distinto a livello nazionale per l’accoglienza diffusa messa in campo in primis dalle Comunità Montane, si è trovato a far fronte a questa carenza di posti. Sono stati solo 3 gli enti che hanno aderito all’ultimo bando, con ingenti conseguenze sociali: più della metà degli assistiti il primo Gennaio 2020 è uscito dal programma di accoglienza.
Il caso Airuno: un ospite affetto da Coronavirus
Un paese di meno di tremila abitanti, Airuno, ad una decina di chilometri da Lecco, è sede di una delle poche strutture ricettive rimaste attive sul territorio. Oggi ospita all’incirca 80 ragazzi, di varie nazionalità. La struttura è portata avanti dalla cooperativa Medihospes, che già gestisce il centro di Cremeno, in Valsassina, con utenza analoga.
I riflettori su questo centro si sono accesi circa tre settimane fa quando gli ospiti hanno dato vita ad una protesta pacifica. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’arrivo dell’ambulanza che ha portato uno di loro in ospedale. Il tampone effettuato non ha lasciato margini di dubbi: si trattava di un caso di Covid-19.
Panico, terrore, desolazione: difficile trovare le parole adatte a descrivere lo stato d’animo che regnava nella struttura. “Viviamo in camerate di 5, 6, anche 8 persone, abbiamo paura di contagiarci a vicenda – raccontano alcuni dei ragazzi capofila della protesta – per questo abbiamo chiesto alla Prefettura di spostarci in altre strutture, e di fare il tampone a tutti”.
Ma entrambe le richieste sono state respinte.
“Non ci sono altri centri a disposizione, non possiamo prevedere nuove strutture in questa fase”, ha spiegato alla stampa il capo di Gabinetto e viceprefetto aggiunto Marcella Nicoletti. Per quanto riguarda i tamponi beh, la risposta è nota: si fanno soltanto in presenza di sintomi conclamati.
Le manovre messe in campo dalla struttura
La protesta ottiene, però, dei timidi risultati. Al centro fanno ingresso i dispositivi di protezione individuale. Adesso ci sono mascherine e guanti a disposizione di tutti. Ogni mattina, agli ospiti, viene misurata la temperatura. I ragazzi che condividevano la stanza con quello positivo sono stati messi in quarantena, per 14 giorni.
“Avevamo fatto dei controlli sulle strutture presenti sul nostro territorio, ed avevamo individuato, in ognuna di esse, l’esistenza di luoghi idonei da poter essere usati in caso di quarantena”, spiega la portavoce della Prefettura. La camera dei ragazzi, in questione, è passata ai controlli, in quanto dispone del bagno autonomo, e viene disinfettata tre volte al giorno.
“Stiamo facendo tutto quello che è scritto nel protocollo per garantire la sicurezza dei nostri assistiti”, spiega Giuseppe Ranù, responsabile di Mediahospes, la Onlus che ha in gestione il centro. “Abbiamo previsto i distanziatori nei luoghi comuni, abbiamo ridotto i posti in mensa da 60 a 20, incrementando i turni ed allungando di mezz’ora i pasti. Ad inizio emergenza, quando il personale dell’ATS Lecco è venuto a fare delle ispezioni, è stato constatato che attraverso la corretta adozione dei DPI, il distanziamento sociale poteva essere rispettato. Il problema – lamenta Giuseppe Ranù- è che i nostri assistiti non usano mascherine e guanti”.
Le testimonianze dei ragazzi
“Hanno portato guanti e mascherine soltanto dopo la nostra protesta, a metà aprile, e prima? Perché non abbiamo avuto subito questi dispositivi?” chiede un ventitreenne che vive nel centro. E continua: “Ci dicono che le mascherine sono obbligatorie quando ci troviamo negli spazi comuni, ma che senso ha? In camera siamo otto persone, non riusciamo a mantenere la famosa distanza sociale e non possiamo tenere le mascherine persino quando dormiamo”.
I ragazzi lamentano, inoltre, che gli spazi della struttura non siano stati sanificati a sufficienza. E puntano il dito contro la mancata chiarezza: “Quando il ragazzo si è sentito male non siamo stati allertati subito. Non ci è stato detto che poteva trattarsi di Covid-19. Abbiamo continuato a giocare a calcio tutti insieme, anche con i suoi compagni di stanza. Perché – insistono – non sono stati messi subito in quarantena preventiva?”.
Chiusi dentro
E se vivere confinati è difficile per tutti, lo è ancora di più in luoghi come questo, dove la quotidianità si condivide con persone, in molti casi, sconosciute. Quando i compagni di stanza non sono amici, ma conoscenti accomunati, magari, dall’iniziale del cognome. Spesso non si può neanche evadere virtualmente. La Wi-fi di cui dispone il centro prende solo in ufficio e nelle due stanze attinenti ad esso. Il segnale non arriva nelle camere dei ragazzi, ed il pocket money a cui essi hanno diritto mensilmente è così ridotto che, a malapena, consente loro di acquistare un pacchetto giga. Non rimane altro che ascoltare la musica, e dare due calci al pallone, sfidando lo scorrere del tempo.
“Il cancello della nostra struttura è chiuso, i ragazzi non possono uscire, almeno che non siano autorizzati dalla prefettura, per motivi lavorativi”, continua a raccontare Giuseppe Ranù.
Ottenere il permesso per allontanarsi è impresa tutt’altro che agevole. Soprattutto se non si può contare su un contratto di lavoro. La situazione in cui versano i ragazzi ospiti nel centro è precaria. Il Comune di Airuno, alla stregua di molti altri municipi italiani, non ha mai concesso loro la residenza. Non lo faceva neppur prima dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 – c.d. decreto sicurezza, che di fatto ha avallato la mancata iscrizione all’anagrafe. Non avere la residenza, però, implica niente carta d’identità, e senza carta d’identità non possono avere un contratto di lavoro. E laddove la burocrazia frena, ecco che il lavoro nero, quello sommerso, rimane l’unica opzione percorribile.
I casi in provincia
Sono tre i ragazzi stranieri, ospiti nelle strutture della provincia di Lecco, che sono risultati positivi al Covid-19. Portati e curati in ospedale, le loro condizioni non sono mai state preoccupanti. Il ragazzo proveniente dal centro di Airuno, ad esempio, fanno sapere da ATS, è in buona salute. Ma non rientrerà nel centro di accoglienza, almeno per altre due settimane. “Abbiamo previsto la sua degenza in uno dei centri post ricovero, per tutelarlo al massimo – spiega il capo di gabinetto Marcella Nicoletti. “Un eventuale rientro in struttura oggi – afferma – potrebbe di nuovo scatenare paure e panico tra gli ospiti del centro, malgrado il decorso della malattia proceda nel migliore dei modi”.
L’ostello della solidarietà
Nel frattempo, a Lecco città, un’altra struttura che ospitava i migranti è stata riconvertita, in tempi record, in un “ostello della solidarietà”. Ci troviamo nel rione di Maggianico, in un luogo dove per tanto tempo ci sono state le suore di Maria Bambina e poi, negli ultimi anni, i profughi gestiti dalla fondazione Sacra Famiglia di Milano. Rimasto vuoto da fine dicembre, la scorsa settimana è stato riaperto grazie alla Caritas Ambrosiana, che ne ha realizzato un rifugio diurno e notturno. Ha a disposizione 24 posti letto, destinati ai senza fissa dimora. Vengono garantiti tre pasti al giorno, e gli ospiti hanno l’obbligo di rimanere all’interno della struttura, almeno in questa fase emergenziale. Massima attenzione anche alle norme di sicurezza e di distanziamento sociale: le condizioni di salute delle persone vengono accertate in fase di ingresso, e poi monitorate costantemente da un operatore.
In copertina: una stanza del centro