Per anni ha rappresentato il punto di ingresso più trafficato nell’Unione Europea, con centinaia di migliaia di rifugiati provenienti dal Medio Oriente che qui sono approdati, nell’attesa di un lasciapassare per l’Europa.
Con il campo profughi di Moria, il più grande del vecchio continente, l’isola di Lesbo ha mostrato per tanto tempo il volto del fallimento della politica migratoria dell’UE: fortemente sovraffollato, negli anni è arrivato ad assiepare fino a 20 mila persone, che lì vivevano in condizioni assolutamente precarie. “Peggiorava di mese in mese. Era diventata una giungla, priva di regole. A volte quando ci ripenso mi dico: ma davvero è esistito? Davvero è stato possibile che ventimila persone potessero vivere in minuscole tende nel fango, tutti stipati su una collina?”, racconta Nicolien Kegels che lavora sull’isola dal 2016.
Quel campo è stato dato alle fiamme nel settembre del 2020 (del rogo sono stati accusati dei giovani afgani), e i migranti costretti a viverci sono stati ricollocati quasi tutti nei grandi campi di accoglienza di Atene e Salonicco.
Sull’isola ne sono rimasti poco più di 2mila. Per loro è stato allestito un nuovo centro, ad una manciata di chilometri a nord da Mitilene, capoluogo dell’isola: il campo di Kara Tepe, Mavrovouni o Moria2.0. Lo chiamano in vari modi.
“Adesso almeno non rischi di venire pugnalato anche solo per andare in bagno – racconta Mohamed – c’è più sicurezza, ma è diventato come un carcere, non possiamo uscire quando vogliamo”.
QUANDO IL FUOCO NON FA PAURA
Mohamed ha 22 anni, ne aveva 17 quando è arrivato sull’isola. Fisico possente, occhi color nocciola. Viene dalla Siria, dal Kurdistan siriano per la precisione. Quando parla dell’incendio di Moria il suo è un racconto freddo, quasi impassibile. “Sì, c’erano le fiamme, ho preso le mie cose e velocemente ho cercato di mettermi in salvo”. Guai a chiedergli se abbia avuto paura in quei momenti. Si irrigidisce, lo sguardo diventa fermo. “Non ho paura per queste cose qui, era solo un po’ di fuoco”, racconta.
E lui di fuoco ne ha visto ben altro nella sua giovane vita.
Viene da Afrin. Aveva appena 14 anni quando decide di perorare la causa dei combattenti curdi, imbracciando un fucile. L’addestramento dura pochi mesi, poi lì, in prima linea. Doveva fare il cecchino, questo il suo compito, che ha svolto per nove mesi. “Una volta avevo avvistato una persona con uno zaino, mi avevano dato l’ordine di sparare, ma a me sembrava un normale civile. Così un mio collega si è avvicinato per andare a verificare, io tenevo a tiro il bersaglio, avrei potuto colpirlo in qualsiasi momento. Ma non c’è stato tempo. Lui si è fatto esplodere, e il mio collega è morto, insieme a lui”. Dopo un anno ha deciso di lasciare l’esercito, non sentiva più sua quella causa. Anche sua sorella era una combattente delle YPJ, le milizie curde femminili, ed anche lei, una volta rientrata, è stata considerata una disertatrice. Perché quando un popolo fa della rivendicazione del proprio stato la sua unica ragione di vita, non c’è la possibilità di tirarsi indietro.
Così Mohamed è andato via. È stato un po’ di tempo in Turchia, ma anche lì non è facile la vita per i curdi. Ed ecco la decisione di arrivare in Europa. “Sono diventato maggiorenne qui a Lesbo, non so quanti anni della mia vita dovrò spendere, ancora, in questa isola da cui non puoi scappare”, racconta.
LE DEPORTAZIONI
È passato più di un anno dall’incendio del campo di Moria ma il nome di quell’accampamento, troneggia a caratteri cubitali su un edificio abbandonato che si trova lungo la litoranea. E lancia messaggi precisi e delineati. Perché se sulla facciata che guarda all’Europa c’è scritto a caratteri cubitali “Close Moria”, “No borders”, dalla parte che guarda alle coste turche il messaggio è altrettanto schietto: “Stop deportation”.
E le parole pesano. In un rapporto pubblicato qualche mese fa, Amnesty International denuncia le gravi violazioni in materia di diritti dei migranti tra Grecia e Turchia. Il documento, dal titolo “Greece: Violence, lies and pushbacks”, documenta 21 casi, 19 relativi a respingimenti via terra e due via mare, con uso di detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Nel 2020, nel pieno dell’emergenza Covid, la maggior parte dei migranti sbarcati a Lesbo è stata trasferita nella nave della Marina Militare “Rodos”, attraccata a Mitilene. La nave ospitava 510 persone, più di duecento minori di età, molti erano non accompagnati. All’interno della nave questi migranti non hanno potuto presentare richiesta d’asilo, sono stati trattati come irregolari, trattenuti in regime di detenzione in attesa di rimpatrio nei loro paesi di origine. Amnesty denuncia che queste decisioni sono state emesse anche nei casi di donne incinte, neo mamme, anziani, persone con disabilità e in altre situazioni di vulnerabilità.
“Nonostante Lesbo sia l’isola più vicina alla Turchia, dista in linea d’aria una decina di chilometri, adesso è davvero difficile riuscire a fare la traversata in mare, a causa dei respingimenti che vengono messi in atto”, racconta Fabian Bracher, presidente della ong svizzera One Happy Family. È massiccio l’impiego delle forze marittime dispiegate da Frontex nell’Egeo, che intercettano le persone in mare e le riportano indietro, in virtù degli accordi tra UE e Turchia del marzo 2016.
“Sono riuscito ad arrivare qui dopo vari tentativi – racconta Youssuf, 21enne somalo – per due volte sono stato soccorso in mare e rimandato indietro, ma alla terza volta ce l’ho fatta a raggiungere l’isola”. Youssuf ha fatto un lungo viaggio via terra, attraversando anche la Siria, ma alcuni dei suoi amici sono riusciti a raggiungere la Turchia in aereo, ottenendo visti d’ingresso al paese con passaporti più o meno regolari. Lui si trova nel campo di Kara Tepe da qualche mese, in attesa di conoscere l’esito della sua domanda per ottenere un permesso di soggiorno.
KARA TEPE
È un campo governativo che si erge fino alle sponde del mare, perimetrato da una doppia striscia di filo spinato. “Mi sembra di essere in prigione”, racconta il ragazzo somalo. All’interno del campo vigono infatti rigide regole. Si può uscire solo tre volte alla settimana, e previo permesso. E c’è un controllo capillare delle forze dell’ordine. Eppure non basta questo a garantire la sicurezza.
“Sicuramente la situazione è cambiata rispetto al campo di Moria, e c’è più sicurezza, ma non possiamo parlare di miglioramenti”, afferma Fabian Bracher, “Kara Tepe nasce come un campo temporaneo a seguito dell’incendio di Moria, sarebbe dovuto durare 6 mesi, ed invece è ancora in funzione dopo un anno e mezzo, ed ha raddoppiato le sue dimensioni di partenza. Ma ha delle forti carenze: non c’è un sistema elettrico adeguato, non c’è acqua corrente, non ci sono neppure dei servizi igienici e delle docce”. E spesso, nelle tende, divampano incendi a causa di cortocircuiti o nel tentativo di scaldarsi a causa delle fredde temperature.
IL TORMENTO DEI LOCALI
Intanto gli abitanti di Lesbo sono stanchi. Non riescono più ad accettare che la loro isola si sia trasformata in un punto di transito per migliaia di migranti, e che questo abbia messo in crisi la vocazione turistica che, in passato, aveva rappresentato la prima fonte di ricchezza. Al porto di Mitilene, a inizio gennaio, un nutrito gruppo di persone ha impedito a una nave cargo di attraccare e scaricare del materiale pesante per la costruzione di un nuovo campo. Tra le fila della protesta c’erano gruppi di estrema destra e persone della società civile, che puntavano il dito contro la disumanizzazione di questi campi governativi, chiedendo un sistema di accoglienza più solidale, e che si erano ritrovate a manifestare assieme a chi rivendicava lo stop incondizionato all’arrivo dei migranti. Perché ci sono dei “no” unanimi, che esulano anche dal colore politico. “La gente qui è esasperata – racconta Aspasia, professoressa di italiano, originaria di Atene e residente sull’isola da oltre venti anni – i cittadini si sentono dimenticati da tutti, dal nostro governo e dall’Unione Europea che ci usa come una bolla di contenimento”.
UNA NUOVA FASE
“Lesbo non rimarrà mai senza migranti”, ribatte con fermezza Fabian Recher. “Il fenomeno migratorio in queste zone non è materia degli ultimi sei, sette anni, ma degli ultimi decenni. Lesbo è un’isola di migrazione, e questo non può cambiare. Quello che muterà è il volto dell’accoglienza: verranno costruite nuove strutture in posti più remoti, lontano dalla vista dei cittadini e anche dagli aiuti umanitari”.
Non è un caso, del resto, che il sito individuato per il nuovo campo si trova a Vastria, una trentina di chilometri a nord di Mitilene. È un progetto che dovrebbe costare 87,5 milioni di euro. Ma tarda a partire. La sua costruzione era stata annunciata a settembre 2020, l’apertura prevista per l’estate 2021, ma è stata puntualmente posticipata. Adesso, secondo il nuovo planning, potrebbe essere completato entro settembre 2022, e sarà in grado di ospitare fino a 3mila migranti e richiedenti asilo.
Martedì scorso c’è stata una nuova protesta popolare per dire “no”. All’inizio è stata una marcia pacifica, le persone hanno sfilato sotto una forte pioggia battente. Poi però un gruppo di manifestanti ha dato fuoco ad alcune ruspe di un appaltatore privato. La protesta è sfociata nella violenza, e cinque persone sono state arrestate.
Ma quanto peso può avere il dissenso dei cittadini contro una visione del sistema? La direzione intrapresa, del resto, sembra più chiara che mai: l’Unione Europea sta finanziando nuovi campi anche sulle altre isole greche che si affacciano sulla costa turca (Samos, Chios, Kos, Leros). I siti su cui nasceranno sono impervi, non facilmente raggiungibili, e lontani dai riflettori. Le autorità greche, per tutta risposta, promettono che questi nuovi campi garantiranno condizioni di vita “dignitose” ai richiedenti asilo. Le associazioni dei diritti umani, invece, ne evidenziano tutti i limiti, a partire dalla libertà di movimento.
In copertina: Lesbo, vista della litoranea. (Foto di Romina Vinci)