Quest’estate i turisti e le turiste facevano trekking nelle Alpi e passeggiavano spensierati sui sentieri di montagna, allo stesso tempo uomini e donne migranti cercavano di attraversare il confine italo-francese nascosti tra gli alberi con il terrore di essere visti dalla polizia francese e respinti nuovamente in Italia.
Il passaggio di frontiera tra Italia e Francia viene vissuto come un’esperienza diversa a seconda di chi si è: da turista si cammina con spensieratezza, da migrante invece si corre con angoscia e paura per far presto e non essere scoperti.
Tra Claviere, un paesino di montagna in provincia di Torino, e Montgenèvre, il primo paese francese dopo il confine, il sentiero più breve e meno difficoltoso può durare poco più di mezz’ora a piedi. Dai migranti il tragitto viene spesso allungato per prendere strade alternative che portano alla stessa meta ma sono più nascoste, nel bosco, più ripide e si spera meno sorvegliate dalle guardie di frontiera francesi.
Ogni giorno sono circa venti, ma a volte hanno raggiunto anche le quaranta persone, i migranti che cercano di passare il confine; la maggior parte di loro viene respinta e prova più volte ad arrivare in Francia, rincorrendo il successo a volte fino al terzo o al quarto tentativo. Molti sono fuggiti da guerra, atrocità, miseria e persecuzioni, viaggiando per mesi e a volte per anni, camminando e rischiando la vita lungo la rotta balcanica, prima di raggiungere l’Europa. All’arrivo in Italia hanno già affrontato viaggi estenuanti passando per almeno sette nazioni e, nonostante ciò, i confini interni europei pongono altrettanti ostacoli. La ricerca di una vita migliore per loro stessi e per i loro cari è l’unica cosa che li motiva a continuare, tornare indietro è fuori questione.
Il passaggio di migranti cosiddetti ‘illegali’ tra uno Stato e l’altro viene considerato un atto fuorilegge che secondo le istituzioni merita di essere punito. I trasgressori dei confini sono proprio coloro più soggetti a vulnerabilità, eppure il sistema li criminalizza. Essere considerate persone clandestine e illegali dagli Stati europei diviene un ulteriore ostacolo al movimento all’interno del continente dove non solo il lavoro precario e il mercato nero è un fattore di rischio più elevato rispetto a qualsiasi altra categoria, ma dove anche la possibilità di essere deportati in qualsiasi momento continua a gravare sui loro destini.
Khalil, ragazzo afghano che ha percorso la rotta balcanica, racconta delle sofferenze vissute, delle violenze subite dalla polizia di confine in Serbia e in Croazia e dei numerosi pericoli in cui ha rischiato di perdere la vita. Partendo dalla Turchia e passando per Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia, è arrivato a Oulx dopo quasi due anni di viaggio caratterizzato da soste e attese infinite per cogliere il momento opportuno per continuare il cammino. Khalil ricorda come “vivere nella clandestinità è difficile, ma bisogna accettare qualsiasi lavoro in nero ed evitare i controlli della polizia”.
Durante il periodo della pandemia i controlli al confine italo-francese sono diminuiti e per questo il flusso migratorio è aumentato e addirittura famiglie intere con bambini hanno percorso questi sentieri nella speranza di passare la frontiera. Soltanto nel luglio 2020 la Croce Rossa di Bussoleno ha calcolato che più di 4.500 persone sono transitate, numero che solitamente si raggiungeva dopo un anno.
Alcuni membri della Croce Rossa italiana raccontano dei push-backs della polizia francese e spiegano come oggi l’area di confine sia sempre più militarizzata. Per intercettare ogni essere umano presente sono utilizzate tecnologie all’avanguardia. Le guardie di frontiera si appostano con i binocoli per osservare dall’alto delle montagne e quantificare il numero di persone che escono dal pullman a Claviere. La Croce Rossa accoglie nel suo polo logistico di Bussoleno i migranti che vengono fermati dai gendarmi francesi e a cui viene risparmiata la detenzione nei centri prima di un possibile rimpatrio. La maggior parte delle volte, questi tenteranno ancora di raggiungere la Francia nei giorni successivi. Come l’Italia, la Francia rappresenta spesso un altro luogo di passaggio e non è ancora la meta finale dei migranti che puntano il più delle volte ad arrivare nei Paesi del nord o in Germania e Regno Unito. Bloccare queste persone è la responsabilità di cui la Francia si sente investita nei confronti dell’Europa.
Al mio arrivo al paesino di Claviere, sono subito stata catturata dalla bellezza della natura, dal canto degli uccelli e dal venticello di montagna che mi rinfrescava. Al tempo stesso sapevo che tutta l’area era controllata da telecamere, termoscanner e droni e mi sentivo osservata. Dietro ogni albero poteva essere nascosta una guardia di confine. Ero tranquilla però, perché nella mia tasca avevo una carta d’identità europea, quindi non c’era nulla da temere. Ho camminato con leggerezza e spensieratezza sullo stesso percorso in cui ogni giorno passano persone piene di paura e disperazione. Lungo il cammino mi sono imbattuta in turisti dai visi sorridenti, con gli occhiali da sole e il naso bianco pieno di crema solare e che con i bastoncini da nordic walking alle mani, mantenevano il passo a ritmo regolare. Ogni tanto si vedevano cartelli di divieto di passaggio e altri di avvertimento con scritto “area videosorvegliata”.
Tra gli alberi riuscivo a vedere Montgenèvre, che con una grande scritta dai colori sgargianti si presenta come un vero e proprio traguardo. La scritta sta lì a dare il benvenuto a chiunque voglia visitare il paese. Un’auto della ‘patrouille frontalière’ appostata su una curva sterrata mi ha ignorata mentre la sorpassavo a piedi. Dal mio aspetto non c’è dubbio che io sia europea, quindi sono passata senza alcun problema. Dopo una passeggiata di quasi un’ora, senza fatica, sono arrivata a destinazione.
Ho cercato di immedesimarmi nelle esperienze dei migranti quando attraversano la frontiera per arrivare in Francia a piedi, passando per i sentieri di montagna. Mi sono resa conto dell’assurdo che predomina in quella poca superficie quadrata di terra delimitata da una barriera invisibile che viene chiamata “area di confine”. Per alcuni il confine è netto, basta fare un passo fuori dall’area e i controlli cessano, la paura che prevaleva si trasforma in euforia per aver scampato un ennesimo respingimento. Per altri, come me, il confine non si manifesta, è impercettibile, addirittura quasi inesistente. Diventa palese che i confini tra gli Stati non siano soltanto fisici ma anche politici e di conseguenza non sono sempre coerenti perché vengono creati, cambiati, mutati a dipendenza dai diversi contesti storici e geopolitici. I confini sono la materializzazione di relazioni socio-politiche tra l’Europa e il resto del mondo, vissuti dagli individui in maniera completamente diversa a dipendenza dalle proprie origini.
I confini sono costruiti e immaginari e come ha scritto De Genova, “se non ci fossero frontiere non ci sarebbe alcuna migrazione ma soltanto mobilità”. Un luogo all’apparenza idilliaco può rivelarsi il peggiore incubo se si è clandestini. In inverno, quando la neve è alta e ricopre le montagne e i sentieri, il panorama imbiancato e suggestivo si può trasformare in una trappola mortale. Intanto, poco distanti, turisti scieranno indifferenti godendosi la loro settimana bianca.
Ripercorrendo lo stesso sentiero per rientrare verso Claviere, mi accorgo che a lato del cammino ghiaioso sono ammucchiati a terra dei vestiti che all’andata non c’erano ma erano stati appena abbandonati da qualcuno che probabilmente tentava di passare in Francia. Ho ricordato le parole di Leila, ragazza che viene dal Marocco che ha percorso la rotta Balcanica: “non c’è mai tempo da perdere, bisogna correre, affrettarsi, camuffarsi con indumenti dai colori mimetici e i vestiti che non servono o che sono sporchi, si buttano”.
Questo articolo fa riferimento al progetto interdisciplinare ‘HumMingBird’, al quale anche Open Migration lavora. Questo è il sito web.
Foto in copertina di Michelle von Dach come tutte quelle presenti nell’articolo