Bisognerebbe chiamarlo ‘surriscaldamento globale’ e sta mettendo a dura prova chi vive della terra, e non soltanto, costringendo sempre più persone a lasciare il luogo d’origine divenuto inabitabile. Per far fronte al problema, lo scorso 12 dicembre a Katowice, in occasione del vertice delle Nazioni Unite COP24, è stata presentata la proposta innovativa di un passaporto “climatico”.
Dirk Messner, direttore dell’Institute for environment and human security dell’Università delle Nazioni Unite a Bonn, e Robert Oakes, esperto di migrazioni presso lo stesso istituto, hanno suggerito l’introduzione del documento. Concesso a chi è costretto a spostarsi per via del cambiamento climatico, dovrebbe rivolgersi in particolare agli abitanti delle 12 piccole isole del Pacifico in via di sviluppo (PSIDS) che rischiano di venire completamente sommerse.
Ma qual è la reale portata del problema? Le istituzioni si stanno muovendo abbastanza velocemente?
Prima delle grandi ondate migratorie attraverso i continenti, gli eventi naturali catastrofici provocano spesso spostamenti interni. Il Global report on internal displacement 2018, realizzato dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), ha registrato oltre 18 milioni di nuovi trasferimenti associati a disastri naturali in ben 135 Paesi. “I rischi legati alle condizioni meteorologiche hanno scatenato la maggior parte dei nuovi spostamenti, di cui 8.6 milioni per le alluvioni e 7.5 milioni per tempeste e cicloni tropicali.”
Eppure non è facile capire su quali di questi eventi il cambiamenti climatico agisca come causa. Quando si parla di attribution, ci si riferisce ai tentativi di rispondere alla domanda “se e in quale misura i fattori climatici esterni alterino la probabilità di eventi meteorologici estremi”. Il World Weather Attribution, con l’aiuto della Croce Rossa internazionale, identifica e studia questi fenomeni e mira a fornire una valutazione dell’influenza umana sugli eventi più recenti.
“Abbiamo attribuito in tempo reale eventi in luoghi molto diversi del mondo, dalla siccità in Africa orientale e in Sud Africa fino alle piogge estreme associate all’Uragano Harvey e le ondate di caldo in India e in Europa,” dice Friederike Otto, che coordina il progetto internazionale.
Otto è anche acting director del’’Environmental Change Institute (ECI) all’Università di Oxford e professoressa associata nel programma di ricerca sul clima. Conduce diversi progetti per comprendere l’impatto dei cambiamenti climatici causati dall’uomo sui sistemi naturali e sociali, in particolare in Africa e in India, e indaga le implicazioni politiche di questo campo scientifico emergente. “In Europa, negli Stati Uniti e altri Paesi del Nord mondiale storicamente responsabili del cambiamento climatico, specialmente fra i ricchi, le ondate di caldo sono piacevoli e non certo una minaccia,” dice Otto. “Gli effetti sono ancora percepiti come lontani per coloro che dovrebbero modificare il loro comportamento.”
Inoltre, alcune regioni sono più vulnerabili economicamente e anche più esposte perché gli abitanti e i sistemi naturali si sono adattati alla loro specifica posizione geografica. “Mentre nelle zone temperate le condizioni cambiano molto da un giorno all’altro perciò è più difficile che lì si sviluppi un segno del cambiamento climatico, nelle zone tropicali la variabilità giornaliera è ridotta e ogni spostamento dalle condizioni normali porta più rapidamente i suoi effetti,” spiega Otto.
La temperatura sulla Terra ha già subito un aumento di 1 °C dal XIX secolo, cioè l’inizio dell’industrializzazione. Se dovesse continuare a crescere fino a 2°C, è prevista la trasformazione del 13% degli ecosistemi sulle terre emerse. Le conseguenze sono negative: per esempio, diminuiranno la biodiversità e l’acqua potabile, aumenteranno le malattie. Con meno risorse a disposizione e la popolazione in aumento, di questo passo ci sarà meno cibo per tutti.
In un articolo d’opinione per Al Jazeera English, Alex Randall, project manager per l’organizzazione Climate change and migration coalition, sostiene che migrare sia “una strategia di adattamento di successo” e che “I governi mondiali dovrebbero legalizzare e regolare le migrazioni climatiche temporanee, invece che provare a fermarle.”
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), non esiste una stima attendibile delle migrazioni indotte dal cambiamento climatico. Le previsioni variano da 25 milioni a un miliardo di migranti ambientali entro il 2050, che siano all’interno dello stesso Paese o attraverso i confini, per un breve periodo o permanentemente. La cifra più ricorrente è 200 milioni, l’equivalente attuale dei migranti in tutto il mondo.
“L’urgenza della situazione nelle SIDS (Small Island developing States) e il relativamente piccolo numero di persone colpite significa che garantire loro il diritto di spostarsi verso nuove aree è un modo fattibile per consentire una vita sostenibile e dignitosa,” ha detto Messner a Katowice. “I Paesi responsabili per il cambiamento climatico dovrebbero aprire le porte per ospitare le persone in possesso di un passaporto climatico.” Secondo Messner, questo piano rappresenterebbe una forma di giustizia: i Paesi sviluppati sono più ricchi e hanno anche contribuito maggiormente alle emissioni dannose di anidride carbonica. “Il passaporto climatico potrebbe rappresentare un faro per l’umanità, portando un esempio su come facilitare le migrazioni volontarie e proteggere i diritti dei migranti al tempo stesso.”
Il passaporto dovrebbe essere modellato sull’esempio di quello di Nansen: ideato nel 1922 dallo scienziato ed esploratore polare Premio Nobel per la pace Fridtjof Nansen, era destinato a profughi e rifugiati apolidi dopo la Prima Guerra Mondiale, internazionalmente riconosciuto e rilasciato dalla Società delle Nazioni.
I dettagli e la vera possibilità di attuazione però non sono ancora chiari. In generale l’invito di Messner e Oakes si basa sul principio del loss and damage: il meccanismo, approvato a Doha in occasione di COP18, stabilisce che le nazioni ricche debbano assumersi l’onere economico dei danni climatici subiti dalle nazioni più povere.
La mattina del 12 dicembre c’era anche Zoe Ayong, che si occupa di progettazione e ricerca al National disaster management office del governo di Vanuatu. L’anno scorso il governo di Vanuatu ha lanciato il suo programma per i disastri ambientali e le migrazioni. Lo scopo è fornire soluzioni a lungo termine e assicurare protezione ai migranti. “Le isole del Pacifico sono le prime vittime degli impatti negativi del cambiamento climatico,” ha detto Ayong. “Come possiamo applicare questo programma quando i Paesi sviluppati non mostrano segnali positivi? Senza lealtà da parte loro nel riconoscere il loss and damage, […] continueremo a guardare senza fare niente.”
Gli abitanti delle SIDS (in tutto 58 isole, fra cui è compresa Cuba) sono circa 70 milioni, meno dell’1 per cento della popolazione mondiale. Ma, se le isole del Pacifico contano appena 1.4 milioni, la questione è molto più ampia. In effetti, l’innalzamento del livello del mare potrebbe portare 2 miliardi di persone a lasciare le zone costiere entro il 2100.
Alle prese con gravi problemi fra cui non mancano i disastri ambientali, il Bangladesh è luogo di emigrazione per antonomasia al punto che l’economia del Paese dipende in buona parte dalle rimesse dei suoi cittadini all’estero. A metà tra India e Bangladesh, le Sundarbans sono la più grande foresta di mangrovie del mondo e un sito patrimonio mondiale che ospita specie protette come le tigri del Bengala. Questo habitat sostenta circa quattro milioni di persone, ma ora come ora i pesci d’acqua dolce stanno morendo e, dove scompaiono le mangrovie, i cicloni provocano sempre più danni.
“È stato scientificamente provato che nel corso degli anni la zona si è ridotta e impoverita […] e che il cambiamento climatico è una delle cause principali. I governi hanno in parte riconosciuto che si tratta di un problema e che occorre prendere provvedimenti per fermarlo,” dice Kanksha Mahadevia Ghimire, dottoranda e ricercatrice in Legge all’Università di Toronto. Nella ricerca pubblicata insieme al collega Mayank Vikas, Ghimire ha analizzato il cambiamento climatico nelle Sundarbans: “I cicloni arrivano nelle zone più interne, fino alle piantagioni, devastano case e spezzano vite. È difficile calcolare un numero, non penso nemmeno che le autorità locali tengano un registro, perché ci sono persone che vanno e vengono ed è anche un problema internazionale per India e Bangladesh, ma di sicuro sappiamo che una migrazione sta avvenendo.”
Per molti, la prima tappa resta lo spostamento all’interno dello stesso Paese. È il caso di quasi 800.000 persone in Somalia soltanto nella prima metà del 2018, secondo dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC). Fra queste, 456.000 si sono spostate in seguito a disastri naturali e 103.000 di loro dalle aree rurali a Mogadiscio.
“La maggior parte di queste persone si sono trasferite in seguito alla siccità e per la mancanza di mezzi di sostentamento nella zona di Shabeellaha Hoose, dove avevano perso il loro bestiame e il raccolto. Si spostano a Mogadiscio anche perché sanno che lì troveranno aiuti umanitari,” dice Ivana Hajžmanová, monitoring expert a IDMC. “Una volta arrivati, si sistemano nelle periferie e vivono in una condizione grigia senza documenti e di solito su proprietà altrui.” Secondo Hajžmanová, questi arrivi mettono pressione sulle infrastrutture locali e gli spostamenti attraverso i territori sconvolgono gli equilibri sociali fra clan: “Tutto è interconnesso e il cambiamento climatico sicuramente genera nuovi conflitti nel Paese.”
Gli abitanti di un territorio in trasformazione cercano di rimanere aggrappati a quello che resta del posto dove sono nati e dove la loro famiglia ha sempre vissuto. Migrare rappresenta l’estremo espediente per una comunità indigena forte della sua resilienza, caratteristica spesso lodata nei dibattiti sul clima. In Sud America, l’OIM ha analizzato cinque casi diversi: le inondazioni nella città Luján in provincia di Buenos Aires e in Argentina; l’alternanza siccità-inondazioni nel municipio di Presidente Figueiredo nello Stato dell’Amazonas in Brasile; la siccità a Monte Patria in Cile; le inondazioni a Tacamocho in Colombia; lo scioglimento dei ghiacciai a Chuquipogyo in Ecuador. La conclusione è che “in tutti i casi ci sono movimenti migratori permanenti e transitori dovuti all’intensificarsi degli eventi climatici estremi causati dal cambiamento climatico.” E ancora: “È importante sottolineare la relazione tra povertà, accesso alle risorse (la terra), livello di vulnerabilità e dislocamento, essendo i più poveri i più grandi perdenti di fronte a questi eventi […] Lo studio ha permesso di verificare la mancanza di informazioni sulle cause e la magnitudo dei movimenti della popolazione causati da eventi climatici.”
Carlos Simonelli è specializzato in migrazione e cambiamento climatico alla Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali (Flacso) in Messico. “Le persone non sono consapevoli della gravità della situazione, specialmente nelle zone costiere. Le autorità devono prendere coscienza prima di tutto perché ancora si confonde cambiamento climatico con variabilità meteorologica e poi capire chi sono le persone interessate,” dice Simonelli. “Tutti stanno migrando, c’è una carovana di 20.000 persone in Messico, ma non sono chiaro i motivi: clima, mancanza di lavoro, narcotraffico… perché nessuno lo chiede abbastanza bene.”
In effetti, ovunque nel mondo c’è un’enorme lacuna dal punto di vista legale. L’idea di un passaporto internazionale è affascinante quanto complicata, secondo Ghimire. “Ho un migliaio di domande! Tanto per iniziare, quali diritti comporterebbe un tale passaporto internazionale? Concedere il passaporto significa trasformare qualcuno in un cittadino, con tutti i suoi diritti civili. Nel momento in cui si usa la parola passaporto si implica una certa connotazione,” dice. “Non voglio essere scettica, spero che il mondo trovi un modo per affrontare il cambiamento climatico, ma penso che i governi si rifiuteranno di concedere a milioni di migranti gli stessi diritti dei cittadini. Se vuoi mettere un progetto in atto, deve essere politicamente accettabile. Che è il motivo per cui ci deve essere chiarezza e anche la terminologia è importante. La domanda è: vogliamo un progetto ideale che non accadrà mai?”
La priorità vera è reagire al cambiamento. Non a caso, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) parla di adaptation: “l’adattamento in natura o tra i sistemi umani in risposta a stimoli climatici attuali o previsti, o ai loro effetti, per limitare il danno o trarne un beneficio.”
E Ghimire è fermamente convinta che un approccio dal basso verso l’alto fornisca più aiuti di un’eventuale soluzione internazionale dall’aria utopistica. La ricercatrice sta infatti esplorando come l’auto-critica possa essere utilizzata come meccanismo per incoraggiare le istituzioni pubbliche nei Paesi in via di sviluppo ad adottare le migliori pratiche volte a mitigare il rischio di catastrofi in seguito a disastri naturali. “La letteratura sui disastri ribadisce che bisogna imparare dal passato, in modo che i danni futuri possano essere mitigati,” dice Ghimire. “Tuttavia, l’esperienza suggerisce che le riforme istituzionali vengono raramente applicate dopo disastri catastrofici. Si tratta di una preoccupazione cruciale in quanto i disastri naturali, come inondazioni, siccità e terremoti sono un fenomeno ricorrente in molte regioni del mondo e aumenterà la loro frequenza a causa dei cambiamenti climatici.”
Sullo stesso argomento: Migranti e cambiamenti climatici. Chi migra, perché e come intervenire per porvi rimedio?
Foto di copertina: NoPlanetB COP24 Alexander Gerst/Flickr (CC BY-NC-ND 2.0)