L’immigrazione fa bene.
Gli immigrati rappresentano un contributo indispensabile e irrinunciabile per un paese in continuo invecchiamento come l’Italia, tanto da un punto di vista demografico quanto economico.
Da un lato, infatti, il saldo migratorio con l’estero contrasta (quantomeno in parte) la crisi di natalità – portando insomma preziosa nuova linfa vitale a un paese sempre più vecchio – e, dall’altro, il lavoro degli stranieri costituisce una importante voce del bilancio nazionale. Gli immigrati sono infatti gran lavoratori, e contribuiscono in maniera significativa all’economia del nostro paese.
Quanto vale esattamente l’immigrazione? Facciamo i conti con Fondazione Moressa, che ha appena pubblicato il rapporto 2016 sull’impatto fiscale dell’immigrazione.
L’immigrazione che fa bene a Pil e pensioni
Innanzitutto un po’ di numeri per dare le dimensioni del fenomeno:
in Italia risiedono più di 5 milioni di stranieri, di cui oltre 2,3 occupati (si parla rispettivamente dell’8,3% della popolazione e del 10,5% dell’occupazione totale);
i 2,3 milioni di stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza – un valore di poco inferiore al fatturato della Fiat, primo gruppo industriale italiano – e versano quasi 11 miliardi di euro in contributi previdenziali, pagando così circa 640 mila pensioni italiane.
Insomma: è innegabile che l’immigrazione faccia bene alla nostra economia, aumentando il Pil, garantendo le pensioni.
Lavorano tanto, vengono pagati poco
Due i dati che emergono.
Innanzitutto, gli stranieri sono in generale più occupati e meno inattivi degli autoctoni: nella maggior parte dei casi si tratta infatti di potenziale “forza lavoro” (il 78% degli stranieri ha tra i 15 ed i 64 anni, contro il 64% degli italiani, ed è notevole la componente giovane) e, storicamente, la popolazione immigrata presenta tassi di occupazione superiori rispetto agli italiani – il che va senz’altro messo in relazione alla normativa sull’immigrazione, che lega il permesso di soggiorno alla condizione lavorativa.
Per essere precisi, negli ultimi 7 anni, i tassi di occupazione degli autoctoni si sono mantenuti sul 55-56%, mentre quelli di stranieri hanno oscillato tra il 64% e il 59%.
In secondo luogo, se è vero che gli stranieri lavorano tanto, è anche vero che vengono pagati poco. Nella maggior parte dei casi (il 66%), gli stranieri svolgono infatti lavori a basso livello di specializzazione – una situazione che peraltro trova solo in parte giustificazione nel più basso titolo di studio dei soggetti interessati (solo il 12% degli immigrati ha una laurea, contro il 22% degli autoctoni). Gli immigrati sono principalmente dipendenti (87,5%) e trovano impiego soprattutto nei servizi – come collaboratori domestici, fornitori di assistenza e cura domiciliare, addetti alla ristorazione ed alle pulizie, operatori ecologici – oppure come operai, ausiliari di magazzino, braccianti agricoli ed artigiani edili.
Ciò si traduce ovviamente in differenziali di stipendio e reddito molto alti tra italiani e stranieri: se il valore mediano degli stipendi dei dipendenti italiani è di 1,300 euro, quello degli stranieri si attesa invece sui 1.000 euro; i redditi Irpef degli italiani sono stimati a quasi 21.000 annui mentre quelli degli stranieri non superano i 13,000.
Questo emerge ovviamente anche a livello di nuclei familiari: mediamente il reddito annuo di una famiglia italiana si attesta sui 31 mila euro, il 43% in più rispetto a quello di una famiglia immigrata media (il cui reddito annuo ammonta a 18 mila euro).
Non solo: lo studio di Fondazione Moressa sottolinea il fatto che gli immigrati siano inseriti nei segmenti lavorativi più bassi e svolgano le mansioni meno qualificate ha ripercussioni anche sulle condizioni relative alla sicurezza (e infatti sono più frequenti le denunce di infortuni sul lavoro). Inoltre è evidente una tendenza alla precarizzazione dei rapporti lavorativi: tra gli immigrati aumentano i contratti a tempo determinato e diminuiscono quelli a tempo indeterminato; elevata è l’incidenza delle collaborazioni, del lavoro stagionale e del lavoro occasionale accessorio (sempre più spesso pagato con i voucher).
Insomma: quello degli stranieri è in genere un lavoro meno qualificato, meno pagato, meno sicuro.
Resta quindi evidente come questo sia un nodo critico su cui sarebbe importante intervenire: per mantenere gli innegabili benefici economici attualmente derivanti dall’immigrazione è infatti necessario aumentare la produttività degli stranieri, non relegandoli a basse professioni.
L’imprenditoria straniera che cresce
Una riflessione che diventa ancora più attuale quando si riflette sul valore apportato dall’imprenditoria straniera alla nostra economia.
In Italia ci sono 656 mila imprenditori immigrati e 550 mila imprese a conduzione straniera, che nel 2015 hanno prodotto 96 miliardi di euro di valore aggiunto.
Davvero significativo è poi il dato relativo alla variazione percentuale del numero di imprenditori negli ultimi 5 anni: mentre gli imprenditori italiani sono diminuiti del 7,5%, quelli stranieri sono aumentati del 20,4%.
Gli imprenditori stranieri sono soprattutto marocchini, cinesi, romeni ed albanesi.
Predominante è di gran lunga la componente maschile, con l’imprenditoria cinese che si caratterizza per una più alta presenza femminile (con un’incidenza del 45,5%).
I principali settori per presenza di imprenditori immigrati e numero di imprese sono il commercio, le costruzioni, e i servizi alle imprese. Le imprese artigiane hanno conosciuto un fiorente sviluppo e rappresentano quasi un terzo dell’imprenditoria straniera (sono infatti più di 180 mila).
Ma quanto ci costano?
Una precisazione a margine, per chi non fosse ancora convinto delle somme che stiamo tirando dopo tutti questi conti.
Uno dei temi più controversi nel dibattito pubblico e mediatico è infatti quello del recepimento di benefici di welfare da parte degli immigrati: ma quanto ci costa garantire previdenza, sanità, istruzione, servizi sociali, casa, giustizia, accoglienza e trasferimenti, ci chiedono?
Tra il 2012 e il 2014, il totale delle spese a costo standard è passato da 12,4 a 14,7 miliardi di euro – arrivando così a rappresentare l’1,75% della spesa pubblica.
Che non pare esattamente una gran cifra quando paragonata ai quasi 11 miliardi di contributi previdenziali versati dai lavoratori stranieri (a cui vanno sommati i quasi 7 miliardi di euro versati in Irpef) e ai 96 miliardi di valore aggiunto portati dall’imprenditoria straniera.
I dati confermano insomma l’impatto davvero significativo del lavoro e dell’imprenditoria immigrata nel tessuto produttivo italiano.
Un valore aggiunto prezioso, che andrebbe valorizzato e incentivato.
Se non (solo) perché è la cosa giusta da fare, (anche) perché conviene – a tutti.