Per quanto ricco e vario, il panorama mediatico libanese resta vincolato alle dinamiche settarie e politiche che modellano il Paese, dove cariche governative e vertici del settore pubblico sono distribuiti su base confessionale ai tre principali gruppi: cristiani, sunniti e sciiti (ci sono 18 confessioni ufficiali). Secondo uno studio di Reporter Senza Frontiere (RSF), oltre il 78 per cento dei media tradizionali, tra cui si annoverano dieci quotidiani, nove canali televisivi, circa quaranta stazioni radio e oltre 1.500 periodici (circa la metà dei periodici stampati in Medio Oriente), ha affiliazioni politiche, dirette o indirette. Inoltre, il 32 per cento dei media più popolari è nelle mani di poche eminenti famiglie locali. Una situazione che non garantisce una reale pluralità né libertà di informazione (il Libano è al 107imo posto, su 180, dell’Indice mondiale sulla Libertà di Stampa di RSF), ma che da alcuni anni è scossa dal l’emergere di piattaforme alternative, che usano Internet e i social media in modo innovativo e creativo, e che si propongono come voci indipendenti, slegate da dinamiche comunitarie e politiche. Queste realtà rispondono a una crescente domanda di informazione, soprattutto tra i giovani frequentatori della Rete, che è emersa con maggiore forza durante le proteste dell’ottobre del 2019, quando la copertura dei media tradizionali non è riuscita a soddisfare quei libanesi che sono scesi in piazza per chiedere l’azzeramento dell’attuale classe dirigente e (in parte) la fine del settarismo. Quella che molti in Libano chiamano “rivoluzione”, ha fatto cadere il tabù sulla critica di figure prima intoccabili, se non innominabili, e dalla piazza sono nate nuove iniziative d’informazione e altre già esistenti si sono rafforzate e ampliate. Nel pullulare di nuove voci sulla Rete – alcune con decine di migliaia di follower (il Libano ha 5 milioni di abitanti) -, si possono ancora scorgere affiliazioni politiche e confessionali, ma ci sono anche testate giornalistiche on line smarcate dal finanziamento politico e che propongono narrazioni alternative a quelle propinate dai media tradizionali, e critiche verso l’intero establishment.
Tra queste la piattaforma Megaphone ha mosso i primi passi nel 2017 grazie al lavoro volontario di un gruppo di attivisti, sull’onda delle manifestazioni del 2015 per la crisi dei rifiuti e delle elezioni amministrative del 2016, che hanno visto per la prima volta la partecipazione di una lista indipendente Beirut Madinati (Beirut è la mia città). Alla fine del 2019, in concomitanza con le proteste che hanno scosso il Libano, Megaphone si è rafforzata, puntando soprattutto sui social media: articoli di commento e analisi (in arabo e senza foto) sul sito e notizie sui social attraverso card e video dalla grafica innovativa (con versione inglese). Oggi ha una redazione di circa 15 persone e una ventina di collaboratori, pagati in dollari (un privilegio con la svalutazione che ha ridotto la Lira a carta straccia) grazie ai fondi di grant e fondazioni internazionali. “Abbiamo pensato che ci fosse bisogno di una voce indipendente e progressista, che fosse davvero critica di ogni forma di potere e che aprisse il confronto con un audience giovane”, spiega Jean Kassir, uno dei fondatori di Megaphone. “Non dipendiamo da alcun gruppo politico, né nazionale né regionale né internazionale, e siamo molto accorti alle nostre fonti di finanziamento. Inoltre, stiamo esplorando altre opzioni: abbiamo già lanciato una campagna di donazioni e lavoriamo all’offerta di servizi come training, produzione di contenuti, partnership. Questo ci avvantaggia rispetto ad altri attori del settore dell’informazione, che oggi faticano a pagare i giornalisti”.
In un momento di crisi globale dei media tradizionali e con il Paese alle prese con una crisi economica (forse la peggiore in assoluto dalla metà del XIX secolo, secondo la Banca Mondiale) che ha precipitato metà della popolazione in povertà, i media tradizionali navigano in brutte acque, nonostante le affiliazioni. L’ultima pubblicazione a chiudere i battenti, lo scorso novembre, è stata il Daily Star, preceduto nel 2018 da Al Mustaqbal e dallo storico Al Hayat, e due anni prima dal prestigioso quotidiano As Safir (2016). L’indipendenza economica è un presupposto fondamentale per queste nuove esperienze giornalistiche, che danno spazio ai gruppi e alle storie che non trovano posto nell’agenda setting di media condizionati dagli interessi della politica, e che con l’informazione vogliono sfidare lo status quo. Un sistema clientelare, e altamente corrotto, da cui dipendono in tanti, specialmente in un periodo di tale crisi. Sebbene in difficoltà, i media tradizionali restano dei Big del settore: “La competizione non è semplice e non succede in una notte”, fa notare Kassir. Inoltre, molti libanesi restano affezionati ai media di riferimento delle proprie comunità, anche nel mondo digitale. La sfida però è stata lanciata, ed è parte delle numerose iniziative che hanno preso le mosse dalle primavere arabe del 2011 e che in Libano cavalcano l’onda che ha iniziato ad agitare il Paese sin dal 2015. Quando la crisi già mordeva, ma non aveva ancora stravolto la vita del libanesi con l’inflazione alle stelle e la svalutazione della Lira, la mancanza di elettricità, di medicine, di carburante e l’emigrazione in massa, cui ad agosto del 2020 si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut con il suo carico di vittime, sfollati e distruzione.
“Dopo le primavere arabe pensavamo che le cose sarebbero andate meglio, invece non è stato così”, racconta Diana Moukalled, co-fondatrice a capo redattore di Daraj. “Abbiamo assistito a persecuzioni, conflitti, esodi in massa. Volevamo fare bene il nostro lavoro e abbiamo pensato che fosse giunto il momento di avere la nostra voce e una piattaforma indipendente”. Daraj è una piattaforma multimediale nata nel 2017 dalla volontà di tre giornalisti con una lunga esperienza nel settore – Hazem Al Amin, Alla Ibrahim e Diana Moukalled -, rivolta a un pubblico di lingua araba (il sito ha anche una versione in inglese) e il cui budget consiste in fondi di istituzioni internazionali, produzioni, partnership. Ha la sede principale a Beirut e collaboratori in tutta la regione. È la testata per cui ha scritto l’attivista egiziano Patrick Zaky ed è parte del Consorzio internazionale di Giornalismo investigativo internazionale (ICIJ) che ha pubblicato i Pandora Papers. “Il DNA di Daraj è il giornalismo investigativo”, continua Moukalled. “Raccontiamo le storie che non trovano spazio nei media mainstream, il nostro è un giornalismo veritiero e coraggioso, che non risparmia critiche al potere, e Daraj copre i fatti di tutta la regione, perché non si può parlare di Libano prescindendo dagli avvenimenti regionali”.
Il Libano, infatti, è da sempre al centro degli appetiti delle potenze regionali e internazionali, e lo sono anche i suoi media. D’altronde, i potentati politici locali hanno i loro sponsor internazionali: l’ex primo ministro Saad Hariri e la sua famiglia sono legati all’Arabia Saudita e posseggono unimpero mediatico; il presidente del Parlamento Nabih Berri detiene una grossa fetta del canale National Broadcasting Network (NBN); Hezbollah, legato all’Iran, controlla un grosso network che include il canale Al Manar. C’è chi dubita che sia possibile essere davvero indipendente in un Paese dominato dal discorso settario, che confina con la Siria, dove Hezbollah ha mandato le sue milizie a combattere per il governo di Assad, e con Israele che non tollera la presenza iraniana nella regione e con cui Beirut non ha mai firmato la pace. Anche queste nuove piattaforme sono accusate da alcuni di essere sponsorizzate e manovrate da potenze internazionali con interessi in Libano. “Ci accusano di essere agenti di Soros e molto altro”, dice Moukalled, “ma rispondiamo con il nostro lavoro che è sul nostro sito, dove vige la massima trasparenza anche riguardo alle nostre fonti di finanziamento”. Per Kassir di Megaphone, tali critiche fanno parte di un generale atteggiamento sospettoso nei confronti dell’intero movimento di opposizione che ha animato le piazze libanesi, ma non solo, negli ultimi anni: “Siamo consapevoli di quanto sia politico il nostro lavoro, siamo indipendenti ma non neutrali, non stacchiamo assegni in bianco all’opposizione. Ci riteniamo però uno dei tanti elementi di un ecosistema che chiede un cambiamento radicale in Libano. È una richiesta legittima e accusare i libanesi, e gli arabi in generale, di essere manovrati dall’esterno quando chiedono giustizia, democrazia e libertà è un insulto”.
La genesi di Megaphone come di Daraj e di molte altre realtà che si propongono come voci alternative, è legata al vento di rinnovamento che nel 2011 ha spazzato la regione. Quel momento di coraggio e di immaginazione politica si è scontrato con la violenza e la repressione (in cui i media vicini al potere hanno avuto un ruolo), ma non si è esaurito. In Libano, dove ci sono una società civile vivace e un certo grado di libertà di stampa e di espressione, anche se sempre sotto pressione, si è creato lo spazio per questi progetti giornalistici che nei prossimi mesi saranno impegnati a coprire le elezioni, previste per il 27 marzo. La sfida è enorme, e né i giornalisti né gli attivisti si illudono che sia vinta al primo colpo: le forze politiche che occupano tutti gli ambiti del potere da decenni e che sono responsabili del fallimento finanziario del paese, faranno di tutto per evitare sorprese. Inoltre, negli ultimi due anni c’è stato un deterioramento della libertà di espressione, con un aumento degli attacchi ad attivisti, giornalisti e blogger. Il caso più eclatante è stato l’assassinio, ancora impunito, dell’intellettuale sciita Lokman Slim, fervente critico di Hezbollah. “Non è una situazione ideale”, conclude Diana Moukalled, “ma la battaglia per la libertà di stampa è sempre in corso e per noi è la battaglia principale. Se la perdiamo, perdiamo il Paese”.
In copertina: muro di Beirut. Foto di Sonia Grieco