A fianco dell’edificio che ospita il Consolato Etiope c’è una piccola montagna di valigie, borse, bottiglie d’acqua e pacchi. Attorno, una decina di ragazze siede sul lato della strada. Una di loro riposa sul letto improvvisato per terra con qualche lenzuolo e un materasso. Zeina è una di loro. Ha 28 anni e vive in Libano da 3 anni, presso una famiglia dove lavorava come lavoratrice domestica. Da 4 giorni passa le sue giornate e notti davanti al consolato. “Non mi pagano da 4 mesi”, racconta Zeina. “La signora per cui lavoravo ha pagato un taxi per farmi portare qui. Senza una valigia, senza il passaporto, senza un telefono. Sono venuta solo con quello che indosso. Per favore, aiutatemi” dice mentre scoppia a piangere. Alamitu siede vicino a lei. Ha 25 anni e lavora in Libano da 2 anni. La famiglia con cui viveva e dove lavorava l’ha pagata solamente per i primi 9 mesi. La “madame”, come solitamente viene chiamata la datrice di lavoro dalle lavoratrici domestiche, la maltrattava. Non le lasciava comprare alcun vestito, e nemmeno parlare con la sua famiglia. Da 2 anni i suoi non hanno alcuna notizia di lei. Alcuni giorni prima, il marito della madame l’ha portata davanti al consolato, lasciandola senza alcun soldo. Alamitu non vuole tornare da loro, vorrebbe solo che pagassero il biglietto per tornare a casa. “Sto aspettando qui, però non so cosa sto aspettando”, dice. Un’altra ragazza, Aisha, di 27 anni, spiega che non c’è nemmeno un bagno che possono utilizzare. Dal Consolato non hanno ricevuto alcun supporto. Passano le giornate e le notti sotto lo sguardo di chi passa in macchina, senza sapere che fare. Vicino a loro, Naime parla con voce arrabbiata e rotta dalle lacrime. “Io sto bene, non ho problemi. Sono venuta perché le ragazze sono qui, piangendo tutto il giorno. Sono venuta per confortarle”, dice, “Siamo esseri umani, non è giusto essere trattati così”.
Durante il mese di giugno, questa scena è diventata tristemente famigliare per chi si trovava a passare sulla strada trafficata che scende verso Beirut. A inizio giugno, un primo gruppo di 35 ragazze si è trovato a passare lì la notte. Nelle settimane successive, svariati taxi e gli stessi datori di lavoro si sono susseguiti lasciando decine di ragazze davanti al Consolato. Altre sono arrivate dopo aver lasciato o essere scappate dalla famiglia per cui lavoravano. A causa della grave crisi economica che il Libano sta attraversando, molte famiglie libanesi non possono più permettersi di pagare il loro stipendio, nonostante il costo estremamente risicato. Alcune non guadagnavano più di 150 $ al mese. Come Zeina e Alamitu, molte sono in Libano da anni, e non vengono pagate da mesi. Vogliono tornare a casa, ma il costo del biglietto per il ritorno è inaccessibile. Ora, oltre a non essere pagate, rischiano di non avere più nemmeno un luogo dove vivere. Il Consolato ha chiuso loro le porte in faccia per settimane. Il governo libanese non ha preso alcuna chiara misura per rispondere all’emergenza. L’aeroporto di Beirut è rimasto chiuso per mesi a causa del COVID-19, e nonostante la riapertura a inizio luglio, non ci sono ancora piani certi riguardo a eventuali voli di rimpatrio. “Un biglietto, il mio passaporto e dei vestiti. Questo è tutto quello che voglio” dice Zeina.
La crisi economica, il COVID-19 e gli effetti sulle lavoratrici
Il Libano sta affrontando già dal 2019 una grave crisi economica. Negli ultimi mesi, il governo ha dichiarato il default, i prezzi di beni di prima necessità sono saliti, e il valore della lira libanese, che prima contava di un tasso di cambio fisso con il dollaro, è calato a picco. Se prima della crisi il salario minimo di 675.000 lire libanesi corrispondeva a 450 $, è arrivato a valere solamente 75 $. A tutto ciò si sono aggiunte le difficoltà causate dal lockdown imposto per mesi per fronteggiare l’emergenza COVID-19.
La crisi colpisce soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione, tra cui le lavoratrici domestiche. La maggior parte di loro inviava parzialmente, o interamente, il proprio stipendio alla famiglia nel paese di origine, come documenta uno studio condotto dal CeSPI. La scarsità di dollari ha portato alcuni datori a pagarle in lire o a non pagarle del tutto. Molte delle lavoratrici che non vivono nelle case dei datori di lavoro, le cosiddette freelance, hanno perso il lavoro durante il lockdown a causa delle preoccupazioni legate al virus.
“Tutte le nazionalità sono colpite. Il motivo per cui la comunità etiope è più visibile, è perché è la comunità più numerosa”, spiega Zeina Ammar, portavoce dell’associazione libanese Anti-Racism Movement (ARM). ARM ha condotto un’indagine lo scorso aprile tra 356 lavoratrici domestiche e altri lavoratori migranti, i cui risultati sono allarmanti. “Molte di loro non possono permettersi cibo o acqua. Molte rimangono senza casa, abbiamo visto svariati sfratti per coloro che sono freelance, e altre vengono abbondate dai loro datori di lavoro. È un disastro, che è destinato solo a peggiorare finché non verrà messo in atto un chiaro e trasparente piano di evacuazione con precise responsabilità”, dice Ammar.
ARM sta conducendo interviste con alcune delle lavoratrici domestiche che si sono trovate senza casa e senza lavoro, riscontrando che la maggior parte di loro è stata abbandonata dal proprio datore, ha stipendi arretrati che variano a un mese a un anno, vuole ritornare nel proprio paese, ma non ha con sé il proprio passaporto. I loro documenti rimangono nelle mani dei precedenti datori di lavoro. In collaborazione con ARM, Medici Senza Frontiere Libano si sta occupando di fornire assistenza medica e psicologica a lavoratrici domestiche e altri migranti. La ONG a inizio luglio ha pubblicato un rapporto che documenta un grave peggioramento della salute mentale delle lavoratrici. Molte di loro sono vittime di abusi, tra cui lavoro forzato, sfruttamento, violenze e traffico di essere umani, che hanno pesanti ricadute sulla loro salute mentale. La situazione di vulnerabilità in cui si trovano le lavoratrici non è però causata semplicemente dalla crisi economica e dal COVID-19. La crisi attuale ha semplicemente acuito delle problematiche che già esistevano, che hanno radici nel sistema che regola le condizioni di lavoro e soggiorno per le lavoratrici domestiche in Libano, il sistema della “kafala”, considerato da molti una moderna forma di schiavitù.
Il lavoro domestico in Libano sotto il sistema della “kafala”, tra limitazioni delle libertà e violazioni di diritti umani
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite (ILO) stima che in Libano vi siano circa 250.000 lavoratrici domestiche. Le lavoratrici etiopi sono intorno alle 156.000. Altre provengono da Filippine, Bangladesh, Sri Lanka, Ghana, Nepal, e altri paesi asiatici e africani. Guadagnano tra i 150$ e i 300$, a seconda della nazionalità. Lavorano nelle case di famiglie libanesi, spesso prendendosi cura dei bambini e degli anziani. “La kafala non è una singola legge, ma è piuttosto un insieme di leggi, politiche, pratiche e consuetudini che caratterizzano la gestione e il soggiorno della manodopera straniera. Al centro del sistema dalla kafala c’è il rapporto sbilanciato nella relazione tra il datore di lavoro e la lavoratrice” spiega Zeina Mezher, dell’ufficio regionale di ILO a Beirut. Il sistema della kafala (sponsorship) lega la lavoratrice in un rapporto esclusivo con il loro datore di lavoro, il loro “sponsor”. Nelle mani del datore di lavoro vi è quindi il controllo quasi totale della possibilità di recedere il contratto, rinnovarlo, cambiare datore di lavoro, e lasciare il paese. Inoltre, la legge libanese che regola il diritto del lavoro non include il lavoro domestico, escludendo così le lavoratrici da garanzie e diritti come ad esempio lo stipendio minimo, e vieta la possibilità di organizzarsi in sindacati.
Per molte donne, la casa dove vivono diventa una prigione, come documenta un rapporto di Amnesty International. Lavorano per ore senza pause, senza giorni di riposo. Gli viene sequestrato il passaporto e vengono chiuse a chiave in casa. Ad alcune viene impedito qualsiasi forma di comunicazione con l’esterno. Non vengono pagate per mesi. Dormono su un divano, sul terrazzo, o per terra. Non gli vengono forniti abbastanza cibo o acqua, e gli è negato l’accesso alle cure mediche. E l’incubo diventa solo peggiore nei casi in cui si trovano a subire violenze verbali, fisiche, o sessuali, da parte della madame, del marito, di altri nella famiglia, o addirittura da chi lavora per l’agenzia di reclutamento che le ha portate in Libano.
Queste drammatiche condizioni portano a gravi conseguenze sul piano della salute mentale. Si stima una media di 2 morti a settimana tra le lavoratrici domestiche. Queste morti vengono per la maggior parte categorizzate come suicidi, o come tentativi di fuga falliti, e non sempre un’adeguata inchiesta viene svolta per indagare sulle cause della morte. Durante il mese di luglio, giornalisti locali hanno riportato già un caso di tentato suicidio il 9 luglio, e il suicido di una donna etiope il 16 luglio. Per ore, il suo corpo è rimasto nel luogo dove è avvenuto il suicidio, perché nessun ospedale nè istituzione sono intervenuti. Dal 2017, il gruppo This is Lebanon denuncia sui social media i casi di violenze, esponendo pubblicamente foto, nomi e informazioni di lavoratrici in situazioni di pericolo, e dei datori di lavoro che perpetrano le violenze. Il gruppo ha documentato negli scorsi mesi il caso di un datore di lavoro che ha letteralmente messo in vendita per 1.000 $ la sua lavoratrice domestica in un gruppo di Facebook.
Il sistema della kafala non offre una facile via di uscita. Le lavoratrici che decidono di lasciare, o scappare, dalla casa dove lavorano diventano di fatto irregolari, e rischiano la detenzione e la deportazione. Entrano a far parte della categoria cosiddetta delle “freelance”. Data la loro condizione di irregolarità, è impossibile valutare il numero preciso di quante attualmente si trovano in Libano.
Iniziative di solidarietà
Ormai da qualche mese, il sabato pomeriggio il cortile alberato nel retro della sede della cooperativa femminista Dammeh, a Beirut, si anima particolarmente. Tra i pesanti sacchi di riso e lenticchie, e nuvole di farina che ricadono su tutto, lavorano le attiviste di Egna Legna Besidet. Anche loro vengono dall’Etiopia. I sacchetti che stanno preparando vanno a riempire i pacchi che contengono beni alimentari e prodotti per l’igiene personale, che l’organizzazione distribuisce in tutto il Libano alle lavoratrici etiopi colpite dalla crisi. Ma non solo. “Quando aiutiamo non scegliamo la nazionalità, il colore della pelle, niente. Semplicemente aiutiamo chi ha bisogno di noi. Stiamo fornendo aiuto a persone del Sudan, del Bangladesh, Siriani, e addirittura Libanesi” racconta Tsigereda Brihanu, una delle fondatrici dell’associazione, creata nel 2017. Egna Legna Besidet significa in Amarico, la lingua ufficiale dell’Etiopia, “da noi, per noi”. “Dal giorno in cui abbiamo iniziato, ci aiutiamo a vicenda” dice Meseret Mandefero, un’altra delle fondatrici. “La ragione per cui siamo solo donne è perchè vogliamo essere delle donne indipendenti. Vogliamo dare voce ai nostri diritti, non vogliamo che un uomo venga e parli al posto nostro”, racconta Brihanu, “il nostro obiettivo è di motivare altre donne. Devono conoscere i loro diritti”.
L’organizzazione si occupa di fornire un supporto alle lavoratici che si trovavano in difficoltà, attraverso i depositi con cui le attiviste contribuiscono al collettivo. Da quando la crisi economica e la pandemia sono iniziate, le chiamate sono aumentate. Una delle fondatrici che ora risiede in Canada, Banchi Yimer, ha lanciato una campagna di crowdfunding online, e le attiviste hanno iniziato a dedicare il loro poco tempo libero alla preparazione e distribuzione dei pacchi. “Abbiamo iniziato quando il lock-down è stato imposto. Non siamo mai rimaste a casa” racconta Mandefero. Uno degli obiettivi principali dell’organizzazione è aumentare la consapevolezza riguardo alla situazione in Libano. “Le persone che provengono dall’Etiopia non sanno niente. Si aspettano di arrivare qui, lavorare e avere una vita migliore. Ma no. Qui c’è la kafala”, dice Brihanu. “Il nostro obiettivo è quello di abolire questo sistema. La kafala è la causa di tutti i problemi” sostiene Mandefero. “Semplicemente, non hai diritto di fare nulla. Tutto è controllato dal tuo sponsor. È lui che ti conduce come un cieco. Siamo come ciechi” dice Brihanu.
Mentre le ragazze lavorano, dalla piccola cucina proviene un profumo invitante. Alcune di loro stanno preparando del cibo per consegnarlo a un gruppo di 28 donne ospitate in un albergo. Anche loro si erano trovate a passare la notte davanti al Consolato Etiope. Ma un gruppo di ragazze libanesi si è incontrato per caso davanti al consolato, cercando di capire come poter aiutare, e ha deciso spontaneamente di portarle in un albergo e iniziare una raccolta fondi per pagare le spese del soggiorno. Per oltre un mese il costo delle camere è stato coperto grazie alle donazioni raccolte, la cui destinazione viene diligentemente tracciata e pubblicata in un documento accessibile online liberamente. A fine giugno, un’altra campagna di sostegno è stata lanciata da un gruppo di volontari, arrivando a raccogliere oltre 4.000$. ARM, che anche sta distribuendo pacchi di aiuto attraverso dei volontari, ha raggiunto oltre 900 persone tra aprile e giugno. Egna Legna, alcune migliaia.
Zeina Ammar spiega però che la situazione non è sostenibile nel lungo periodo. “Non vogliamo che rimangono bloccate qui”, dice, “stiamo spingendo perché tornino a casa”.
Bloccate in Libano
Le lavoratrici che si trovano senza passaporto, senza soldi e senza una casa hanno poche chiare prospettive su come poter lasciare il Libano. Secondo il contratto, il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare il biglietto di ritorno, anche nel caso in cui decida di terminare il contratto in anticipo. Ma molti dicono di non poterselo permettere. Per quanto riguarda le lavoratrici freelance, la situazione si complica. “Se è possibile dimostrare che ci sono stati abusi, la responsabilità di pagare il biglietto ricade comunque sul datore di lavoro precedente. Tuttavia, nei casi in cui ciò non si può dimostrare, non c’è più alcuna responsabilità legale sullo sponsor, il che significa che qualcun altro dovrebbe farsi avanti e assumersi la responsabilità di pagare il loro rimpatrio. Ed è qui che c’è un grande vuoto, perché nessuno sta intervenendo per assumersi questa responsabilità, né il governo libanese, né il consolato, né il governo dei paesi di origine, né alcun donatore internazionale” spiega Ammar. Per ogni anno di residenza irregolare nel paese dovrebbero inoltre pagare una multa di 300.000 lire libanesi, che le autorità libanesi hanno recentemente deciso di ridurre solamente a un anno.
A inizio luglio, il nuovo Console presso il Consolato Etiope in Libano ha aperto il rifugio d’emergenza che si trova all’interno del Consolato. Precedentemente, quando il primo gruppo di ragazze si era trovato davanti al Consolato, il Ministero del Lavoro aveva pagato per loro una notte in un albergo, per poi affidare le ragazze alla CARITAS Libano, che gestisce dei rifugi protetti per donne in attesa di rimpatrio. I gruppi di donne che pian piano hanno continuato ad arrivare davanti al consolato sono stati accolti in 4 diverse case che la comunità etiope ha affittato per loro. Ma il problema non si può arginare facilmente. A inizio luglio ARM ha già registrato casi di 10 lavoratrici della Nigeria lasciate davanti al loro consolato, che gli ha fornito un alloggio per due notti e poi semplicemente gli ha consegnato 50.000 lire libanesi, sostenendo di non poter fare di più. Anche tra la comunità del Sierra Leone in molte sono state sfrattate, e ora sono ospitate grazie a donazioni della comunità. E questi sono solo alcuni i numeri iniziali che si prospetta continueranno a salire.
Noha Roukoss lavora per CARITAS Libano da 20 anni, e spiega che spesso le complicazioni che impediscono di lasciare il paese sono la mancanza dei documenti e in alcuni casi dei processi aperti nel caso di abusi, o di stipendi non corrisposti. Solitamente le donne che CARITAS accoglie rimangono circa 3 mesi, ma in alcuni casi la permanenza si estende per molto più a lungo. Nei rifugi viene fornita assistenza medica, legale e psicologica, e viene garantita protezione, sebbene le libertà delle ospitate vengano limitate, come spiega Roukoss, per motivi di sicurezza. Con CARITAS Libano collabora l’ONG italiana CELIM. Antonio Buzzelli, responsabile in Libano per CELIM, racconta che, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS), la ONG fornisce supporto nei rifugi, offrendo attività formative ed altri servizi. Una parte importante del progetto è quella che si svolge in Etiopia, con il partner CVM – Comunità Volontari per il Mondo. Alle donne che ritornano viene fornito un appoggio al momento dell’arrivo, entrando a fare parte di un programma di reinserimento sociale, che fornisce corsi di formazione e degli “start-up capitals” per iniziare progetti imprenditoriali. Prima del COVID-19, le ragazze rimpatriate dal 2018 erano state 150. A fine maggio, CELIM e CARITAS hanno collaborato con il Consolato per organizzare un aereo di rimpatrio, che ha permesso a 649 donne, in lista d’attesa per il rimpatrio, di lasciare il paese. Dopo settimane di silenzio, a metà luglio il Consolato ha annunciato dei voli di rimpatrio per le lavoratrici legalmente registrate. Lunghe code di persone attendono davanti alle porte del Consolato.
Per l’abolizione della kafala, una volta per tutte
Il 27 giugno un gruppo di manifestanti ha attraversato Beirut sventolando bandiere arcobaleno, marciando per i diritti di tutti coloro che sono marginalizzati nella società, dalla comunità LGBT+, a migranti e rifugiati. Saeida, insieme ad altre donne, reggeva uno dei cartelli su cui si leggeva “Abolizione della kafala”. “Sono qui perché voglio far sentire la mia voce, perché le ragazze non devono essere abbandonate per strada. Le famiglie libanesi devono rispettarle”, spiega Saeida. Non è la prima volta che a Beirut si marcia per l’abolizione della kafala. Da anni, molte organizzazioni si battono per porre fine a questo sistema.
“Abbiamo appena lanciato una campagna per l’abolizione del sistema kafala, in collaborazione con la Delegazione dell’Unione Europea in Libano, che sta lavorando a livello politico. Perché questo è il momento giusto per abolirla”, spiega Noha Roukoss.
Da alcuni mesi il Ministero del Lavoro, in collaborazione con ILO e altre organizzazioni locali e internazionali, sta finalizzando un processo per riformare il contratto di lavoro. Ma la riforma del contratto è solo un passaggio intermedio, che lascia altre problematiche irrisolte.
Sawsan Abdulrahim, professoressa nel dipartimento di Promozione della Salute e Salute della Comunità presso l’Università Americana di Beirut, ha condotto per ILO un’indagine riguardo alle attitudini dei datori di lavoro. “Ho scoperto che spesso i datori di lavoro non capiscono molto il sistema, non sanno quale contratto stiano firmando, non conoscono i dettagli della kafala e gli aspetti legali per l’assunzione di un lavoratore. Mi sembra che non gli importasse molto. Fanno ciò che è conveniente per loro”, afferma Adbulrahim, “Ciò che è necessario è trasformare la struttura delle relazioni di lavoro tra il datore di lavoro e il dipendente”. Ad esempio, sebbene la confisca del passaporto sia vietata dalla legge, secondo l’indagine il 94,3 % dei datori di lavoro lo requisisce. Nonostante il contratto non menzioni nulla al riguardo, il 51,1 % degli intervistati è convinto che il contratto stabilisca il diritto del datore di tenerlo in suo possesso. Il 25,6 % degli intervistati invece afferma di non sapere o di non ricordare cosa stipuli il contratto al riguardo.
Secondo Ammar di ARM, la riforma del contratto non è il cambiamento decisivo necessario, perché manca ancora un sistema che obblighi il datore di lavoro a rispondere in caso di violazioni. Oltre a questo, ARM spinge perché le lavoratrici vengano incluse nella legge del lavoro. Un altro tassello da riformare è la legge che regola l’entrata e l’uscita dei migranti. “Dobbiamo modificare il meccanismo di reclutamento dei lavoratori migranti, perché c’è sfruttamento ad ogni livello di questo viaggio, dal paese di origine, fino a quando raggiungono il Libano e all’interno del Libano. Tutto il sistema deve essere cambiato” spiega Zeina. “Una volta che tutti questi passaggi sono completi, possiamo dire di aver abolito con successo il sistema della kafala”.
La kafala è legata però anche a fattori culturali. Avere una “maid”, una lavoratrice domestica, per molte famiglie significa sottolineare il proprio status sociale. “E’ il cambiamento culturale che cambia le leggi o è la legge che favorirà il cambiamento culturale? La realtà è che un po’ di entrambi in entrambi le direzioni. Dobbiamo integrare nel nostro lavoro un lavoro di sensibilizzazione, lavorando sul razzismo e cambiando la prospettiva riguardo ai lavoratori migranti”, spiega Ammar.
ARM sostiene che la soluzione all’emergenza attuale è solamente una: l’evacuazione. “La realtà e che ci mancano le risorse finanziarie. Abbiamo bisogno di donatori internazionali che intervengano, si assumano responsabilità e provvedano al processo di evacuazione. E questo è un buon passo per abolire la kafala. Perché quando ci sono meno lavoratori nel paese, ci sono meno datori di lavoro. E i datori di lavoro di solito sono quelli che resistono a qualsiasi cambiamento legato alla kafala. Anche le agenzie di reclutamento stanno chiudendo, perché stanno andando in bancarotta e perché c’è una domanda inferiore di lavoratrici in questo momento. Questo è un buon momento per abolire la kafala”, spiega Ammar.
Mentre le volontarie di Egna Legna Besidet, così come gli altri gruppi coinvolti nel supporto alle lavoratrici in difficoltà, continuano a lavorare, fornire aiuto e battersi per l’abolizione della kafala, Ammar lancia un chiaro appello riguardo alla gravità della situazione: “Il vero pericolo è questa continua passività e inazione da parte del governo libanese e di tutti i governi dei paesi di origine. Dobbiamo davvero lanciare l’allarme e mettere in chiaro ai paesi di origine che il Libano sta attraversando una crisi particolarmente severa. Non è solo il COVID-19, ma un milione di altre cose. Se i lavoratori migranti restano intrappolati in Libano finiranno per diventare senzatetto, finiranno per soffrire la fame, finiranno senza alcuna documentazione e, sfortunatamente, odio dirlo, ma molti di loro moriranno”.
In copertina: Beirut, 4 luglio 2020. Una volontaria dell’associazione etiope “Egna Legna Besidet” prepara pacchetti alimentari da distribuire alle collaboratrici domestiche migranti e ad altre persone in difficoltà in tutto il Libano. Foto di Silvia Mazzocchin.