Kabul è una città dall’estensione sconfinata, dove vivono oltre cinque milioni di persone, nella valle che dalle pendici della catena dell’Hindu Kush giunge sino al fiume. Nella parte occidentale le case si inerpicano sui fianchi delle due alture, Asamayi e Ali Abad, che attraversano l’area urbana in un dedalo di vicoli sterrati e polverosi che si fanno sempre più stretti, fino a diventare percorribili solo a piedi, o con piccoli carretti spinti a mano.
Il centro, il cuore economico, politico e diplomatico della città si trova invece a valle, e non di rado proprio da queste alture è bersagliato dal lancio di un razzo, preludio di un attacco combinato come quelli messi a segno negli ultimi mesi. Kabul è anche una delle città più inquinate del pianeta e secondo l’Health Effects Institute, che annualmente stila il rapporto sulla qualità dell’aria nel mondo, in Afghanistan muoiono ogni anno 406 persone su 100 mila abitanti a causa delle emissioni tossiche.
Le cause sono varie: i frequenti roghi appiccati alla spazzatura, soprattutto alle materie plastiche, i copertoni bruciati per riscaldarsi d’inverno e soprattutto il traffico, congestionato oltre ogni limite di auto per lo più malandate e alimentate a carburante poco raffinato, che restano bloccate in code interminabili per ore.
La carenza di infrastrutture e mezzi di trasporto pubblico si sommano al perenne stato di allerta con il quale Kabul e i suoi abitanti convivono ogni giorno e che ha persino rimodellato l’architettura urbana. A causa delle guerre la città ha perso gran parte del suo patrimonio storico e oggi è disseminata di altissime recinzioni anti-sfondamento in cemento armato, dissuasori di velocità, dai Jersey ai semplici sassi, checkpoint, barriere di ogni tipo che limitano anche in altezza il passaggio dei veicoli, e precludono ai tir le strade principali.
“Non possiamo prevenire tutti gli attacchi – dice un autista – ma almeno evitiamo i camion bomba che se si fanno saltare provocano danni enormi. Certo, anche le auto e i mini van rappresentano un rischio, ma possono contenere meno esplosivo e quindi fanno meno guai”.
Guardare al male minore è diventata una consuetudine fra gli afghani, per sopravvivere ai continui controlli, perquisizioni, limitazioni, paura nel compiere le più banali azioni quotidiane, come salire su un autobus, guidare l’auto, andare al mercato o entrare in un negozio oltrepassando almeno tre porte blindate e un metal detector.
Il primo luglio scorso un’autobomba è stata fatta esplodere davanti al Ministero della Difesa, e nella deflagrazione sono rimaste coinvolte cinque scuole: sei persone sono morte e oltre cento sono rimaste ferite, fra le quali 51 bambini. Meno di due settimane dopo, il 13 luglio, è stata colpita una festa di nozze nella provincia orientale di Nangarhar, dove un adolescente si è fatto saltare in aria durante il banchetto. Il giorno seguente è stato invece assaltato un albergo di Qala-e-Naw, capitale della provincia di Badghis, e almeno otto funzionari di polizia sono rimasti uccisi. Ogni giorno, ovunque nel paese, si registrano nuovi attacchi, mentre nelle aree contese fra Talebani e governo centrale c’è tuttora un conflitto aperto, con bombardamenti e operazioni a terra.
Alla fine del 2019 l’Afghanistan avrà raggiunto il triste record di 40 anni di guerra ininterrotta: il 25 dicembre del 1979 cominciava l’invasione sovietica. Il conflitto contro i russi sarebbe andato avanti per dieci anni, per poi avvicendarsi con la guerra civile fra le forze dell’allora Repubblica Democratica dell’Afghanistan e i mujaheddin, passando per la proclamazione della Repubblica Islamica nel 1992, la presa del potere dei Talebani nel 1996 e la resistenza dell’Alleanza del Nord, fino all’invasione anglo-americana del 2001, con la missione Enduring Freedom, e alla successiva missione Nato, Isaf (International Security Assistance Force) fino al 2014, e Resolute Support ancora in essere.
Ben diciotto anni di presenza internazionale non sono serviti a dare stabilità al paese: a oggi, secondo il Sigar, Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, solo il 56,3% del territorio, pari a 229 distretti, è sotto il controllo delle forze governative, mentre il 14,5% (59 distretti distribuiti in tutto il paese) è saldamente in mano ai Talebani, e il restante 29,2% è “terra di nessuno”.
La situazione è talmente in stallo che nel 2018 il presidente Ashraf Ghani ha invitato i Talebani a negoziare una trattativa per mettere fine alle ostilità, in cambio di legittimazione politica. L’offerta è stata respinta e in compenso i Talebani hanno chiesto agli americani di sedere allo stesso tavolo, senza la presenza del governo afghano. I colloqui sono cominciati il 25 febbraio e da allora ci sono stati sette round di incontri a Doha, in Qatar, in cui si sta cercando una mediazione fra la richiesta dei Talebani di ottenere il ritiro delle truppe internazionali ancora presenti nel paese – circa 16 mila unità provenienti da 39 fra membri della Nato e loro alleati – e quella degli Usa di rendere l’Afghanistan un paese libero dalla presenza di altre forze jihadiste.
I negoziati, che pure rappresentano una novità assoluta in 18 anni di guerra, non hanno ridotto la portata e la frequenza degli attacchi, anzi, nell’aprile scorso è stata lanciata l’offensiva di primavera che, a Kabul come altrove, ha colpito ancora una volta i civili, mentre nelle province di Badakhshan, Baghlan e Faryab si sono intensificati gli scontri tra forze afghane e Talebani sul campo.
“Siamo ben lontani dalla stabilità – dice Khalida Rasheed, giovane reporter di Zan Tv. Alcuni passi avanti sono stati fatti, ma gli esiti di questo percorso sono incerti. Idealmente il cessate il fuoco dovrebbe essere raggiunto prima delle elezioni presidenziali del prossimo 28 settembre, ma sarà estremamente difficile trovare un accordo in tempi così brevi e, d’altra parte, il sospetto di irregolarità e brogli potrebbe ulteriormente mettere a rischio qualsiasi trattativa”.
Khalida ha studiato giornalismo all’università e poi ha cominciato a lavorare presso la Tv delle donne, Zan tv, creata nel 2017 e gestita principalmente da giovani reporter e conduttrici, che affrontano temi di attualità, mostrando come le donne possano fare informazione e offrire altri punti di vista sulla società. Il progetto di Zan Tv non ha avuto vita facile, anzi, le minacce sono state tante e anche oggi, a due anni dall’avvio, la sede è protetta da barriere anti-sfondamento e guardie armate all’ingresso, che controllano chiunque si avvicini. “Qualcosa però sta lentamente cambiando – afferma Khalida – e anche se la maggioranza della popolazione femminile non ha ancora accesso all’istruzione e al mercato del lavoro, noi stiamo dimostrando che possiamo fare la differenza ed essere un esempio virtuoso, pure in una società patriarcale profondamente radicata”.
Proprio per sostenere l’occupazione femminile, ferma sotto il 16%, è nato il progetto “Sono una donna e voglio lavorare”, che oggi ha sede nello Sharara Garden, un giardino realizzato anche grazie alla Cooperazione italiana, dove ci sono aree verdi, negozi gestiti da donne e aule per i corsi di formazione gratuiti. Fino a gennaio di quest’anno quasi duemila donne avevano frequentato lezioni di inglese e informatica in questi spazi, grazie al supporto di Nove Onlus, organizzazione non-profit italiana, e Pada, l’Agenzia Afghana per lo sviluppo.
“Offrire istruzione in uno spazio protetto facilita l’inserimento e l’accettazione delle famiglie alla partecipazione formativa – spiega Friba Qauomi, una delle responsabili del progetto – perché padri e mariti sanno che le figlie e le mogli non corrono alcun rischio e non sono esposte a pericoli. La parte più difficile del programma è trasformare la formazione in concreta opportunità di lavoro, con l’obiettivo che una donna qualificata possa inviare un curriculum ed essere assunta per le sue capacità, senza discriminazioni, e soprattutto con il consenso familiare”.
Uno dei grandi ostacoli alla mobilità delle donne, in una città come Kabul, è la mancanza di mezzi di trasporto sicuri: quelli pubblici sono quasi inesistenti, camminare a piedi espone a rischi e molestie, e alla maggior parte delle donne sono preclusi i taxi e i bus condotti da uomini. Per questo l’ultimo progetto in cantiere qui è la navetta rosa, un servizio al femminile che sia accettabile per la cultura tradizionale e offra una possibilità di trasporto concreta. Il primo passo è stata l’attivazione dei corsi di guida per permettere alle donne di conseguire la patente: in due anni ne sono state rilasciate 195, e il risultato è notevole se si pensa che dal 2012 al 2016, solo 1.189 donne residenti nella capitale hanno conquistato la licenza di guida.
La società civile si muove, dunque, nonostante il perenne stato di allerta e le difficoltà politiche ed economiche di un paese che, fra quelli oggi in guerra, detiene il più triste dei primati.
Il 2018 è stato l’anno in cui sono rimasti coinvolti nel conflitto il maggior numero di civili degli ultimi dieci anni: 3.804 morti e 7.189 feriti, vittime accidentali degli scontri tra forze governative e Talebani, delle operazioni militari della Nato, delle azioni della propaggine afghana dello Stato Islamico.
L’ospedale di Emergency per i feriti di guerra si trova nel centro di Kabul e, come tutte le strutture pubbliche, gli uffici, i negozi, espone un cartello con su scritto “vietato introdurre armi all’interno”. Due lunghe panche di legno sono state sistemate lungo la recinzione, vicino all’ingresso, per alleviare le lunghe attese dei parenti delle vittime di guerra e dei pazienti in attesa di entrare per i trattamenti. Tutti aspettano in silenzio che si aprano le porte. All’interno, gli edifici sono circondati da un giardino che la mattina, quando le giornate lo permettono, si riempie di letti, sedie a rotelle, uomini che muovono i primi passi con le stampelle.
Mohammed è di Ghazni, ed è arrivato a Kabul in ospedale un mese fa. Un proiettile lo ha colpito alla spina dorsale e da allora ha perso l’uso delle gambe. Ha il viso scarno, con una lunga cicatrice sulla guancia destra, affondato nel cuscino. “Sono un insegnante – racconta – stavo uscendo da scuola quando alcuni soldati mi hanno fermato per dei controlli. Hanno pensato che fossi un talebano e per questo mi hanno ammanettato. Gli ho spiegato che avevo appena finito di lavorare e mentre mi stavano lasciando libero i talebani sono arrivati davvero e c’è stato uno scontro a fuoco. Mi sono trovato nel mezzo e sono stato ferito alla schiena”.
Anche Rahmatullah come Mohammed è ricoverato nel reparto di lungodegenza. Siede sul letto, e dopo due mesi qui ha ripreso le forze, ma non è in grado di muovere le gambe. Ogni giorno ringrazia i medici che si prendono cura di lui, ma probabilmente dovrà trascorrere il resto della vita su una sedia a rotelle, lui che lavorava la terra. “Abito vicino a Ghazni, e poco lontano dal mio villaggio i Talebani avevano chiuso la strada; sono arrivati i militari con i tank, e hanno iniziato a colpirli. Un razzo è stato lanciato verso il centro abitato e ha colpito la mia casa. Sono rimasto ferito così.”
Essere nati e vivere in guerra da sempre, per una popolazione che ha un’aspettativa di vita alla nascita di soli 51 anni, porta tanti afghani a decidere di emigrare. Secondo i dati dell’Unhcr, i rifugiati afghani sono oltre due milioni e centomila, compongono la più numerosa comunità di migranti dell’Asia, e la seconda al mondo. Nel 2018 le persone che hanno lasciato il paese sono aumentate del 12%, anche se in 16 mila, lo scorso anno, hanno deciso di rientrare in Afghanistan. La maggior parte dei rifugiati si trova in Iran e in Pakistan. Le minoranze Sikh e Hindu sono quasi del tutto scomparse e hanno ripiegato in India.
Secondo lo European asylum support office, gli afghani che hanno chiesto asilo in Europa nel solo mese di maggio 2019 sono stati 4 mila, e circa 19 mila e 800 dall’inizio dell’anno (+26% rispetto allo stesso periodo del 2018). E al contrario di altri rifugiati provenienti da paesi in guerra, la situazione degli afghani è stata sottovalutata negli ultimi anni, e circa la metà delle persone si sono viste respingere la richiesta di asilo in Europa (circa il 50% delle domande presentate, secondo i dati aggiornati al 2017).
Ali (nome di fantasia), racconta che per quasi dieci anni ha fatto transitare in Europa oltre un migliaio di persone grazie ad un sistema di passaporti falsi. “Basta trovare qualche europeo compiacente che venda il suo passaporto per 600$ e poi ne denunci lo smarrimento. Non serve nemmeno falsificarlo, a volte basta cercare un volto simile e, quando si è in tanti a passare, i controlli non sono sempre così rigidi”. Con i soldi, circa mille dollari a persona, dice di aver costruito la sua fortuna, arrivando in Grecia più e più volte, senza sapere di cosa sia accaduto dopo a chi ha lasciato a così tanti chilometri da casa.
In copertina: periferia di Kabul, in direzione Charikar. (Foto di Ilaria Romano come tutte quelle dell’articolo)