Campo rifugiati di Kutupalong, Cox Bazar, Bangladesh
“Qui non ci vogliamo restare. Ma in Myanmar non possiamo tornare, ora. Al governo non crediamo più”. Labbra rosse per il betel consumato, capelli neri e piedi scalzi, in Myanmar Abdullah Islam era uno studente. “Volevo prendere il diploma in fisica”, racconta. Qui, nel campo di Kutupalong, in Bangladesh, è un rifugiato. È stato costretto a scappare da casa – “ormai tre mesi fa” – perché è un Rohingya, membro della minoranza musulmana dello stato birmano del Rakhine, perseguitata dai militari.
Insieme all’adiacente Balukhali, Kutupalong è il più popoloso campo rifugiati per i Rohingya. Nei due campi, recita l’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), vivono 569 mila persone. Una vera e propria città, in continua espansione. Abdullah Islam, come molti altri, l’ha raggiunta a piedi, “dopo sette giorni di cammino”, attraversando il confine poco più a est. Gli operatori delle organizzazioni governative e non governative, nazionali e internazionali, arrivano invece ogni giorno da Cox Bazar, la principale località turistica bangladese. Nei negozietti sul lungomare, paccottiglia per turisti; nelle bettole, pesce fresco ogni giorno; sulla spiaggia al tramonto, il rito dei selfie; sulla strada principale, una pletora di alberghi per tutte le tasche.
A un’ora di automobile da Cox Bazar, dopo essersi lasciati alle spalle il parco nazionale di Himchari e i resort esclusivi e aver attraversato silenziosi villaggi di contadini e pescatori, arrivati alla cittadina di Ukhia, si imbocca una strada sterrata sulla destra. È l’ingresso in un mondo diverso, inaspettato: la città dei Rohingya. Un reticolo informe di stradine che salgono, scendono e si incrociano per collinette disboscate, occupate da migliaia e migliaia di tende costruite con teli di plastica e bambù, calde di giorno e fredde di notte, distribuite su ogni pezzetto di terra, fin dove arriva lo sguardo. “Oltre, c’è solo l’oceano”, precisa Sultan Mohammad Jainal Abedin di Action Aid Bangladesh, che ci accompagna nella visita.
I campi profughi in Bangladesh
Action Aid è una delle organizzazioni non governative mobilitate nell’assistenza ai Rohingya. Dal 25 agosto 2017, l’Oim ha registrato 655 mila nuovi arrivi. La maggior parte è finita nei campi di Balukhali e Kutupalong, 242 mila negli altri campi, 78 mila sono ospitati nelle comunità locali. Nel complesso, una bomba demografica deflagrata nella periferia sudorientale di un paese povero e sovrappopolato. Un’emergenza a cui cerca di rispondere un’imponente macchina umanitaria.
Le grandi organizzazioni non governative internazionali ci sono tutte. Così come le agenzie delle Nazioni Unite. A coordinare i lavori è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim): “operavamo nella zona prima che ad agosto scoppiasse la crisi”, ci spiega Olivia Headon, dell’ufficio stampa Oim”, eravamo i più indicati a farci carico del coordinamento”. Elenca i problemi: non tanto l’accesso al cibo, quanto quello alla salute, all’istruzione, all’acqua potabile, all’assistenza psicologica. “E l’estrema vulnerabilità delle donne, con casi di sfruttamento, traffico di persone, abusi”.
Nella clinica mobile gestita dalla Mezzaluna rossa bangladese con il sostegno della Croce rossa italiana, donne e bambini sono la maggioranza. La struttura è semplice, in legno e plastica, leggera ma solida: “Così può essere facilmente trasportata altrove, dove c’è più bisogno”, spiega Riccardo Bagattin, field officer della Croce Rossa. La dottoressa Erika Dellavalle e l’infermiere Fabio Antonucci curano un bambino con un’infezione gastrointestinale. Tra alcuni giorni, tornerà a scuola. “Qualche scuola c’è, ma sono troppo poche”, spiega Mohammad Sharur Hussein, ventenne. Insegna la lingua birmana a una classe di una settantina di bambini e bambine. Seduti sulle ginocchia o accovacciati, disposti lungo il perimetro della stanza, ripetono una canzoncina accompagnandola con ampi gesti delle braccia. “Non è una scuola vera e propria, non abbiamo né banchi né sedie, ma è meglio di niente”, dice Sharur Hussein guardandosi intorno. “È bene che anche i bambini si abituino alla situazione”. Una situazione di stallo, che genera incertezza e preoccupazioni. E che si aggiunge ai traumi passati.
“Il nostro è un progetto di assistenza socio-sanitaria integrata”, ci racconta la dottoressa Cindy Scott, Mental Health Officer nella clinica gestita da Medici Senza Frontiere. “Ci troviamo di fronte a storie terribili, di violenze, stupri, abusi ripetuti. Sono traumi che lasciano il segno e generano forti reazioni psicologiche”. Aggravate dall’incertezza sul futuro. Il sostegno psicologico “è assolutamente centrale”, insiste la dottoressa, che tiene a sottolineare “la straordinaria capacità di resilienza dei Rohingya”.
Sognando il futuro
Addentrandosi nelle stradine di Kutupalong, discutendo con donne, uomini e ragazzi, colpisce la volontà di ricominciare. Le sofferenze, i traumi, gli abusi, gli incubi riguardano ogni famiglia. Ma il desiderio di ripartire è più forte. “Sia chiaro – precisa Abdullah Islam, lo studente di fisica – non siamo qui perché siamo poveri, perché non abbiamo cibo. Siamo qui perché c’è chi ci perseguita. Sapremmo badare a noi stessi, altrimenti”. Intorno a lui, di fronte al “Jubair Hotel”, un ristorantino gestito da un ragazzo Rohingya che sforna frittelle, è tutto un via vai di gente. C’è chi trasporta lunghe assi di bambù, chi ha raccolto legna per il fuoco, chi riempie i secchi con l’acqua del pozzo, chi scava la terra per farne delle scale, chi costruisce nuove casette con il bambù ricevuto dalle Ong o comprato al bazar, chi allestisce un negozietto, chi lava i panni. Non si aspetta passivamente il futuro. Si prova a dargli una forma. Senza illusioni. I Rohingya sanno bene di trovarsi in un limbo: “tornare a casa? Solo se ci danno la cittadinanza. Vogliamo garanzie vere”, nota Nur Mohammad, poco più che ventenne.
Del governo birmano qui non si fida nessuno: “Gli abbiamo creduto in passato. Sbagliando. Sarebbe stupido farlo di nuovo”, ripetono i ragazzi stretti intorno a Nur Mohammad e Abdullah Islam. Ognuno vuol dire la sua. Tutti rivendicano pieni diritti di cittadinanza. “Non vogliamo diritti speciali, solo quelli degli altri cittadini del Myanmar. Senza, non torneremo indietro. Meglio qui, piuttosto”. Uno dei ragazzi ha 29 anni. Ricorda che i Rohingya hanno dovuto abbandonare le proprie case già in passato. “Siamo scappati e ritornati, e poi costretti a fuggire di nuovo. Senza un negoziato garantito dalla comunità internazionale, inutile parlare di rimpatrio”. Al negoziato, però, non crede fino in fondo. “Vivo in Bangladesh da 25 anni. Da dieci, qui a Kutupalong. So che è difficile”. Un veterano della diaspora. Accanto a lui, un nuovo arrivato. “Sono qui da quattro settimane. Non va così male”. Ma la famiglia è divisa. Qualcuno, racconta, è ancora intrappolato nella terra di nessuno, la no man’s land che divide il Myanmar dal Bangladesh.
La terra di nessuno fra Bangladesh e Myanmar
Per raggiungerla riscendiamo sulla strada principale, attraversiamo campi di un verde accecante, incorniciati da alte palme piegate dal vento. Vestite di verde e rosso, alcune bambine sorridenti escono da scuola. Sul lato opposto della strada domina il verde scuro degli alberi, fitti fitti sulle colline che portano in Myanmar. La striscia verde si interrompe bruscamente prima di una serie di collinette spoglie. Sembrano scocche di mobili corrosi dal tempo, rosicchiati dalle tarme. “Sono le prime colline dove hanno trovato sistemazione i Rohingya, prima che venissero allestiti i campi”, ci spiegano.
Ci sono dei posti di blocco. L’esercito controlla l’accesso. Non vogliono giornalisti. La no man’s land è un’area sensibile per ovvie ragioni di sicurezza. Ma anche perché contraddice la retorica governativa. La premier Sheikh Hasina, forte dell’accordo sul rimpatrio firmato il 16 novembre con il governo del Myanmar, continua a ripetere che i Rohingya “torneranno presto a casa loro”. Nei giorni scorsi è stata istituita la commissione congiunta a cui spetta decidere tempi e modi del rimpatrio dei primi rifugiati. “Si inizia a gennaio”, insiste la leader dell’Awami League. Il flusso si è interrotto, l’accordo funziona, ci sbarazzeremo presto dei Rohingya, fa intendere Sheikh Hasina nelle sue dichiarazioni. Si rivolge all’opinione pubblica interna. I bangladesi hanno generosamente accolto centinaia di migliaia di Rohingya, ma sono sempre più preoccupati di dover sostenere a lungo i costi dell’accoglienza. “Sta tutto per finire”, rassicura Sheikh Hasina. La terra di nessuno racconta una storia diversa.
La radio gracchia. Arriva il via libera del comandante, inaspettato. Raggiungiamo il fiume Naf. È un confine internazionale. Nasce in Myanmar, sulle colline dell’ex Arakan, divide lo stato birmano del Rakhine dal distretto bangladese di Teknaf e finisce per sfociare nelle acque del Golfo del Bengala. Le immagini dei Rohingya in fuga su barche di fortuna che avete visto sono state scattate su questo fiume. Poco più a sud si gonfia d’acqua. In questo punto, in questa stagione dell’anno, è un corso d’acqua debole. Lo si attraversa su una fila di sacchi di sabbia. Di qua, sul lato bangladese, i contadini chini sui campi. Oltre il fiume, ma prima della linea che demarca il territorio birmano, centinaia e centinaia di famiglie Rohingya. Vivono in tende allestite alla meno peggio. Alle loro spalle, in lontananza sulle colline, gli sguardi minacciosi dei militari birmani. I persecutori. Davanti a loro, quelli annoiati ma guardinghi dei soldati bangladesi. Il controllo è rigoroso, costante. Si passa solo per le urgenze mediche.
Continuano ad arrivare
È in punti di passaggio come questi, monitorati dai militari, che avviene la prima selezione: precedenza alle famiglie più vulnerabili, a donne incinte e bambini piccoli o malati, poi tutti gli altri. Sempre che arrivi il via libera dai campi rifugiati, sovrappopolati. Siamo poco lontani dal villaggio di Gundum, nella parte più settentrionale dell’area in cui si attraversa il confine, ma posti come questo – qualcuno li chiama “imbuti” – sono distribuiti lungo tutta la fascia frontaliera, fino all’ultimo lembo di terra bangladese, al sud. Tanti e distribuiti sono anche i campi dei Rohingya, formali o informali, più o meno assistiti dalle organizzazioni governative e non governative. Kutupalong e Balukhali sono i più popolosi, come abbiamo visto. Ma scendendo verso sud si incontrano i campi di Thangkhali (43.500 persone), Hakimpara (33 mila), Bagghona e Potibonia (19.500), Chakmarkul (12.800), Jamtoli (48.800), Unchiprang (23.300), e staccati dagli altri, oltre Teknaf, quelli di Leda (15.300) e Nayapara (23 mila).
Numeri impressionanti. E in crescita. A dispetto di quanto sostiene Sheikh Hasina, i Rohingya continuano a fuggire dal Myanmar e a entrare in Bangladesh. Anche da questo punto di passaggio. Chi ha le carte in regola, deve raggiungere a piedi il Transit Center dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, sulla strada principale. Occorrono alcune ore di cammino, bagagli in spalla. Visitiamo il Centro. Uno dei funzionari, Quadar, spiega che ospita 120 tende per circa mille persone. “Tende di grandezza diversa, una per ogni famiglia. Le famiglie rimangono in media tre o quattro giorni”. Il tempo di ricevere le vaccinazioni, assicurate da Medici senza frontiere e dalla Mezzaluna rossa, e di riprendersi dalla stanchezza del viaggio. Il tempo che si liberi qualche posto nei campi. “Oggi abbiamo trasferito 42 famiglie”, puntualizza Sara Motul mostrando il registro. Ci sono i nomi, l’età, le malattie – scabbia, diarrea – delle persone trasferite. Il campo è diviso in due grandi zone. La destra è destinata ai più vulnerabili. Alle donne incinte o con bambini piccoli. Allattano i figli neonati, mentre i più grandi giocano con rametti e foglie. Le donne raccontano storie simili. Drammatiche. C’è chi è rimasta sola. “Mi hanno portato via mio marito. Mia figlia più grande è stata stuprata”.
Usciamo dal Centro di transito. Arriva una famiglia di nove persone. Una coppia, quattro bambini, una ragazza e due donne anziane. Posano i loro averi per terra: cinque sacchi di plastica. Le donne e i bambini aspettano. L’uomo si incammina all’ingresso. Dalla tasca della camicia tira fuori un foglio. Lo dispiega con cura, mostrandolo al funzionario. Il futuro è su quei fogli, su quei timbri, nelle controverse carte d’identificazione che riceveranno nei campi per rifugiati. I documenti sono in regola. Questa notte dormiranno qui. Poi si vedrà. Noi ripartiamo per la Cox Bazar dei turisti, dei selfie sulla spiaggia al tramonto e delle bettole di pesce. Un altro mondo. Poco distante, molto distratto.
In copertina: nel campo di Kutupalong; in alto, la clinica di Medici Senza Frontiere (fotografia di Giuliano Battiston, come tutte le immagini di questo articolo)