L’ultimo report dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), di novembre 2018, stima che quasi 3 milioni di venezuelani hanno lasciato il proprio Paese a causa della crisi in corso (almeno 2,3 milioni dal 2015), circa un abitante su dodici. Le destinazioni principali sono Colombia, Stati Uniti, Spagna e, a seguire, tutti gli altri paesi latinoamericani. In Europa, oltre alla Spagna, le mete preferite per emigrare sono Portogallo e Italia.
Qui la crisi venezuelana arriva smorzata, ma è sufficiente leggere i numeri del Ministero dell’Interno sui richiedenti asilo per rendersi conto di come il fenomeno sia in costante crescita: dai 143 nel 2016, ai 544 nel 2017, fino ad arrivare ai 998 richiedenti asilo nel 2018. Tuttavia è difficile quantificare la portata reale del flusso migratorio dal Venezuela all’Italia. Infatti ai richiedenti asilo vanno aggiunte le persone arrivate con visto turistico, quelle con il doppio passaporto e chi, come Marhium, viene per studiare e lavorare.
Marhium ha lasciato Mérida, in Venezuela, nel 2012 per studiare al Politecnico di Milano: “Quando sono partita avevamo ancora quella che io chiamo bonanza. In quel momento stavano già andando via in molti, ma non come adesso. Ero molto patriota e pensavo che un giorno sarei tornata nel mio Paese per lavorare nel settore pubblico. Poi nel 2013 Chávez è morto, è arrivato Maduro e la mia famiglia mi ha detto di rimanere in Italia”.
Marhium ha i capelli corti, pratici, alla maschietta. Come pratico è lo zaino da lavoro, le scarpe stringate e gli abiti morbidi. Il viso non è truccato. L’unico vezzo è un doppio giro di pietre verdi attorno al collo. “Nel 2014 è morta mia mamma di cancro. È stata la mia ultima volta in Venezuela”. Quando ne parla, i suoi occhi allungati guardano verso il basso e non si alzano finché il discorso non cambia. “Da quel momento ho deciso che non sarei più tornata. Mia sorella e suo marito sono in Cile da due anni. Gli amici rimasti sono pochi, vanno in Colombia, Spagna, Stati Uniti, ce ne sono sparsi ovunque. A Mérida sono rimasti solo mio papà e mia zia”.
Il flusso migratorio dei venezuelani è aumentato con l’arrivo al potere del successore del presidente Hugo Chávez, Nicolás Maduro. Nonostante il crollo del prezzo del petrolio nel 2014, Maduro ha continuato a portare avanti la politica economica di Chávez, concorrendo al declino dell’economia. L’inflazione, la carenza di cibo e di medicinali, la mancanza di sicurezza hanno reso e continuano a rendere la vita quotidiana sempre più difficile alla maggioranza della popolazione. Il papà di Marhium, professore universitario in pensione, ha 74 anni ed è malato di diabete ma “in Venezuela le medicine non ci sono, non si trovano più”. Così, ogni volta che arriva lo stipendio, Marhium esce poco e non si concede lussi per poter mettere da parte qualche soldo. “Ogni sei mesi riesco a mandargli circa 800 euro in medicine per diabete e artrite, attraverso qualche familiare di amici di passaggio qui in Italia” racconta. Il sistema sanitario venezuelano è al collasso.
Secondo la Pharmaceutical federation of Venezuela e l’Observatorio venezolano de la salud (dell’Universidad Central de Venezuela), l’85% delle medicine e il 79% del materiale medico-chirurgico è introvabile. Alcuni ospedali non ricevono acqua in modo regolare, altri non hanno generatori elettrici. Più di 22.000 dottori – il 55% del totale – hanno lasciato il Venezuela dal 2012 in cerca di opportunità migliori. Su una popolazione di circa 31 milioni, 18,7 milioni di persone non hanno avuto accesso negli ultimi tre anni a diagnosi o trattamenti.
Amico di Marhium, anche Ciro è arrivato in Italia con sua moglie Daniela per studiare al Politecnico, nel 2013. “La situazione stava già peggiorando ma era diversa rispetto a oggi” spiega. Ciro ha 31 anni, il sorriso aperto e buono. Indossa una polo azzurra. La sua storia è simile a quella di tanti altri coetanei: “La mia famiglia è dispersa. Ho tre sorelle, due negli Stati Uniti e una in Canada”. La terza sorella, medico psichiatra, ha deciso di andare via nel 2015 “per dare un futuro ai suoi figli”. Il maggiore ha 21 anni e l’ha seguita negli Stati Uniti due anni fa, lasciando gli studi. “È arrivato a un punto in cui non aveva più lezioni all’università per mancanza di professori: se ne vanno perché lo stipendio è ridicolo e non è possibile viverci. Per tre volte gli hanno anche rubato il cellulare sull’autobus, minacciandolo con una pistola, così ha deciso di andarsene”.
In un’intervista rilasciata a dicembre 2017, Marcos Pino, direttore de l’Asuntos Estudiantiles – organo che si occupa dei diritti degli studenti – dell’Università Delle Ande (Ula) di Mérida, sostiene che il numero di allievi ad aver abbandonato gli studi è salito al 65%, portando a 25mila il numero di diserzioni nell’ateneo dal 2015. Classi da 50 studenti sono ora occupate da 15 o 20 superstiti, tutti gli altri decidono di andare a lavorare per aiutare la famiglia o lasciano il Paese in cerca di una vita migliore. In questo momento “sono rimasti solo cinque amici sui cinquanta che avevo – prosegue Ciro, fermandosi a fare due conti – sono quasi tutti fuori”.
I genitori, grazie alla Green card, “fanno sei mesi negli Stati Uniti e sei mesi in Venezuela. Non li vedo da tre anni”. A 45 minuti da Mérida, in un paesino piccolissimo vicino alle montagne, la sua famiglia ha una fattoria di mucche da latte: “C’è stato un momento in cui avevamo cento mucche in produzione. Era il sogno di mio padre diventare uno dei produttori più grandi dell’area” ricorda con malinconia. Ma ultimamente avere una fattoria sta diventando complicato. “Uccidono le mucche e si prendono la carne, lasciando a terra solo le ossa. Non sappiamo chi sia” racconta, torcendosi le mani. “L’ultima volta, un mese fa, ne hanno uccise tre in un giorno. Anche prima succedeva ma una volta all’anno, non come adesso. Hanno ucciso anche un cavallo. Per noi è stato uno shock perché in Venezuela non mangiamo carne di cavallo, per noi è come mangiare un cane”.
Un’indagine Encovi (Encuesta nacional de condiciones de vida de la población venezolana) di febbraio 2018 segnala che l’87% della popolazione venezuelana, misurata in base al livello di reddito, è povera: l’89,4% del campione non ha soldi a sufficienza per comprare da mangiare, l’87,6% afferma che negli ultimi tre mesi ha mangiato meno perché non trova alimenti da comprare e il 61,2% che negli ultimi tre mesi è andato a letto affamato. Ma c’è un altro motivo che sta rendendo sempre più difficile gestire la fattoria: “Non si riesce a trovare qualcuno di fiducia che voglia lavorare. Il salario minimo per fare un lavoro manuale non è sufficiente e così le persone preferiscono fare altro per guadagnare i soldi”.
“C’è chi si improvvisa tassista, chi vende empanadas, mettendosi fuori in strada con un tavolo. C’è chi cambia soldi al mercato nero” racconta Alex arrivato in Italia nel 2015 da Barquisimeto, popolosa città a 300 km da Caracas. La notte del 2 ottobre 2014 è stato rapito e tenuto sotto sequestro per quattro giorni. “Mi ero appena laureato e ho fatto una grande festa in discoteca. Avevo 26 anni ed ero ancora un po’ cretino”. Con i suoi occhiali a specchio, Alex è molto attivo sui social dove spesso pubblica foto di amici e serate. “Ho fatto vedere troppo e al ritorno, sulla strada di casa, mi hanno sequestrato. Quando la mia famiglia ha pagato il riscatto, mi hanno caricato in auto e prima di farmi scendere mi hanno accoltellato allo stomaco” dice, tirando su la maglietta nera per far vedere una lunga cicatrice scura. Per l’Observatorio venezolano de violencia (Ovv) il numero di omicidi in Venezuela è in costante crescita da almeno vent’anni, passando dai 4.550 omicidi all’anno del 1998 ai 26.616 del 2017. E stando al report dell’Observatorio de delito organizado solo nei primi sei mesi del 2018 sono state sequestrate 122 persone, il 6,5% in più rispetto allo scorso anno. Dati confermati da Miguel Dao, ex direttore del Cuerpo de Investigaciones Científicas, Penales y Criminalística (Cicpc) che a fine ottobre ha segnalato dal suo profilo Twitter come il numero di sequestri nel Paese sia in aumento.
“In Venezuela si chiama sequestro express: ti sequestrano, chiedono soldi alla famiglia, vedono che paga e nel giro di due o tre anni sequestrano di nuovo la stessa persona o un altro parente” spiega Alex. “E io non volevo portare la mia famiglia a vivere questa ansia. Così ho deciso di andarmene”. Prima ad Aruba, poi in Italia, a Cassino, dove il visto scade e Alex lavora in nero come lavapiatti. Otto mesi dopo segue un’amica a Pescara, senza documenti e senza casa. Conosce Manuel, il suo compagno, e si sposta a Milano: lì chiederà asilo politico. A gennaio 2018 gli è stata concessa la protezione internazionale per cinque anni, periodo in cui non potrà rivedere quel che resta della sua famiglia. Il fratello infatti si è trasferito in Colombia tre mesi fa, gli amici sono tutti via “in Cile, Panama, Ecuador, Argentina”. In Venezuela è rimasta solo la mamma a gestire un ristorante, una salumeria e un piccolo alimentari: “Io le mando dei soldi perché con il ristorante è coperta solo per le spese di base, invece così può andare al cinema, uscire a bere un caffè e distrarsi un pochino. Questo l’aiuta molto, le tiene la mente occupata così non sente troppo la nostra mancanza”.
Immagine di copertina: EU Civil Protection and Humanitarian Aid Operations. The EU and the Red Cross assist thousands of Venezuelans migrating throughout Latin America (foto: N. Mazars )