La Danimarca ha approvato una nuova legge che ha l’obiettivo di bloccare i flussi migratori. La legge prevede che la persona richiedente asilo possa presentare la richiesta ai confini della Danimarca per poi essere trasportata nel centro di accoglienza di un Paese terzo che si occuperà delle procedure. Nel caso in cui la richiesta di asilo venga rigettata, la persona interessata dovrà lasciare il Paese terzo; nel caso in cui la richiesta di asilo venga accettata, e che quindi venga confermato lo status di rifugiato, la persona interessata dovrà comunque rimanere nel Paese terzo in questione, senza poter entrare in Danimarca. Questa legge controversa che si basa sull’esternalizzazione delle procedure di asilo non solo rischia di cambiare il paradigma dell’applicazione delle leggi in materia di protezione di richiedenti asilo e rifugiati in Europa, oltre a minarne i diritti umani, ma non rappresenta altro che l’ennesimo tentativo di arroccare gli Stati dell’Unione Europea (UE) su di una fortezza, impedendo agli altri di accedervi. Un metodo che negli anni è risultato fallimentare per molteplici aspetti.
L’attuale approccio adottato dagli stati membri dell’UE è securitario e incentrato su rigide e stringenti condizioni che escludono la maggior parte di chi vuole migrare dal farlo attraverso canali legali. Nel rapporto Migration: African perspectives (2020) realizzato dal Foundation for European Progressive Studies, think tank che si occupa di relazioni internazionali e politica in Europa, è stato sottolineato che per molti giovani provenienti dai Paesi africani è quasi impossibile ottenere un visto per viaggiare legalmente verso quelli europei. Infatti, prendendo come esempio le politiche italiane, è possibile notare come non sia solo una questione di “porti chiusi” ma di aeroporti chiusi nei confronti di Paesi dell’Africa occidentale quali il Senegal, la Costa d’Avorio, la Nigeria e il Ghana. Il numero di visti rilasciati alle persone provenienti da questi Paesi è molto basso: secondo la ricerca effettuata nel 2019 dal Tortuga Think Tank, il tasso di rigetto delle domande in Italia è passato dal 10% nel 2010 al 22,5% nel 2017. Per le persone che provengono da Paesi extra UE ci sono sostanzialmente due metodi: il Blue Card Scheme, di recente modificato, e il ricongiungimento familiare. Il primo si basa sull’ottenimento di un permesso di soggiorno per lavoro che riguarda solo le persone altamente qualificate che, oltre a possedere il diploma di laurea, devono avere un contratto di lavoro con un salario annuo lordo che sia al di sopra della media del Paese UE scelto (“between 1 and 1.6 times”). Negli ultimi anni, il Blue Card Scheme è stato altamente criticato sia per la rigidità delle condizioni sia per la scarsità del suo utilizzo. Nel 2015 solo il 6% di persone provenienti dall’Africa Sub-Sahariana aveva i requisiti giusti per poter accedere all’ottenimento di questo permesso, nonostante siano tra le persone che maggiormente attraversano il Mediterraneo Centrale. Inoltre si tratta di un permesso che non tiene in considerazione le persone di media o bassa qualificazione. Chi non ha i requisiti per ottenere la “carta blu” deve quindi spostarsi sui permessi di soggiorno per lavoro che, prendendo il caso italiano, sono molto difficili da ottenere. La legge Bossi-Fini, ad esempio, pone chi vuole entrare in Italia nella pressoché impossibile condizione di dover possedere un contratto di lavoro ancor prima di arrivare, come se si potessero incrociare domanda e offerta di lavoro a distanza, senza conoscersi, quando il lavoratore o la lavoratrice si trova ancora nel paese di origine. Il ricongiungimento familiare invece, dà la possibilità alle persone straniere residenti in uno stato membro dell’UE di portare le proprie famiglie. Ogni stato membro ha le proprie regole che si basano sull’età anagrafica di coniugi e figli, sul salario dei rispettivi coniugi o genitori, sull’assicurazione. E nonostante questa sia una via legale importante, specie per categorie vulnerabili quali le persone rifugiate, è evidente che non sia abbastanza inclusivo per tutte le altre persone che desiderano spostarsi verso l’Europa ma che non hanno parenti, genitori o partner di riferimento.
In assenza di ulteriori vie legali per potersi spostare, rimangono le vie “informali” via terra, si pensi alla Rotta Balcanica, o via mare, dove puntualmente, in entrambi i casi, vengono denunciati respingimenti illegali, in violazione della norma interna dell’UE – Articoli 18 e 19 della Carta dei diritti Fondamentali dell’UE e internazionale, Articolo 33 della Convenzione di Ginevra – e abusi della polizia di frontiera dei rispettivi stati membri. A questo si aggiungono gli accordi che si basano sull’esternalizzazione delle frontiere, ciò significa che gli Stati membri si deresponsabilizzano nel momento in cui affidano il controllo delle migrazioni a Paesi terzi. Tra questi ultimi vi è la Libia che si occupa di riportare chi parte dalle coste libiche nei centri di detenzione, in condizioni inumane e degradanti. Questo è quindi il contesto in cui si inserisce l’ennesima frontiera, con la Danimarca che di fatto legalizza una procedura di esternalizzazione del diritto di asilo che secondo gli esperti, in materia di protezione dei diritti umani, mina i diritti fondamentali dei richiedenti asilo e crea terreno fertile per un effetto domino in tutti gli stati UE che potrebbero adottare metodi simili.
E benché anche la Commissione Europea abbia espresso perplessità nei confronti dell’approccio danese, bisogna ricordare che questi metodi sono comunque approvati con un tacito consenso: si pensi al metodo repressivo adottato dalla Danimarca pochi mesi fa per rimpatriare rifugiati e rifugiate siriane, revocando loro il permesso di soggiorno; o ancora alle proteste nel campo profughi di Agadez, in Niger, dello scorso anno, in cui rifugiati e rifugiate sudanesi hanno accusato le agenzie delle Nazioni Unite ed europee di negligenza dato che da mesi, alcuni persino da anni, si trovavano lì senza alcuna notizia sui ricollocamenti in Europa.
Ci troviamo in un’apartheid della mobilità internazionale, in cui se si possiede un passaporto di serie A si può godere della libertà di movimento senza dover per forza avere problemi insormontabili con il visto. Al contrario, se non lo si possiede, specie se si proviene da un Paese del sud globale, ciò non è possibile o altamente difficile. Finché non verrà compreso e risolto questo problema, sostituendo le frontiere con vie libere e accessibili per tutti e tutte, continueremo ad assistere a naufragi in mare con la consapevolezza che possono essere evitabili.