L’Europa e il mondo hanno assistito negli ultimi anni ad ondate migratorie senza precedenti. Parallelamente, si è diffusa la pratica della detenzione di migranti e richiedenti asilo con lo scopo di gestire i flussi migratori, di ridurre il numero di stranieri irregolari presenti sul territorio e di aumentare il tasso di rimpatri. In Italia questo sistema è stato normalizzato nel 1998, con la Legge Turco-Napolitano (Legge n. 40/1998) e, da allora, la detenzione è utilizzata come uno degli strumenti principali finalizzati all’espulsione di persone sprovviste di regolare permesso di soggiorno. Nel 2018, l’adozione del cosiddetto Decreto Salvini (Decreto Legge n. 113/2018) ha ulteriormente esasperato questa pratica, introducendo un aumento della capienza dei centri di detenzione e del numero massimo di giorni di detenzione, nonché la sospensione della protezione umanitaria. Contrariamente a quanto ipotizzato dai governi, queste riforme si sono dimostrate inefficaci sia nelle procedure di rimpatrio che in quelle di integrazione. Meno della metà delle persone detenute viene effettivamente rimpatriata (nel 2019 il 45%). Le restanti si trovano in condizioni di alienazione ed esclusione sociale. Le stesse strutture detentive pongono inoltre numerose e gravi criticità: accesso limitato ad assistenza medica, sociale e legale, presa in carico inadeguata di specifiche vulnerabilità, spesso e condizioni igieniche e sanitarie insufficienti. Questo sistema ha quindi un costo elevato in termini di rendimento, di efficacia e di violazione dei diritti umani. Risulta essenziale implementare le alternative alla detenzione. È in questo contesto che la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD) e Progetto Diritti hanno lanciato il progetto “Alternative alla detenzione: verso una gestione efficace e umana della migrazione”, con l’obiettivo di promuovere alternative basate sul coinvolgimento diretto delle persone interessate e sensibilizzare i politici e l’opinione pubblica sui loro benefici. Nell’ambito del progetto, nei prossimi mesi, si condurranno una serie di interviste con esperti di alternative alla detenzione (sia esperti di policy che “esperti per esperienza”) che saranno pubblicate in questa rubrica di Open Migration dedicata all’argomento.
La prima persona intervistata è Jerome Phelps: esperto di policy, ex direttore esecutivo della International Detention Coalition ed ex direttore di Detention Action.
La detenzione è effettivamente necessaria ed efficace nella gestione della migrazione?
Negli ultimi due decenni c’è stata un’espansione enorme dell’uso della detenzione come strumento centrale nella gestione della migrazione. In genere i governi la vedono come un mezzo fondamentale per il rimpatrio dei migranti. Tuttavia, ci sono davvero poche prove della sua efficacia. Al contrario, molte prove dimostrano quanto il suo abuso in alcune circostanze risulti dannoso per i migranti e la loro salute fisica e mentale, aspetto ampiamente documentato, e molto inefficace per gli stati stessi. I tassi di detenzione-ritorno sono spesso molto bassi; i migranti vengono detenuti, spesso per lunghi periodi, e poi rilasciati. La detenzione ha, inoltre, un impatto estraniante su queste persone. Danneggia la loro salute e dà loro un messaggio molto forte: il sistema è ostile a loro e loro devono opporsi ad esso. Pertanto, è controproducente in circostanze in cui è richiesta la loro collaborazione (es. per stabilire la loro identità).
Quello che stiamo vedendo attualmente, soprattutto in Europa, è una crescita della detenzione nel contesto migratorio, non come una politica basata su fatti e prove, ma per un senso di panico. Per i governi, la detenzione rappresenta una soluzione facile in considerazione del fatto che la priorità politica è di avere una gestione efficace della migrazione, soprattutto per quanto riguarda il rimpatrio dei migranti, e che vi sono i fondi per costruire centri di detenzione. Le autorità nazionali ritengono di dover fare di più per rassicurare le popolazioni, che stanno sperimentando una crescente xenofobia, ma c’è ben poca fiducia che questo approccio sia effettivamente efficace. Penso che l’opportunità, anche in questo difficile momento politico, sia quella di lavorare con i governi, con l’Unione Europea e con la Commissione Europea, per esplorare fino a che punto la detenzione debba essere centrale nella gestione della migrazione.
Quali sono le alternative?
In tutto il mondo ci sono sempre più attestazioni che dimostrano che l’approccio opposto alla detenzione, cioè il coinvolgimento diretto e pro-attivo dei migranti, è più efficace ed economico per i governi e migliore per il benessere delle persone. La governance dell’immigrazione è come un’istituzione e qualsiasi istituzione (es. scuole, carceri, sistemi di giustizia penale) funziona efficacemente quando si basa sulla collaborazione e il consenso delle persone che vi sono soggette. La governance dell’immigrazione non fa eccezione. Disumanizzando le persone che vi sono soggette, cioè i migranti in situazione di irregolarità, e quindi impedendo la loro partecipazione, diviene impossibile per i governi gestire il sistema di migrazione in maniera efficiente. Pensare a un sistema che ottenga il consenso non di tutti i migranti, ma di un numero sufficiente è fondamentale. Prevedibilmente, tale sistema è basato sul dialogo con i migranti come pari e su un’efficace comunicazione tra questi e le autorità competenti riguardo le loro situazioni, i requisiti del sistema ed, eventualmente, le motivazioni delle decisioni prese.
È dimostrato che quando vi è una comunicazione efficace tra migranti e autorità, quando gli individui sono impegnati attivamente nel sistema e quando questi hanno la sensazione di essere stati trattati correttamente, vengono prese decisioni migliori e, se respinti, i migranti sono più propensi ad attenersi alle regole del sistema. Per i governi, i rimpatri volontari sono molto più economici rispetto alla detenzione; ancor di più con l’aumento del numero di migranti. Nessun paese europeo ha la capacità di detenere tutti i migranti irregolari. Pertanto, la detenzione non è un’opzione valida. I governi devono trovare il modo per far sì che gli immigrati si fidino del loro sistema e, come sappiamo, la detenzione corrode di questa fiducia; mina sia la fiducia della comunità che quella degli individui.
Quindi, quali sono le alternative? In Europa, da molti anni, ci si è concentrati su una serie di possibili alternative alla detenzione che vengono già utilizzate dagli stati, come ad esempio obbligo di firma, residenza designata e cauzione. Si tratta di alternative basate su livelli di coercizione ridotti, ma che tuttavia comportano elementi di coercizione che possono essere molto dannosi e restrittivi. Sebbene rispetto alla detenzione queste misure minino in minor misura la fiducia (es. possono essere utili per far sì che le autorità si fidino di lasciare i migranti vivere in comunità mentre le procedure sono in corso), scarseggiano le prove che questi tipi di alternative effettivamente aumentino la cooperazione e la fiducia nel sistema o i livelli di rimpatrio volontario.
I risultati più notevoli tendono a provenire da alternative basate sulla cooperazione. Il sistema svedese si basa sull’avere un case manager che lavora con i migranti per assicurarsi che questi possano accedere ai vari servizi di informazione, alloggio, assistenza sanitaria e consulenza legale di cui hanno bisogno per stabilizzarsi nella comunità e per assicurare un impegno pro-attivo con il sistema. In Svezia, Australia e altri paesi, è stato dimostrato che avere un punto di contatto, quale il case manager, che possa aiutare gli individui a navigare attraverso questa gamma di servizi, è determinante per accrescere la fiducia. Le alternative basate sul case management sono particolarmente utili per individui in situazioni complesse e possono essere un modo prezioso per evitare la detenzione e far sì che i migranti passino attraverso il sistema e risolvano i loro casi nella comunità.
Nel 2012, Lei ha affermato che una delle ragioni principali della crescita della detenzione dei migranti in Europa è la debolezza del quadro di diritti umani in materia, riferendosi all’articolo 5 della CEDU come “al diritto di essere detenuti”. Sebbene il tema dell’alternative abbia ricevuto maggiore attenzione in Europa, l’articolo rimane invariato e i governi europei fanno ancora un uso limitato delle alternative. Perché da allora ci sono stati pochi progressi sostanziali? Quali dovrebbero essere le priorità e le prospettive nell’attuale clima politico?
Penso che il quadro giuridico offra ai governi un margine di manovra per utilizzare la detenzione in modo relativamente libero. Permette di avere una “detenzione di routine”, che rende la prassi politica della detenzione cruciale. I governi si sentono politicamente motivati, o addirittura obbligati, a detenere i migranti su larga scala nonostante il costo umano e finanziario. Chiaramente, negli ultimi anni, l’asilo e la migrazione sono stati un problema enorme in tutta l’Unione Europea. C’è stata molta pressione, da parte dell’estrema destra in particolare, per chiudere i confini, deportare i migranti ed espandere la detenzione in molti paesi. Tuttavia, ciò non si è necessariamente tradotto in un drammatico aumento della detenzione nella maggior parte dei stati europei. Ci sono stati sviluppi molto più drammatici in termini di accesso all’asilo alle frontiere rispetto all’espansione della detenzione. Questo è in larga misura dovuto al fatto che la costruzione di centri di detenzione è lenta e costosa e, in caso di crisi, non è l’opzione più attraente. Anche gli stati che, come l’Italia, hanno promesso di aumentare drasticamente la loro capacità di detenzione, si sono mossi abbastanza lentamente per farlo.
Credo che questo dia alla società civile l’opportunità di cambiare direzione. I governi sono molto interessati ora al “know-how” della governance migratoria. I fondi e le risorse disponibili saranno indirizzati alla costruzione e gestione di centri di detenzione, a meno che la società civile e i suoi alleati non riescano a perorare la causa che la detenzione non dovrebbe essere la via da seguire per la governance della migrazione in Europa. I sistemi di migrazione funzionano meglio quando non sono basati sulla detenzione e sulla coercizione. Il crescente dibattito sulle alternative è accompagnato da un crescente interesse guidato principalmente dal Consiglio d’Europa, ma sempre di più anche dalla Commissione Europea con raccomandazioni che promuovono alternative basate sull’impegno, il coinvolgimento della società civile e la fiducia dei migranti. L’unica opzione che credo sia possibile è quella di abbandonare alternative tradizionali basate sull’enforcement. Una gestione della migrazione basata sull’impegno avviene già, seppure in varie misure, in tutta Europa: la maggior parte dei migranti che si trovano in situazioni regolari non è in detenzione. L’Europa ha una società civile molto forte che lavora con i migranti, aiutandoli a vivere in modo sostenibile nella comunità mentre passano attraverso il sistema. La cooperazione tra ONG e governi, però, è generalmente molto limitata per quanto riguarda l’inserimento dei migranti all’interno della comunità. Sulla base delle buone pratiche in materia di accoglienza, consulenza legale e sostegno, c’è perciò la possibilità di fare capire al governo che le alternative favoriscono la cooperazione e la partecipazione dei migranti nel sistema, nonché riducono il rischio di fughe. Possono anche favorire il migliore funzionamento del sistema qualora il governo e le ONG siano disposti a lavorare insieme in maniera più costruttiva.
Data la portata del fenomeno migratorio e l’impegno limitato dei governi, come possono i progetti realizzati su piccola scala dalla società civile avviare un cambiamento più ampio? Come si può riprodurre la stessa efficacia su scala più ampia?
Penso che i progetti pilota su piccola scala siano un ottimo modo per testare ciò che funziona. Non esiste un solo modello di alternative alla detenzione per il quale si possa dire “questo è quello che funziona” e che possa essere replicato in qualsiasi stato o contesto nazionale. Tutte le prove dimostrano che le alternative devono basarsi sull’ambiente in cui si sviluppano: il contesto nazionale, le sfide e le priorità politiche delle autorità, i bisogni, i punti di forza, le risorse dei migranti, e le capacità della comunità e della società civile. Lo sviluppo delle alternative consiste in un processo che può riunire diversi attori per rafforzare e rendere più umani i sistemi di migrazione che attualmente si basano sulla detenzione. Questo processo deve essere rinnovato ogni volta, in ogni contesto nazionale, attingendo a esperienze diverse.
Quindi, i progetti pilota su piccola scala sono un buon modo per i governi di sondare il terreno, fare piccoli investimenti, costruire relazioni con la società civile, e gradualmente lavorare sul passaggio di scala, il quale è inevitabilmente una sfida. Se il progetto pilota è fatto e valutato efficacemente, l’apprendimento su piccola scala può influenzare l’implementazione su larga scala, che può potenzialmente coinvolgere ancora più attori che rispondono a diverse esigenze. L’elemento centrale delle alternative è uno screening efficace, il quale è necessario per identificare i bisogni e i punti di forza dei migranti. Potenzialmente, le alternative si possono sviluppare gradualmente partendo da piccoli progetti o da un’implementazione governativa su larga scala – ci sono vari modi per gestire gradualmente un’implementazione più ampia.
Ha qualche esperienza che vorrebbe condividere con noi?
Credo che sia davvero fondamentale che i migranti svolgano un ruolo pro-attivo nella discussione su come possa essere migliorato il sistema. La detenzione è disumanizzante, rende i migranti i prigionieri, li fa diventare l'”Altro” verso cui è molto difficile essere empatici. Le opinioni delle persone, però, cambiano molto rapidamente quando sono sedute a un tavolo con qualcuno che dice: “Sono stato detenuto per 4 anni, questo è quello che mi è successo, questa è la mia analisi del perché il sistema non funziona al momento e questa è la mia proposta “. Quando i migranti possono parlare direttamente della loro esperienza personale ai responsabili politici, l’impatto che ne deriva è maggiore di quello che provocano le parole di un esperto di policy come me. A Detention Action, una volta ho incontrato una politica di alto livello che voleva ridurre la detenzione, ma era molto riluttante a includere ex trasgressori, il gruppo più esposto nel Regno Unito alla detenzione a tempo indeterminato. Abbiamo tenuto un incontro con lei e Freed Voices, uno dei nostri gruppi di “esperti per esperienza”. Uno dei partecipanti veniva dalla sua stessa zona di Londra ed era stato in prigione. Aveva un’esperienza molto simile a quella di giovani che lei conosceva ed è stato in grado di cambiare l’opinione che lei aveva parlandole come un ragazzo di quel sobborgo londinese. Questa è una parte importante delle alternative: migranti attivamente e direttamente coinvolti, come esseri umani, nel cambiamento del sistema, oltre che nella risoluzione dei propri casi. Tutto questo è parte integrante del processo di umanizzazione della governance dell’immigrazione.
Immagine di copertina via LasciateCIEntrare