Centro di detenzione di Fylakio. Ayşen esce dal container dove la polizia greca identifica i nuovi arrivati. “Sono turco, ho attraversato il fiume stanotte insieme ad altre persone. Eravamo 35 in tutto”, dice raggiungendo Burçin [i nomi sono di fantasia], anche lui in fuga dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. “Sono scappato perché credono che abbia legami con l’organizzazione di Fetullah Gülen. Ma non è così”. Negli ultimi mesi i passaggi di cittadini turchi dal fiume Evros – Meriç in turco – si sono moltiplicati. I numeri parlano chiaro: l’esplosione delle fughe corrisponde all’entrata in vigore dello stato di emergenza in Turchia, dopo il fallito colpo di stato dell’estate del 2016, e anche se la legge marziale non c’è più, il numero di quelli che scappano è in continuo aumento, con un picco da quest’anno. Come promesso alla vigilia delle elezioni, Erdogan ha sospeso il decreto speciale. Ma la diaspora turca attraverso la rotta dell’Evros è ormai una realtà.
“Non ci sono dubbi, sempre più cittadini turchi fanno richiesta di asilo in Grecia”, commenta Leo Dobbs, capo della comunicazione per l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ad Atene. A confermarlo ci sono anche le cifre diffuse dalle autorità elleniche. Nel 2017 sono stati 1827, mentre dalla prima metà di quest’anno il Ministero per le Politiche dell’Immigrazione ha già in mano 1.152 pratiche. Entro la fine dell’anno potrebbero raddoppiare. Solo a giugno sono entrati in 414. Una tendenza iniziata nell’estate del 2016, quando per la prima volta si ha avuto un numero significativo di turchi in fuga, 189. Da quel momento non si sono più fermati. Prima di allora, invece, si registravano presenze molto ridotte: 42 nel 2015, 41 nel 2014 e solo 17 nel 2013.
Perché i turchi fuggono dal loro paese
“Ero un dipendente pubblico, insegnavo in una scuola di Istanbul. Ma poi il regime ha iniziato a starmi addosso e così ho deciso di scappare. Ho pagato un trafficante che portava altra gente in Grecia e sono venuto qui. Non so cosa succederà. Ma ho paura di tornare a casa”, riprende Ayşen, che sul Bosforo ha lasciato la famiglia. Analoga anche la storia che racconta Burçin, che prima di fuggire faceva l’impiegato in banca. “Prima delle presidenziali del 2014 non era così in Turchia, Erdogan sembrava un presidente democratico, ma poi ha dato un giro di vite e ora il regime somiglia a una dittatura di fatto. Chi non è con l’Akp rischia guai seri”.
Ayşen e Burçin fanno parte del gruppo appena arrivato nel Centro di identificazione di Fylakio. Al di là della rete metallica tutti attendono il proprio turno col passaporto in mano. Chiedono protezione in Europa, anche coloro che sanno di avere poca speranza di ottenerla. La loro domanda dovrebbe essere valutata in tre mesi, ma spesso ne passano cinque o anche di più. In questo modo sperano di prendere tempo e di trovare una soluzione alternativa. Anche se per molti si apre il limbo senza fine di Dublino III, il trattato che prevede l’obbligo di presentare domanda d’asilo nel paese di arrivo. La maggior parte di loro non vorrebbe restare in Grecia. Sono i cosiddetti “dublinati”, arrivano da Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq e Siria. Hanno visi scavati dalla stanchezza, dopo la traversata e la notte insonne. La polizia di frontiera ellenica li ha individuati mentre camminavano, in cerca di aiuto, nei campi attorno al fiume Evros, e li ha portati qui. Gli unici che sembrano non sentire la fatica del viaggio sono i bambini, che giocano correndo attorno ai genitori.
Il fiume, confine naturale tra Grecia e Turchia, fissato nel 1923 col trattato di Losanna, al termine della guerra greco-turca, è la porta orientale d’Europa. Da qui nel 2011 sono entrate in Europa oltre 45 mila persone, mantenendo una media alta negli anni a seguire. Ora i numeri si sono ridotti, ma fino a poco tempo fa il settore sud orientale del continente europeo era la principale via di sconfinamento. Sul finire del 2012, nel pieno della crisi economica, la Grecia ha speso oltre 5 milioni di euro per erigere una barriera metallica lungo i 12 chilometri e mezzo di confine terrestre che non coincidono con il corso del fiume. Soldi dei greci ma anche dell’Unione europea, presente con uomini e mezzi dell’agenzia Frontex, in supporto delle autorità di frontiera per pattugliare l’area. Acciaio, filo spinato e telecamere a circuito chiuso, che vanno da Kastanjes a Nea Orestiada. Prima era da qui che si tentava il passaggio, di notte, nascosti nell’erba per non essere visti. Ma il “muro”, come lo chiamano nella zona, ha deviato gli arrivi più a sud, lungo i 190 chilometri di fiume, che ad Alessandropoli si tuffa nel Mar Egeo.
Un viaggio pieno di pericoli
“Dall’inizio di quest’anno”, prosegue Dobbs, “oltre 9.200 persone sono arrivate in Grecia dalla rotta terrestre dell’Evros, a fronte di circa 16 mila arrivi via mare”. Solo nel solo mese di aprile gli ingressi via fiume sono stati addirittura la maggioranza: 3.600 contro 3 mila dalle isole di Lesbo, Kos, Samo e Rodi. Per alcuni il rischio di annegare nelle acque torbide dell’Evros diventa una tragica certezza. In alcuni punti la corrente è molto forte. La morte per ipotermia è la più frequente dopo l’annegamento. “È molto pericoloso”, racconta Mohamed Shabbar Hasmi, che è andato via dal Pakistan separandosi dalla moglie e dalla figlia, “l’acqua è sporca e fredda. Ora sono finalmente qui, ma non è stato facile. Il viaggio mi è costato oltre 30 mila dollari e ho rischiato la vita più volte. Lungo la strada, ho visto morire alcuni compagni di viaggio, uccisi dalle pallottole dell’esercito iraniano. Poi sono arrivato in Turchia e lì ci hanno detto di stare attenti ai campi minati lungo il confine. Sono vivo solo grazie a Dio”.
Fino al 2008, saltare su una mina antiuomo, residuato della crisi di Cipro del 1974, era una possibilità concreta. “Era la seconda causa di morte per chi tentava il guado”. Pavlos Pavlidis, medico legale che da 18 anni tiene la contabilità di quanti annegano nel fiume, lavora nell’ospedale di Alessandropoli. Qui tenta di dare un nome ai corpi sfigurati dall’acqua e dai pesci. “Da gennaio ad agosto sono già 22 i morti. Mentre nel 2017 sono stati 18. Di questo passo torniamo ai numeri del 2012, quando abbiamo contato oltre 50 cadaveri e questo solo sul lato greco. Su quello turco non sappiamo cosa accada. I numeri potrebbero essere simili”, spiega. “Finora sono riuscito a identificare 103 persone, ma nella maggior parte dei casi è impossibile. Serve un confronto del Dna con quello dei familiari. Ma non è facile trovarli”. Pavlidis ha a disposizione alcuni effetti personali come braccialetti, banconote, cinture o anelli, a volte un tatuaggio. “Inizio da quelli per cercare i genitori, che aspettano una loro chiamata”, prosegue aprendo una scatola con gli oggetti catalogati. “Però il loro figlio è qui. È una notizia tremenda, una tragedia, ma almeno è una risposta alle loro domande. Tra questi corpi potrebbe esserci un cittadino turco”, conclude aprendo una delle celle frigorifere del nosocomio.
Pochi chilometri più a nord, in Bulgaria, la faccenda è simile. Lì, nel 2016, Sofia ha deciso di erigere un nuovo “muro”, una recinzione metallica lunga 269 chilometri al confine con la Turchia. Tre i check-point principali: Kapitan Andreevo, Lesovo e la terza più a est, a Malko Tarnovo. “C’è un accordo sotto traccia con Ankara per respingere al confine i turchi che tentano di passare di qua”, racconta la direttrice del programma Immigrazione della costola bulgara dell’Helsinki Committee, Ilyana Savova, “accordo che non risparmia nessuno. Nell’ultimo anno abbiamo avuto un drastico calo degli ingressi, circa il 60 per cento in meno. La ragione più drammatica sono proprio i respingimenti a caldo, oltre al pattugliamento serrato dei confini e al diniego quasi certo delle domande di asilo”.
La gente perciò, preferisce andare in Grecia, dove le autorità sono meno dure. “Secondo una fonte che non posso rivelare”, continua Savova, “ogni settimana vengono rispediti indietro dalle 500 alle 600 persone verso la Turchia. Impossibile quindi stabilire il numero esatto. Il governo ha smesso di fare i report di quanto avviene alla frontiera”. Come per la Grecia, anche in Bulgaria il “muro” è costato parecchio e non blocca i passaggi. “Per noi è una triste reminiscenza della Cortina di ferro. Allora la barriera serviva per impedire ai bulgari di uscire dal paese. Oggi serve a non fare entrare nessuno. Ma la pratica è la stessa”. Una nuova legge impedisce l’accesso all’area per chiunque. È così anche per la stampa. “Tutto quello che si distacca dai principi di democrazia e pluralismo, viene promosso dal governo come sicurezza nazionale oppure come ordine pubblico. È una tendenza preoccupante, perché ti accorgi che non ha nulla a che fare con la gestione del problema. Ma solo con la sua comunicazione”. Senza contare che la recinzione “è un modo per ingrassare le tasche dei trafficanti. Molti dati dimostrano come il traffico di esseri umani sia diventato un affare conveniente”.
La polizia greca
I respingimenti a caldo, però, sono un problema anche nella Tracia orientale greca. Ali Altftaily è libanese, sua moglie vive in Olanda. Vorrebbe raggiungerla lì, ma è bloccato a Fylakio. “Ho attraversato il fiume tre volte. Ogni volta la polizia greca ha preso tutte le mie cose e le ha bruciate, compreso il telefonino. Poi mi ha rimandato indietro”, racconta con le dita aggrappate alla rete che lo separa dalla zona libera del campo. “Ad ogni passaggio ho pagato 1700 euro a un trafficante. Il problema per me non sono i soldi. Vorrei solo rispetto della mia dignità e la possibilità di andare da mia moglie”.
A coordinare le operazioni di controllo e pattugliamento dei 12 chilometri e mezzo di muro d’acciaio è la questura di Orestiada, cittadina di frontiera greca che sorge a poche centinaia di metri dal fiume Evros. È questo, secondo molti il vero “muro” da superare per arrivare in Grecia. La conferma arriva anche dal capo del dipartimento di polizia di Orestiada, Paschalis Siritoudis. “Il problema si è spostato dalla terra al fiume. Gli arrivi si sono stabilizzati grazie all’azione della polizia, anche se la tendenza rispetto all’anno scorso è in crescita”. Sulla questione turca non ha dubbi. “È una novità che si sta consolidando. Ne arrivano sempre di più”.
Nel Centro di Fylakio, l’avvocato dell’Unhcr Margaritis Petritzikis presta assistenza legale ai nuovi arrivati. “Quella dei rifugiati turchi è una questione molto delicata. Non possiamo rivelare l’identità di chi chiede asilo, né raccontare le loro storie. C’è il rischio concreto di ritorsioni contro le famiglie rimaste a casa. Posso solo dire che scappano per ragioni politiche e che in Europa chiedono protezione”. Lì l’Onu svolge un lavoro di supporto ai rifugiati, a fianco delle autorità greche.
“Prima che decidessi di andarmene, diversi miei colleghi sono stati arrestati senza ragione. La situazione in Turchia peggiora ogni giorno”, riprende Ayşen, “il regime vuole imbavagliare chi non la pensa allo stesso modo”. Le purghe post golpe, dal luglio 2016 a oggi, hanno colpito oltre 125 mila impiegati pubblici, rimasti senza posto di lavoro. Sono accademici, funzionari pubblici, militari, poliziotti. Tutti accusati di far parte della rete di Fetullah Gülen. Per la stessa ragione, in due anni, sono state arrestate oltre 150 mila persone. A questi numeri si aggiungono più di 18 mila licenziamenti dei funzionari pubblici, proprio nei giorni del giuramento di Erdogan alla presidenza. Tutti considerati una “minaccia per la sicurezza interna dello Stato”. Con le elezioni del 24 giugno Recep Tayyip Erdogan è stato riconfermato presidente con il 52,6 per cento dei consensi, concentrando su di sé poteri straordinari. “Vuole occupare tutti gli spazi, avere il potere tutto per sé, riducendo la democrazia nel nostro paese. Restare in Turchia per alcuni di noi è diventato pericoloso”. Burçin rimette in tasca il passaporto e si allontana alla ricerca di un po’ d’ombra fra i container del campo rifugiati.
In copertina: le acque gelide del fiume Evros, porta naturale fra Turchia e Grecia (fotografia di Massimo Lauria)