Stando alle cifre fornite da OIM e UNHCR, nei primi otto mesi del 2019 sono 212 le persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo Occidentale. Durante il 2018, quando nella sola Nador giunsero all’ospedale Hassani i cadaveri di 244 persone, le vittime furono 811.
Al 21 giugno, data dell’ultima visita dei rappresentanti dell’Association Marocaine pour les Droits de l’Homme (AMDH), erano 40 i cadaveri nell’obitorio dell’ospedale di Hassani in attesa di essere riconosciuti. Sono i corpi di chi non è riuscito a raggiungere la costa spagnola e che il Mar Mediterraneo ha restituito alle spiagge di Nador.
In questi casi ci sono sostanzialmente due procedure per identificare i corpi delle persone decedute in mare durante i tentativi di traversata: la dichiarazione dei testimoni presenti durante il naufragio o il riconoscimento da parte dei familiari, dei rappresentanti delle comunità di migranti e delle associazioni della società civile.
A Nador se ne occupa B. D. che, scappato dalla Guinea Conakry nel 2013, ha deciso di ricominciare la sua vita in questa città di frontiera dove – sia a titolo personale e volontario, che come operatore di una associazione locale – presta una seri di servizi di orientamento e accompagnamento per la comunità migrante in transito, alloggiata in diversi accampamenti che sorgono alle pendici del Monte Gourougou.
“Il lavoro di riconoscimento dei cadaveri lo faccio prevalentemente per due ragioni: cerco di aiutare la città ma soprattutto per provare a colmare quel vuoto che lascia il ritrovamento di un corpo, soprattutto se senza documenti”. Esordendo con queste parole B. racconta i passi da compiere per intraprendere questa complessa procedura: “bisogna innanzitutto recarsi nel commissariato della Gendarmerie Royale che detiene il corpo per identificarlo. Spesso vengo chiamato direttamente dai commissariati quando i parenti delle vittime si presentano sul luogo. Li accompagno nell’identificazione facendo il giro degli obitori quando il cadavere che cercano non si trova tra quelli del commissariato in cui si sono recati”. Ma ci sono dei casi, come quello di domenica 16 giugno, in cui i parenti della vittima non hanno i mezzi per recuperare la salma o semplicemente recarsi sul posto per identificarla. In questo caso B. agisce direttamente per procura. “Ho identificato il corpo grazie ad una foto inviatami dalla madre che, dopo aver visto la foto che a mia volta le ho inviato, ha confermato che si trattava di suo figlio. A questo punto ho chiamato la Gendarmerie per confermare l’identità del defunto e mi sono recato da loro per redigere il verbale”. L’ultimo passaggio da affrontare è quello della sepoltura, spiega impassibile B.: “un posto al cimitero marocchino costa all’incirca 30 euro. Rimpatriare la salma invece va dai 3 ai 4 mila euro, cifra che non tutti possono ovviamente permettersi”.
Per provare ad arginare il numero delle morti nel tentativo di superare quella che in Spagna è chiamata Frontera Sur, fondamentale è il lavoro di informazione e preparazione alla partenza, che B. effettua per Alarm Phone attraverso campagne di sensibilizzazione rivolte alle persone che intendono partire: sui loro diritti, ma soprattutto sui rischi e le misure di sicurezza da adottare. “Quello che durante le sensibilizzazioni ripetiamo in continuazione sono due punti fondamentali: non far partire le barche con il brutto tempo perché ne va della vita di esseri umani e l’importanza di avere dei telefoni a bordo da usare in caso di pericolo”.
Spesso la comunicazione non è per nulla facile, visto che “molti trafficanti impediscono ai migranti di partire con gli smartphones, rendendo inutili i powerbank e le sim card con dentro il numero di Alarm Phone da contattare, fornito durante le sensibilizzazioni ai gruppi che attendono una partenza imminente”. È per questo che i migranti in difficoltà si ritrovano spesso a dover contattare direttamente chi li ha fatti imbarcare o le persone che costituiscono per il gruppo in viaggio un punto di riferimento a terra, e quindi B. “Non appena ricevo una telefonata la prima cosa che faccio è provare a tranquillizzare il mio interlocutore. Chiedo se a bordo ci sono donne incinte o bambini e di inviarmi la loro posizione”. Il passo successivo è trasmettere ad Alarm Phone ed alla marina militare marocchina – nel caso le imbarcazioni in avaria si trovino ancora in territorio magrhebino – la posizione comunicatagli dalle persone a bordo. “Non è affatto facile gestire queste situazioni. Immagina dover comunicare con persone che si trovano da 8-12 o anche 24 ore in avaria e non potergli dire che qualcuno verrà a soccorrerli, che la marina marocchina ha detto che non è sua competenza e che quindi molto probabilmente non interverrà”.
Oggi, grazie alla sua esperienza e la sua attività di volontariato, B. è riconosciuto da tutti gli abitanti di Nador come attore privilegiato nella mediazione culturale con le comunità migranti che vivono nella foresta, tanto che dal 2015 lavora per un’associazione marocchina che si occupa di diritti umani nella regione. È un agente comunitario, il cui ruolo è facilitare la comunicazione tra gli operatori delle Ong che portano avanti progetti di cooperazione e le comunità migranti che vivono nella provincia, orientandole e accompagnandole verso i servizi esistenti. “Il lavoro non è mai stato facile, soprattutto agli inizi. Dopo pochi mesi che avevo iniziato l’attività di orientamento all’ospedale,sono stato schiaffeggiato dalla polizia poiché mi ero opposto all’arresto delle persone che avevo accompagnato a farsi curare. Io fortunatamente non sono mai stato deportato verso sud, cosa che qui avviene frequentemente, anche se da quando sono arrivato in città mi hanno arrestato 4 volte”. Nonostante i ripetuti arresti, B. non ha mai perso la voglia di restare in città. “Credo che non si possa lasciar correre, non ci si può arrendere di fronte alle ingiustizie ma provare a far valere sempre i propri diritti, cosa che purtroppo chi vive nella foresta ad un certo punto smette di fare, costretta dalla paura e dalla rassegnazione”.
Le politiche repressive e la militarizzazione della frontiera hanno reso negli anni Nador un’eccezione nel paese magrebino, facendola diventare la cittadina in cui vengono eseguiti il maggior numero di arresti e deportazioni forzate verso il sud del paese. Ciò l’ha trasformata in una città inaccessibile ai migranti.
La militarizzazione della frontiera – lungo la quale ogni 50 metri si alternano tra filo spinato, telecamere e sensori notturni i gabbiotti di guardia marocchini e le torrette di avvistamento spagnole – ha reso il passaggio via terra sempre più difficoltoso, vedendo crescere esponenzialmente il numero delle partenze via mare, delle morti di chi tenta di attraversare e dei furti e violenze ai danni dei migranti. È quanto denuncia nel suo rapporto annuale l’Association Marocaine des Droits de l’Homme (AMDH) di Nador, che da anni si occupa di rilevare e denunciare le violenze che avvengono nei 15 accampamenti situati alle pendici della foresta che abbraccia la città e in cui trovano rifugio circa 3000 persone in transito.
“Dal 2015, anno in cui lungo il versante marocchino della frontiera è stata installata la quarta barriera di filo spinato, i tentativi di passaggio via terra – che avvenivano in maniera auto-organizzata e spontanea – si sono ridotti drasticamente in favore di quelli via mare, organizzati per la quasi totalità da trafficanti che chiedono ai migranti cifre che possono raggiungere i 5 mila euro. Questo cambiamento ha attirato molta delinquenza nella foresta, in quanto i migranti adesso non sono più visti come dei nulla tenenti, ma un facile bersaglio per furti ed estorsioni” dichiara Omar Naji presidente della sezione di AMDH di Nador, affermando che nel 2018 è stato registrato un aumento vertiginoso di aggressioni ai danni dei migranti. Dai 40 episodi del 2015, si è passati ai 90 del 2016, 92 del 2017 fino ai 340 nel 2018. Secondo l’associazione le nuove politiche migratorie “hanno favorito il passaggio ad una migrazione a pagamento permettendo la crescita di una rete di trafficanti che beneficiano di questo nuovo mercato, facendo diventare Il diritto alla libera circolazione un privilegio che può essere comprato”. È per questo motivo, continua Naji, che “abbiamo denunciato più volte queste organizzazioni, fornendo alle autorità anche le foto, i nomi ed i numeri di telefono dei trafficanti che agiscono nella regione, contribuendo ad una serie di arresti che però non hanno intaccato minimamente le organizzazioni che dirigono indisturbate il loro traffico da Rabat, Casablanca e Tangeri”.
Se l’aumento della sorveglianza lungo la costa marocchina ed intorno alle enclaves spagnole ha portato ad accrescere per i trafficanti il business delle partenze via mare, le partenze stesse hanno permesso di far crescere esponenzialmente il flusso di fondi destinati alla militarizzazione della frontiera. Dei 140 milioni di euro promessi dall’UE al Marocco per il controllo della frontiera Sud, di cui 70 versati direttamente al governo marocchino, 30 sono stati inviati lo scorso maggio proprio per il riammodernamento dei sistemi di vigilanza intorno alle due enclaves spagnole. Più specificamente, secondo quanto riportato dal quotidiano spagnolo El Pais lo scorso 7 luglio, i soldi sono serviti ad acquistare “750 veicoli, 15 droni, decine di metal detector, lettori per le impronte digitali e radar”.
La netta diminuzione degli arrivi nel paese iberico rispetto al 2018, che stando ai dati UNHCR ha registrato nel periodo gennaio – luglio 2019 un calo del 40%, è stata accolta positivamente dal governo spagnolo che il 19 luglio ha sbloccato un fondo da 30 milioni destinato a colmare parte delle “spese effettuate dalle autorità marocchine in attività di collaborazione con la Spagna e l’Unione Europea nella vigilanza delle frontiere e la lotta contro l’immigrazione irregolare che ha come destinazione le coste spagnole”.
Purtroppo, benché il numero degli arrivi sulle coste spagnole e le enclaves in territorio marocchino sia diminuito, lo stesso non si può dire per il numero delle vittime, aumentate in proporzione del 5%.
Risulta quindi evidente che questo tipo di finanziamenti a paesi terzi espliciti come, per l’Unione Europea ed i suoi paesi membri, la risposta ad un’emergenza umanitaria sia sempre più la militarizzazione delle frontiere, causando un aumento dei rischi vitali per le persone migranti ed una minore attenzione al rispetto dei loro diritti umani, calpestati dagli stessi stati finanziati allo scopo di rendere invalicabili le proprie frontiere.
In copertina: ragazzo sul lungomare di Nador. (Foto di Lorenzo De Blasio, come tutte quelle presenti nell’articolo)