Quindici anni di baraccopoli a Calais
Andiamo con ordine, partendo dall’inizio – che è un po’ remoto.
Quella dell’insediamento di profughi nella cittadina di mare francese al confine con il Regno Unito – che è raggiungibile via mare, con i traghetti, ma anche attraverso l’Eurotunnel (proprio a Calais è infatti l’ingresso francese) – è infatti una storia lunga e complessa, che inizia addirittura nel millennio scorso: nel 1999, sotto la pressione dei flussi migratori dalla regione balcanica, veniva infatti lì aperto, sotto la gestione della Croce Rossa Francese, il campo di Sangatte, in cui trovarono “rifugio” per un paio di anni circa 2000 profughi (provenienti soprattutto dal Kosovo, ma anche da Afghanistan ed Iraq). Il virgolettato è d’obbligo, perché le condizioni di vita a Sangatte erano estremamente precarie – “inumane”, le definisce chi c’è stato.
In ogni caso, se il campo di Sangatte (da sempre oggetto di tensioni tra il governo britannico e quello francese) è stato sgomberato nel 2002 e l’anno successivo è stato siglato il Trattato di Touquet – con il quale si è rigidamente regolamentata la gestione dei flussi migratori tra i due paesi – questo non ha certo ridotto la presenza importante di profughi nella zona. La “tattica della deterrenza” – tra controlli congiunti, respingimenti e negazione d’accoglienza – messa in atto da francesi ed inglesi non ha infatti ovviamente risolto il problema, e nella zona centinaia e centinaia di profughi hanno continuato ad arrivare ed organizzarsi in insediamenti informali. A seguito della (discussa) apertura del piccolo centro di accoglienza diurna per richiedenti asilo Jules Ferry, gli accampamenti si sono consolidati – nella tacita tolleranza delle autorità – soprattutto in questa zona, dando vita a quella che è stata chiamata (trattasi di un soprannome piuttosto controverso, nonostante sia stato attribuito dagli stessi profughi) la “giungla di Calais”.
Insomma, una storia di oltre quindici anni di baraccopoli – di cui però nessuno, o quasi, si è più interessato sino all’inizio del 2015. L’intensificarsi della crisi, l’aumento degli arrivi, il consolidarsi delle piccole comunità locali: ecco che i profughi attestati a Calais sono passati da poche centinaia ad alcune migliaia (erano 3000 a giugno, già il doppio a ottobre) e le autorità francesi cominciavano a notificare avvisi di sfratto e mettere in atto sgomberi.
Quelli che ancora ricordavano hanno cominciato a gridare alla “nuova Sangatte”, chiedendo in quelle baraccopoli che i profughi avevano in qualche modo reso le loro precarie case venissero infine garantiti diritti ed accoglienza.
Ancora qui
Un appello che però, a oggi, è rimasto drammaticamente inascoltato: l’unica risposta delle autorità resta infatti quella degli sgomberi forzati – il primo a settembre del 2015, il più recente e significativo tra marzo e aprile del 2016 (con l’evizione di migliaia di persone).
Eppure che bulldozer e lacrimogeni non possano costituire una soluzione al problema degli insediamenti informali ce lo avrebbe dovuto insegnare già l’esperienza di Sangatte. Lo scriveva l’attuale capo di stato francese Hollande nel 2009: le ruspe non risolvono l’emergenza, la spostano solo un po’ più in là. E, infatti, oggi i profughi continuano ad arrivare e ricostruire quanto viene buttato giù: la giungla di Calais è ancora lì, “casa” per più di 6000 profughi, di cui circa 700 minori (stando ai dati dell’associazione Help Refugees, che conduce periodicamente un censimento volontario). Ed è ormai una vera e propria “città provvisoria”, messa in piedi una tenda alla volta da profughi improvvisatisi architetti e costruttori.
I dati per raccontare la vita nella giungla
Ma com’è la vita quotidiana per quanti vivono nella tendopoli di Calais?
Il fatto che il campo non goda di alcun riconoscimento ufficiale vuol dire che non vi è alcun sistema di registrazione e raccolta di informazioni e che sia quindi davvero difficile raccogliere dati e statistiche sul numero di persone ospitate e sui servizi presenti. Tanto per dirne una, non c’è nemmeno una cartina ufficiale del campo (anche se un gruppo di volontari sta cercando di portare avanti il complicato lavoro di mappatura).
Per questo motivo è particolarmente importante l’iniziativa del Refugee Rights Data Project, progetto di ricerca portato avanti da un gruppo internazionale di volontari con lo scopo di riuscire a colmare il cosiddetto “data gap”, e cioè quella carenza di dati solidi e affidabili che è un po’ caratteristico dell’intero dibattito sulla crisi dei rifugiati e particolarmente evidente in situazioni “non formalizzate” come quella di Calais.
Nel febbraio del 2016 i ricercatori del progetto hanno condotto la più ampia operazione di raccolta dati mai effettuata nel campo di Calais, raccogliendo le testimonianze di 870 tra uomini, donne e bambini (rappresentativi quindi del 15% della popolazione totale del campo, allora stimata in circa 5500 persone). Per la prima volta da che la “giungla” esiste si sono così messe insieme le preziose (per quanto parziali) informazioni necessarie per mappare la composizione demografica della popolazione, le condizioni di vita nel campo e il perpetuarsi di violazioni dei diritti fondamentali dei profughi.
È stato così prodotto il rapporto “La lunga attesa: colmare il data-gap su rifugiati e sfollati a Calais” che, pubblicato in inglese nell’aprile di questo anno, è ora disponibile anche in lingua italiana.
In occasione del lancio dello studio nel nostro paese, facciamo i punti sui suoi dati, punti e scopi fondamentali con Giulia Fagotto e Cristina Cardarelli, le due ricercatrici italiane che hanno preso parte al progetto.
I dati demografici e la questione di genere
La prima, fondamentale area d’indagine della ricerca è quella dei dati demografici. A volerlo riassumere in pochi numeri, chi sono e da dove vengono i profughi di Calais?
Secondo il censimento di Help Refugees concluso nel febbraio 2016, al momento della nostra ricerca l’intera popolazione del campo ammontava a circa 5500 persone – di cui 4640 uomini e 205 donne. Questo numero includeva diverse famiglie e circa 651 minori. Da febbraio ad oggi, si è verificato un drastico aumento dell’intera popolazione. Nell’ultimo censimento fatto ad agosto 2016, Help Refugees ha infatti concluso che nel campo vivono attualmente 9106 persone, inclusi 865 minori, il 78% dei quali non sono accompagnati.
Provenienti da più di quindici paesi diversi, le persone nel campo tendono ad essere divise e raggruppate per paese di provenienza. Nel momento della ricerca del Refugee Right Data Project, la comunità afgana rappresentava più del 30% della popolazione, seguita da sudanesi (20%), siriani (10%) e iraniani (10%). L’8% dei residenti erano Kuwaitiani Bedoun (una tribù senza cittadinanza), mentre il 7% provenivano dall’Eritrea. Erano inoltre presenti gruppi minori originari del Pakistan, dell’Iraq e dell’Etiopia.
Per quanto riguarda l’età, le persone erano relativamente giovani – ma solo il 14,4% degli intervistati era minore di 18 anni. Fra gli adulti, l’età variava fra 22 e 65 anni, con una media di 25 anni circa. Il 66% dichiara di essere single, mentre il 30% degli intervistati risulta sposato.
Dal punto di vista del livello d’educazione, abbiamo riscontrato diversi trend. Mentre il 20% degli intervistati ha riportato di non aver mai ricevuto alcun tipo d’educazione formale (in particolare i Bedoun del Kuwait – apolidi), più del 50% possedeva una certificazione pari alla scuola superiore o maggiore. Il 22% aveva conseguito infatti una laurea universitaria, mentre il 2% un master. Una piccola percentuale di intervistati, circa lo 0,47%, dichiara di avere un dottorato.
Nonostante il 15% degli intervistati risultasse disoccupato, la grande maggioranza aveva occupazioni diverse prima di lasciare il proprio paese d’origine. Il 16% circa è composto di lavoratori qualificati (come falegnami, tecnici, etc.) e circa il 9% lavoratori non qualificati (addetti alle pulizie, facchini, etc.) Abbiamo inoltre incontrato molti agricoltori (7%) e un numero minore di lavoratori specializzati, come dottore, avvocati, ecc. (5%). Più del 20% dichiara di essere studente.
In generale, è importate ricordare che avere dei dati precisi riguardo la popolazione del campo è estremamente difficile, contando che le cose cambiano molto velocemente. Pochi giorni dopo la nostra ricerca, la parte sud del campo è stata distrutta e molti residenti si sono spostati – e la demografia del campo è cambiata.
È però importante fare una precisazione sulla rappresentatività del campione di riferimento: nonostante il report contenesse dati disaggregati per genere, lo scopo limitato non ha permesso di soffermarsi sulla situazione delle donne nel campo. Quali sono le ragioni che vi hanno portato a pubblicare un secondo report?
Nel primo report “La lunga attesa”, lo scopo prefisso era quello di raccogliere dati indipendenti e mostrare la situazione generale nel campo di Calais– raggruppando testimonianze dirette di adulti, donne e bambini.
Nonostante nel report si possano trovare riferimenti riguardo le condizioni delle donne rifugiate a Calais, l’analisi proposta non permette di presentare in modo dettagliato la situazione di estrema precarietà nella quale vivono. Partendo dal presupposto che la presenza di donne è inferiore rispetto agli uomini, è fondamentale dire che la minoranza femminile rappresenta una parte particolarmente vulnerabile della popolazione del campo – della quale si parla troppo poco.
La mancanza di supporto medico durante la maternità, così come episodi di violenza di genere, sono solo alcuni dei fattori che aggravano la loro condizione – già estremamente precaria.
Partendo da qui, abbiamo ritenuto necessario utilizzare i dati raccolti relativi alle donne per sviluppare un secondo report “Unsafe Borderlands” (momentaneamente disponibile solo in inglese), finalizzato a spiegare in dettaglio le ulteriori avversità che le donne del campo sono costrette ad affrontare.
Lo scopo del report è sicuramente quello di arricchire il dibattito pubblico riguardo la condizione delle donne nel campo di Calais, ma più in generale riguardo i bisogni e i rischi quotidiani che le donne affrontano in situazioni di sfollamento.
Guardando più da vicino il problema del “gender gap” nella crisi dei rifugiati: perché delle donne profughe si parla così poco, nonostante rappresentino una parte importante della popolazione in movimento? Soprattutto, come si può intervenire sul problema dell’estrema penuria di dati disaggregati per genere e perché questo è tanto importante per formulare risposte realmente incisive alla crisi umanitaria?
Nel caso particolare di Calais, le donne rappresentano una piccola parte dell’intera popolazione del campo, per questo motivo la loro voce viene raramente ascoltata e sono spesso dimenticate dai media e nei dibattiti pubblici. Tuttavia se si guarda la demografia generale dei rifugiati in Europa, le donne rappresentano una grande porzione ma nonostante ciò vengono spesso dimenticate.
Oggi in Europa c’è infatti una grave mancanza di dati relativi alla violenza sulle donne e le bambine in contesti di sfollamento, nei quali si necessita protezione internazionale. Tale assenza di dati affidabili non solo contribuisce a sottovalutare il fenomeno di violenza di genere tra le donne e le bambine sfollate – ma allo stesso tempo impedisce lo sviluppo di risposte effettive e coordinate che affrontino le necessità delle vittime.
Il Refugee Right Data Project spera dunque di lanciare un nuovo studio interamente focalizzato sulle donne e le bambine, e i rischi di violenza sessuale e di genere che esistono nel contesti di sfollamento. Crediamo infatti che tali dati possano aiutare ad informare le politiche Europee, rafforzando la richiesta di politiche d’asilo sensibili alle tematiche di genere e di procedure che aiutino le donne e le bambine a godere dei propri diritti umani e sfuggire alla violenza di genere.
La mancanza di sicurezza e l’esposizione ad abusi e violenze
La mancanza di sicurezza e protezione è un problema cronico nel campo. Quali sono le cause principali di questa situazione, e quanto sono frequenti gli episodi di violenza nel campo?
La sicurezza è sicuramente uno dei problemi principali per i residenti del campo di Calais. Secondo il nostro sondaggio, la maggior parte delle persone che vive nel campo non si sente sicura: il 55% circa ha riferito di non sentirsi mai sicuro, mentre il 22% ha dichiarato di non sentirsi molto sicuro. Solo una piccola percentuale del 10% ci ha detto di sentirsi “abbastanza” o “molto” sicuro.
Le ragioni sono multiple. Prima di tutto, è importante sottolineare che le condizioni del campo sono estremamente malsane e precarie. Le persone temono d’ammalarsi, di perdere la propria abitazione e di essere vittime dei trafficanti. Ma la violenza e la mancanza di regole sembrano essere tra le cause principali.
Molti residenti temono la polizia francese, la quale per molti risulta essere estremamente violenta nei confronti delle persone nel campo. Il 75,9% ha subito violenza da parte della polizia durante la sua permanenza a Calais, e il 69,9% e’ stata vittima di attacchi con i gas lacrimogeni quotidianamente o più volte a settimana. Allo stesso modo, i rifugiati hanno paura delle violenza da parte dei cittadini (il 50,8% ha subito violenza da parte loro) e delle persone all’interno del campo, come trafficanti o a volte altri rifugiati. Abbiamo infatti riscontrato alcuni casi di scontri interni, principalmente causati dalle condizioni precarie e dalla disperazione dei rifugiati nel campo.
Si può dire che a questo problema siano particolarmente esposti bambini e donne?
Se tutti gli abitanti del campo sono esposti ad alti livelli di violenza, la situazione delle donne e bambini desta particolare preoccupazione.
Durante la nostra ricerca, c’erano circa 651 bambini che vivevano nel campo. Il nostro team ha intervistato circa il 18% dell’intera popolazione minorile – realizzando che la grande maggioranza di minori (quasi il 60%) vive nel campo senza adulti. Questo dato è particolarmente allarmante se consideriamo la mancanza di sicurezza nel campo. Il 61% dei minori intervistati ha infatti dichiarato di non sentirsi sicuro, per le stesse ragioni spiegate in precedenza: violenza da parte della polizia, violenza da parte dei cittadini, scontri tra rifugiati, ma anche le condizioni precarie e malsane del campo.
Analogamente, abbiamo avuto modo di capire che le donne sono altrettanto esposte ai problemi di sicurezza. Basandoci sul censimento fatto da Help Refugees in febbraio, tra i 5500 abitanti presenti 205 erano donne. Il nostro team RRDP ha intervistato circa il 13% di queste. Il 46% ha ammesso di non sentirsi mai al sicuro, mentre il 27% ha dichiarato di non sentirsi molto al sicuro. Ciò che è preoccupante è che il 42% delle donne intervistate ha riferito d’aver subito violenza all’interno del campo – una percentuale significativamente maggiore rispetto agli uomini (27%). La situazione diventa ancora più preoccupante se pensiamo alle donne incinte. Un’intervistata ha riportato di aver avuto un aborto causato degli effetti dannosi dell’esposizione ai gas lacrimogeni.
C’è poi anche una questione esterna, e cioè quella della violenza dei locali verso i profughi. Qual è la dimensione di questa problematica?
La violenza da parte dei cittadini è un altro serio problema, specialmente nel momento in cui i rifugiati lasciano il campo e vanno verso il centro città. Secondo il nostro sondaggio, quasi la metà degli intervistati ha dichiarato d’esser stato vittima della violenza da parte dei cittadini fin dall’arrivo nel campo. Questo dato risulta essere leggermente inferiore per quanto riguarda le donne, probabilmente meno solite lasciare il campo e andare nel centro città per questioni di sicurezza.
Il tipo di violenza cambia a seconda dei casi – ma è allarmante pensare che circa il 35% degli intervistati ha riferito d’aver subito violenza fisica. Allo stesso modo, circa il 30% ha parlato di abusi verbali, mentre una piccolissima percentuale ha riferito d’essere stata vittima di violenza sessuale.
Nella maggior parte dei casi, episodi di violenza si verificano al di fuori del campo, quando i rifugiati camminano verso il centro, vanno al supermercato e in generale lasciano il campo. Quando abbiamo chiesto di descrivere in modo più dettagliato i vari episodi di violenza, abbiamo ricevuto risposte varie.
Un gran numero di persone ha parlato di attacchi fatti con coltelli, pistole e cani particolarmente aggressivi. Altri hanno riferito d’essere stati colpiti da pugni, calci, bastoni o di essere stati investiti da macchine e buttati nel fiume. Dalle nostre interviste è inoltre emerso che è abbastanza frequente per i rifugiati essere colpiti da spazzatura buttata dalle macchine in corsa, o essere insultati.
Molti intervistati hanno riportato ossa rotte, ferite di vario genere e mutilazioni. Molti sono inoltre venuti a conoscenza di morti causate da cittadini non identificati.
Secondo quanto emerge dalle interviste, tali episodi di estrema violenza, in alcuni casi, sarebbero tollerati dalla polizia – come dimostrano le segnalazioni di mancato intervento di fronte ad abusi nei confronti dei rifugiati. È dunque evidente che i residenti del campo si sentano estremamente vulnerabili.
Infine, la questione più importante: il trattamento dei profughi da parte della polizia francese suscita serie preoccupazioni dal punto di vista dei diritti umani. Quanti riportano abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine?
Il trattamento dei rifugiati da parte della polizia è estremamente allarmante.
Dalla nostra indagine emerge che il 75% delle persone intervistate è stata vittima di violenza da parte della polizia. Tale violenza assume forme diverse – che spesso si verificano in parallelo.
L’uso indiscriminato di lacrimogeni è sicuramente la forma di violenza più frequente. Dalle testimonianze sembra evidente che i gas lacrimogeni non vengano utilizzati solamente per disperdere la folla, ma contro singoli individui. Quasi il 70% degli abitanti del campo è stato infatti esposto ai gas, con una frequenza diversa: il 20% circa risulta esserne vittima quotidianamente, il 42% più volte a settimana.
In parallelo, il 42% ha dichiarato di aver subito violenza fisica da parte della polizia. Numerosi episodi di violenza si verificano nel momento in cui i rifugiati provano ad attraversare il confine, quando si muovono verso il porto o la stazione dei treni. Secondo i diversi racconti, la polizia è solita usare gas lacrimogeni, proiettili di gomma, ma anche dei cani, per fermarli. Inoltre, molti hanno parlato della frequenza con la quale la polizia confisca o distrugge i telefoni cellulari – strumenti indispensabili per i rifugiati del campo.
Un 26% ha poi dichiarato d’aver subito violenza verbale, la quale probabilmente si accompagna ad altre forme di violenza. Secondo un ragazzo intervistato, per la polizia imprecare contro i rifugiati è una vera e proprio routine. Infine, abbiamo riportato alcuni casi di abusi sessuali – quasi il 3% degli intervistati.
Questi dati sono estremamente preoccupanti e dimostrano come i rifugiati siano sistematicamente sottoposti a violenza da parte della polizia, spesso sproporzionata e ingiustificata.
Gli standard di vita e la protezione dei minori
Quanto è grave la situazione nel campo relativamente alla garanzia di igiene, sanità e salute? Quali sono i problemi di salute più diffusi e che tipo di risposte viene fornito?
Nonostante gli intervistati riconoscano l’ottimo lavoro delle poche ONG presenti sul campo, le loro parole descrivono il campo come un posto malsano, privo di strutture adeguate ad accogliere un numero ingente di persone. In generale, le condizioni igienico-sanitarie sono estremamente povere. Inutile dire che un ambiente del genere non è adatto per nessuna persona, certamente non per i minori.
La mancanza di docce, servizi e acqua – soprattutto durante i mesi invernali – sono tra le cause principali della diffusione di malattie all’interno del campo. Come conferma uno dei residenti la situazione è drammatica: “Non c’è igiene e ci ammaliamo spesso”. I servizi igienici disponibili – vale a dire i bagni chimici – versano in condizioni particolarmente critiche: il 51% degli intervistati li ha descritti come “ molto sporchi”, mentre il 22,6% “ abbastanza sporchi”. La sporcizia diffusa attira, all’interno del campo, animali come ratti e insetti di vario tipo che contribuiscono alla diffusione di malattie. In totale, l’84,4% degli intervistati ha lamentato la presenza “di molti topi e insetti” che “invadono le dimore precarie degli ospiti del campo”.
Non stupisce quindi che il 76,7% dei profughi abbia notato un peggioramento delle proprie condizioni di salute durante il soggiorno a Calais. Secondo il 40,4%, ciò è dovuto alle “condizioni malsane” del campo, che mettono a repentaglio la salute e la sicurezza dei rifugiati: le persone vivono all’interno di tende dove anche accendere un fuoco è molto pericoloso.
Va inoltre rilevato che i problemi di salute mentale sono altrettanto diffusi: molti hanno dichiarato che la vita nel campo è “mentalmente e fisicamente estenuante”. Abbiamo registrato diverse dichiarazioni di rifugiati preoccupati per il loro “stato di salute” a causa delle squallide condizioni di vita in cui versano. Un numero cospicuo di intervistati ha risposto di soffrire di depressione e disturbi di ansia, compresi disturbi da stress post-traumatico (PTSD).
Nonostante la presenza di diverse strutture mediche nel campo gestite da organizzazioni di beneficienza e ONG, tra cui Medici senza Frontiere e Medici del Mondo, la mancanza di materiale medico e di personale specializzato non permette ai rifugiati di ricevere cure adeguate. Oltre alla barriera linguistica, i medici e i volontari di Calais devono fare i conti con risorse limitate che non permettono una distribuzione e prescrizione di medicinali consona alle esigenze. Tuttavia, gli abitanti del campo hanno espresso gratitudine per l’operato dei volontari e si sono dimostrati molto soddisfatti dell’operato di queste organizzazioni.
Guardando più da vicino la questione dei minori: quanti sono e da dove vengono? Quanti sono privi di accompagnatori, e quanti sarebbero idonei ai ricongiungimenti familiari? Quali sono le problematiche specifiche che caratterizzano questo gruppo (dalla carenza di sicurezza alla fame)?
I minori rappresentano il 14,4% degli intervistati, all’incirca 125 persone.
Spesso per questi ragazzi Calais è una scelta obbligata: molti scappano da Paesi in guerra per sfuggire a persecuzioni e violenze. Alcuni ragazzi intervistati hanno subito traumi emotivi molto forti, hanno assistito all’uccisione della loro famiglia e sono stati loro stessi vittime di minacce.
Vengono principalmente da Afghanistan (47%), Eritrea (16.8%), Sudan, Siria, Iran, Kuwait (Bedoun), Iraq, Pakistan, Kurdistan, Etiopia, Egitto, Libia, Palestina, Somalia, Tagikistan e Ciad.
Tuttavia, il campo non offre condizioni ideali per la sicurezza e la salute di questi bambini – in particolare di coloro che vivono senza la protezione degli adulti.
Basta uno sguardo veloce ai dati raccolti per capire le difficoltà che questi minori affrontano nel loro quotidiano. I tre quarti dei bambini intervistati non possiede un letto per sé, mentre il 60,7% ha riferito di vivere in abitazioni che si riempiono d’acqua ogni volta che piove. Inoltre, i bambini nel campo soffrono la fame. Soltanto il 70,5% ha accesso quotidiano al cibo, mentre il 73,8% ha affermato che la quantità di cibo che riceve, o che riesce a procurarsi, non è sufficiente.
Gli effetti della malnutrizione e delle precarie condizioni di vita sulla salute dei minori intervistati sono evidenti: circa il 74% dei minori intervistati ha riportato di aver avuto problemi di salute all’arrivo nel campo, causati “dall’ambiente poco salutare” o da malattie contratte durante il viaggio. Anche la salute mentale dei minori è a rischio a Calais: come gli adulti, molti minori hanno riferito di avere frequenti incubi e soffrire di ansia.
Ancora più preoccupanti sono le cifre che riguardano la sicurezza: il 61% dei minori ha affermato di non sentirsi mai al sicuro nel campo, contro il 53% degli adulti. Circa la metà dei bambini intervistati nel campo ha dichiarato di essere stato arrestato o detenuto dal suo arrivo a Calais. Gli intervistati hanno descritto le condizioni all’interno dei centri di detenzione come “estremamente dure”, raccontando di essere stati sottoposti a pratiche come digiuno forzato, sequestro dei beni, al taglio dei capelli. Purtroppo, la polizia non è l’unica a compiere atti di violenza nei confronti dei minori del campo di Calais: la violenza dei cittadini rappresenta una seria minaccia. Più della metà di minori intervistati, circa il 51,3%, ha riferito di essere stato esposto a violenza da parte dei cittadini; il 36,1% ha parlato di abusi fisici, mentre il 25,2% di abusi verbali.
Nonostante ciò la paura di rientrare al Paese d’origine è tale da fare escludere un potenziale ritorno: molti temono d’essere uccisi – principalmente per mano di gruppi armati come talebani o dei miliziani dell’ISIS. Altri temono di venir imprigionati dal governo corrotto del proprio paese, o di diventare vittime della polizia. Un bimbo ha confessato: “Non so se ritornerò vivo o morto dalla mia famiglia”. Per la maggior parte di loro il sogno rimane comunque il Regno Unito dove contano di riunirsi con i membri della propria famiglia: molte ONG stanno offrendo loro supporto legale per favorire il loro riconoscimento come rifugiati politici in virtù del regolamento di Dublino III.
Il futuro e il sogno dell’Inghilterra (anche dopo la Brexit)
Quasi tutti i rispondenti hanno dichiarato di avere come obiettivo il raggiungimento dell’Inghilterra. Per quali motivi queste persone sono così determinate a provare a raggiungere il Regno Unito?
La forte determinazione che spinge gli intervistati a rischiare la vita pur di raggiungere il Regno Unito è per lo più (per il 40%) motivata dalla volontà di ricongiungersi con parenti o familiari che già risiedono sul suolo britannico. Inoltre il 14% ha affermato di voler raggiungere il Regno Unito poiché le leggi britanniche relative al diritto d’asilo sono più favorevoli rispetto a quelle francesi. Molti intervistati hanno confessato ai ricercatori di temere che la loro domanda d’asilo possa essere rigettata dalle autorità francesi. I dati sono in linea con queste dichiarazioni tanto che solo il 6,23% dei rispondenti ha fatto domanda d’asilo in Francia, mentre il 9,27% ha avviato le pratiche in un altro Paese. Infine dalle interviste è emersa anche la questione linguistica: il 23% degli intervistati ha invece riferito di voler trovare rifugio nel Regno Unito perché parla inglese.
Qual è la percezione delle autorità europee e locali tra i profughi?
In generale gli intervistati hanno dichiarato di temere le autorità locali e di non sentirsi protetti o tutelati dalla loro presenza. Come evidenziato nei passaggi precedenti, molti dei rispondenti hanno denunciato le misure violente utilizzare dalla polizia, all’interno e all’esterno del campo, dove è stato fatto largo uso di gas lacrimogeni contro i residenti. La polizia locale sembra essere temuta e considerata dai rifugiati come una potenziale minaccia piuttosto che come una tutela.
Le autorità francesi ed europee invece sono percepite come entità distanti e generalmente poco propense a accogliere e integrare i rifugiati. Ciò è spesso dovuto alle poche informazioni a disposizione dei residenti a Calais: il 74,3% dei rispondenti ha riferito di non aver alcuna informazione riguardo alle leggi europee relative all’immigrazione e il 79,3% ha confermato di non avere accesso a consulenze legali riguardo ai propri diritti e alle opportunità per cambiare la propria situazione.
A ciò vanno aggiunte le frequenti minacce del governo francese – recentemente concretizzatesi- di smantellamento del campo. A tal proposito, un vasto numero di intervistati aveva dichiarato ai ricercatori di non sentirsi al sicuro perché il campo è a rischio di demolizione da parte delle autorità francesi. “C’è un reale rischio di sfratto e noi non sappiamo dove andare”, ha confermato un uomo intervistato.
È successivo alla conclusione del vostro studio il referendum con il quale il Regno Unito ha deciso di uscire dall’Unione Europea. Pensate che questo avrà conseguenze sulle aspettative e speranze dei profughi di Calais, o l’Inghilterra continuerà a restare la terra promessa? Quanto è diffusa nel campo l’idea che l’uscita del Regno Unito dalla UE porterà anche a una rottura dell’accordo di Touquet, rendendo così più facile il passaggio della frontiera per i migranti?
Sebbene nessuno possa pronunciarsi con certezza sull’impatto che la Brexit avrà sulla politica estera britannica e in particolare sull’accordo di Touquet, molti degli intervistati hanno espresso preoccupazione per il loro futuro.
Voci relative al possibile spostamento del campo a Dover, nel caso in cui la Francia decidesse di uscire da Touquet e aprire il confine, hanno acceso nuove (false) speranze tra i rifugiati. In generale, la mancanza di notizie certe alimenta il sentimento di incertezza e di confusione tra i rifugiati.
A tal proposito RRDP ha recentemento intrapreso un nuovo progetto di raccolta dati che mira a comprendere la percezione che i rifugiati hanno della Brexit e di come questa possa modificare la loro condizione attuale e le loro prospettive future.
IMMAGINE DI COPERTINA: Malachybrowne / Flickr Creative Commons.