Quanto accaduto a febbraio 2020, mentre il mondo lentamente scivolava in una pandemia che non è ancora finita, ha per certi versi segnato un prima e un dopo sul confine turco – greco, la prima stazione del calvario noto come Rotta Balcanica.
Come noto, con l’indifferenza complicità – nella migliore delle ipotesi – delle autorità turche, quando non proprio con l’incentivo delle stesse, decine di migliaia di persone furono incoraggiate a mettere pressione sui confini con la Grecia dalla Turchia.
La reazione delle autorità greche, ampiamente sostenute da quelle dell’Unione europea, fu feroce, supportata anche da frange estreme della destra xenofobalocale che arrivò a recarsi sulle isole per affrontare – anche fisicamente – migranti e ong in loco.
Da quel momento a oggi, complice la pandemia stessa e con il finanziamento di altri otto miliardi di euro che l’Ue ha garantito al governo di Erdogan a giugno 2021, la rotta ha subito un calo numerico.
Come sempre accade con la geografia delle migrazioni, però, le rotte non svaniscono, ma si ridisegnano, seguendo una geopolitica alternativa a quella dei governi e dei meccanismi di traffico e del business della sorveglianza.
Da tempo, ormai, con sempre maggiori conferme, si parla di ‘rotta calabrese’, l’ennesimo salto di qualità della più generale rotta balcanica: il viaggio diretto dalle coste turche alla Calabria.
A metà novembre scorso, uno sbarco di circa 500 persone in pochi giorni ha attirato l’attenzione dei media sul fenomeno, ma sono molti i piccoli sbarchi che non rientrano nelle statistiche.
È difficile stabilire un nesso di causalità tra la riduzione degli attraversamenti in Grecia – legati anche a una politica di respingimenti illegali che caratterizza l’approccio al tema del governo di destra attualmente al potere ad Atene – e i tentativi più pericolosi lungo altre rotte.
Le informazioni che si diffondono nella comunità di migranti sono sempre più chiare: la rotta orientale è chiusa, si patisce per mesi l’inferno della Bosnia-Erzegovina, non si passa tra le manganellate della polizia croata. E allora si prova altrove.
Questo processo aumenta i costi e i rischi delle traversate. Alcune persone chiamano queste traversate biglietti di “prima classe”, poiché le navi più comuni su cui si spostano i migranti sono le barche a vela. Sebbene sia vero che solo le persone con più risorse tendono a potersi permettere questo tipo di viaggio, con un biglietto per adulti che costa quasi 10mila dollari e 4.500 dollari per i bambini, sono tutt’altro che viaggi tranquilli.
In media possono essere fino a 100 le persone stipate sottocoperta per giorni e giorni con scorte alimentari limitate per ammortizzare i pericoli di un viaggio più lungo e con più rischi per i trafficanti. Sono stati segnalati molti casi di disidratazione, con passeggeri che hanno affermato che dopo un paio di giorni avrebbero dovuto bere acqua di mare mescolata con zucchero. Un migrante in fuga dal governo talebano in Afghanistan ha recentemente dichiarato all’Associated Press che “è stata la peggiore esperienza della mia vita“.
Eppure, oltre al rischio e al costo, questo genere di viaggi nella percezione pubblica sono la prova di una sorta di ‘turismo della migrazione’, legata all’immaginario delle barche a vela, nel deserto della narrazione sul tema dei media mainstream che invece non sottolinea come la scelta cada su questo genere di barche perché meno soggette a controlli in alto mare.
Secondo i dati più aggiornati, gli afgani sono tra coloro che utilizzano maggiormente questa particolare rotta marittima verso l’Europa, insieme a iracheni, iraniani e curdi. Per quanto riguarda la nazionalità dei trafficanti, Giovanni Bombardieri, procuratore capo di Reggio Calabria, ha affermato in recenti interviste che al timone di queste barche ci sono spesso cittadini ucraini, pagati per portare la nave in Italia e darsi alla fuga su moto d’acqua prima di attraccare.
Proprio la procura del capoluogo calabrese ha arrestato diversi presunti trafficanti, che però lo stesso procuratore Bombardieri ha definito ”piccoli ingranaggi” di un meccanismo che cresce in modo esponenziale, mostrando una rete più importante del singolo sbarco.
Un legame sul quale lavorare, ad esempio, come gli stessi inquirenti hanno lasciato intendere, è quello tra la criminalità organizzata turca e quella italiana, in Calabria in particolare, alla quale gli omologhi turchi si sarebbero rivolti una volta tramontata la rotta verso la Grecia che da anni garantisce lucrosi guadagni sulla pelle dei disperati della rotta balcanica.
I numeri sono quelli, per ora, che ha fornito l’Unhcr: il numero complessivo di arrivi via mare in Italia nel 2021 è salito fino a 59mila persone, rispetto ai 32mila dell’anno precedente. In particolare, la rotta calabrese ha registrato 9.687 arrivi rispetto ai 2.507 dell’intero 2020. Con un numero importante di nuclei familiari rispetto ai viaggiatori singoli.
La Calabria, al momento, sembra il territorio più interessato dal fenomeno, anche per i già sottolineati rapporti tra i trafficanti turchi e la criminalità organizzata locale, ma anche i porti di Bari e Ancona – con rare ma crescenti partenze dall’Albania – hanno registrato un aumento degli arrivi via mare.
A queste cifre, un singolo viaggio potrebbe fruttare ai trafficanti quasi 1 milione di dollari: un profitto notevole, che potrebbe spingere a incrementare questo tipo di viaggi, contando sul fatto che anche gli indecisi potrebbero essere spinti a farlo dalla chiusura della rotta balcanica classica.
E che potrebbe diventare interessante anche per i trafficanti dalla Libia.
Insomma il processo è sempre identico: la geografia delle rotte migratorie si adegua al clima politico e normativo dell’Ue, che rende le rotte sempre più costose e più letali, mentre si continua a investire in sistemi di sicurezza sempre più sofisticati e costosi e in zone d’esclusione dei diritti dove imprigionare migranti e rifugiati, facendo le fortune delle mafie.
In copertina: fermo immagine tratto dal video di AP: “Sailboats packed with migrants seek Italy in latest tactic“.