“È iniziato tutto quando avevo dodici anni. Stavo guardando la tv, a un certo punto ho visto una partita di calcio. L’ho guardata fino alla fine, mi sono appassionata, così ho deciso di provare. E ho scoperto che mi piaceva: giocavo con le amiche fuori casa, in poco tempo è diventata una vera passione. Sono arrivati la squadra e i primi successi. Ora però in Afghanistan non è più possibile giocare e per noi era rischioso restare”. Leila (nome di fantasia) è una delle giocatrici del Bastan football club, la squadra femminile di Herat. 19 anni, gli occhi scuri, indossa la divisa rossa e bianca del suo club, mentre con voce ferma racconta per la prima volta la fuga dal suo Paese, dopo il ritorno dei talebani. Il pensiero – spiega – è sempre fisso ai familiari e alle altre compagne di squadra che non sono ancora riuscite a partire. Alcune sono costrette a cambiare casa ogni giorno perché “i talebani le vanno a cercare”.
Leila, invece ce l’ha fatta. Insieme ad altre due compagne e l’allenatore, è arrivata in Italia con un ponte aereo e ora è a Firenze, al sicuro. Il messaggio di aiuto che l’ha salvata lo ha lanciato la capitana della squadra, Susan, tramite Facebook al giornalista e scrittore, Stefano Liberti. “Hi sir, we are in trouble. Can you help us?” ha scritto la ragazza, facendo partire così una catena di solidarietà. Liberti, che aveva conosciuto le ragazze in Afghanistan nel 2016, mentre realizza un reportage per Internazionale sui progetti sostenuti dal Cospe, contatta l’organizzazione di Firenze e insieme pensano a una strategia per aiutarle. L’operazione non è semplice, vede coinvolti i ministeri di Difesa ed Esteri, i carabinieri del Tuscania e una rete di associazioni. Si attiva anche Mauro Berruto, ex commissario tecnico della nazionale di pallavolo e oggi esponente del Partito Democratico. Il caso viene segnalato, le ragazze della squadra vengono inserite nella lista delle persone da evacuare con urgenza. Ma la missione non è ancora compiuta: arrivare all’aeroporto è un percorso a ostacoli, con i taliban che ormai controllano le strade. “Il viaggio verso Kabul è stato molto pericoloso. È durato circa 24 ore – racconta l’allenatore del Bastan football club -. Se fossimo stati scoperti avremmo rischiato molto, abbiamo dunque viaggiato in modo che nessuno capisse che le ragazze erano le giocatrici di calcio. Non abbiamo dormito mai, eravamo tutti in apprensione. Poi quando pensavamo di essere quasi arrivati ci siamo trovati davanti a un fiume, che in realtà era una fogna, avevamo perso la speranza. Ma siamo poi riusciti a entrare nell’aeroporto. Era pieno di persone – spiega ancora. Tutti volevano imbarcarsi e passare, noi ci siamo riusciti grazie al nome in codice ‘Tuscania’. Quando siamo entrati nell’hangar ci siamo potuti finalmente rilassare, il peggio era passato”.
Una volta in Italia le tre giocatrici e l’allenatore sono state accolte inizialmente nelle tensostrutture attivate ad Avezzano dalla Croce Rossa per la quarantena dei profughi e la vaccinazione. Poi sono arrivate a Firenze, dove saranno inserite in un piano di accoglienza e integrazione. “Ora siamo finalmente tranquille, avevamo tanta paura dei talebani. Lo sport ci aiuterà ad andare avanti – sottolinea Susan -. La nostra speranza è quella di poter andare all’Università, continuare a fare sport e vivere felici e in sicurezza”. Intanto tra i primi annunci del nuovo governo provvisorio dei talebani c’è anche il divieto di praticare sport per le donne. Lo ha spiegato in un’intervista alla tv australiana Sbs, Ahmadullah Wasiq, uno dei responsabili della commissione cultura: “Non è necessario che lo facciano” ha detto, perché si potrebbero trovare in situazioni in cui “le loro facce e i loro corpi non siano coperti”, inoltre verrebbero diffuse “foto e video”. Per questo, dunque, “l’Islam e l’Emirato dell’Afghanistan non permettono alle donne di giocare a cricket o praticare sport in cui vengano esposte”.
“Ad Herat la situazione è sempre più molto difficile e pericolosa, soprattutto per le donne, non possono lavorare, girare liberamente, non vengono rispettati i loro diritti – continua Susan. Per motivi di sicurezza non aggiunge troppi particolari ma spiega anche che alcune delle loro famiglie non sono riuscite a partire. Ora la speranza è quella di un ricongiungimento familiare. “Abbiamo la tristezza nel cuore pensando che i nostri amici, le nostre compagne di squadra, i nostri parenti, sono ancora lì”.
Nella città toscana le ragazze saranno accolte in parte dall’Università europea di Firenze, dove frequenteranno i corsi e in parte dal Comune e dalla Caritas italiana, che sta lavorando di concerto con la prefettura per allargare la rete del Sai (Sistema di accoglienza e integrazione). Continueranno anche a fare sport. Dalla Fgic è arrivato anche l’invito ufficiale a Coverciano, dove sono attese nei prossimi giorni dalla nazionale femminile italiana e dalla capitana Sara Gama.
“Il 27 agosto scorso abbiamo vissuto un’emozione pazzesca, stentavamo a credere che fossero realmente arrivate in Italia – sottolinea la direttrice generale del Cospe Francesca Pieraccini. Quando abbiamo ricevuto il messaggio di aiuto, poco dopo la caduta di Kabul, ci siamo attivate subito con le nostre collaboratrici che dal 2008 lavorano in Afghanistan. È stato un lavoro di squadra incredibile. Abbiamo stilato una lista di 70 persone, di cui abbiamo raccolto tutti i dati per essere sicuri di portarli qui, è stata una corsa contro il tempo. Di quei 70 solo 42 sono arrivati. Sono tante le persone rimaste lì, che sono in pericolo, in questi giorni stiamo continuando a stilare le liste nella speranza che ci siano nuove evacuazioni. Il nostro lavoro non è finito, due sono le priorità: attivare nuovi corridoi umanitari e garantire accoglienza degna a chi è già arrivato. Anche per questo abbiamo attivato una raccolta fondi, finora abbiamo fatto tutto in maniera volontaria ma ora abbiamo bisogno di sostegno”.
Finora con le evacuazioni programmate sono arrivati in Italia circa 5000 profughi afghani. Una goccia nel mare rispetto al numero di persone effettivamente a rischio. Per questo il Tavolo Asilo e immigrazione, che racchiude le principali organizzazioni che in Italia si occupano della tutela di migranti e rifugiati, ha presentato un piano programmatico per garantire il diritto d’asilo alle persone in fuga. A partire da un ampio programma di ricollocamenti e trasferimenti, da attuare anche dai paesi di transito e dalla concessione di visti temporanei. E poi: la sospensione di qualsiasi decisione negativa (diniego, respingimento, rimpatrio) nei confronti degli afghani già presenti sul territorio dell’Ue, garantire assistenza e protezione umanitaria ai 39 milioni di afghani rimasti nel Paese, consentire l’accesso in sicurezza, con un particolare riguardo ai casi più vulnerabili. “L’Unione europea deve fare la sua parte, che non può essere affidarsi solo ai corridoi umanitari dei privati. Ci deve essere un’iniziativa degli Stati all’altezza della responsabilità dell’Ue” sottolinea Filippo Miraglia di Arci. Nello specifico, Miraglia ricorda la direttiva 55/2001 che prevede norme per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e offre la possibilità di attuare un piano di evacuazione concordato a livello europeo, con la ripartizione dell’accoglienza tra gli Stati, sulla base di criteri equi. Anche per Gianfranco Schiavone di Asgi “la richiesta politica più pressante deve essere quella di attuare la direttiva 55/2001. Questa assicurerebbe l’accesso dei profughi afghani nel territorio dell’Ue. È una fuga da un regime che vieta ogni libertà democratica -dice. Siamo di fronte a dei rifugiati a pieno titolo, ne va riconosciuto lo status. La direttiva serve proprio a questo. Inoltre è vincolante, quindi vale per tutti i Paesi, e il piano di distribuzione sarebbe ordinato”.
Intanto per affrontare l’emergenza è stato attivato un tavolo di coordinamento sull’Afghanistan presso il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Questo permetterà di avere una cabina di regia tra i ministeri di Difesa ed Esteri, le ong e gli altri soggetti istituzionali coinvolti. “Siamo riusciti a mettere in salvo solo il 25% delle persone a rischio che erano nelle nostre liste di evacuazione – afferma Silvia Stilli di Aoi (Associazione dello ong italiane). La questione è ancora aperta, ma non sappiamo se ci saranno nuovi ponti aerei. Oggi in Afghanistan non c’è più nessuna rappresentanza diplomatica, questo rende tutto più difficile, anche tanti operatori delle ong sono in pericolo. Come riusciremo a operare? Non lo sappiamo ma abbiamo il dovere di andare avanti e cercare di aiutare più persone possibile”.
In copertina: immagini della partita di calcio tra le soldatesse italiane e le calcatrici del Baston football club. Foto via Esercito Italiano.