I cittadini del Regno Unito hanno votato il 4 luglio 2024 per il rinnovo della Camera dei comuni, l’organo che costituisce il parlamento inglese insieme alla Camera dei pari. Dopo 14 anni di governo conservatore, il partito laburista ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi al parlamento. Le elezioni sono state le prime dopo il processo di uscita del Paese dall’Unione europea (Ue), conosciuto come Brexit. Il referendum, che a giugno del 2016 ha sancito la volontà popolare di uscire dall’Ue, ha innescato una serie di eventi politici che hanno portato al definitivo accordo di uscita, siglato a gennaio del 2020. Tra il referendum e la firma dell’accordo da parte del parlamento britannico, di fronte a una sfida di portata storica, si sono succeduti vari governi conservatori, incapaci di affrontarla. Il primo ministro sotto cui si è tenuto il referendum è stato David Cameron, che aveva vinto le elezioni generali a maggio 2015. Qualche giorno dopo la pubblicazione dei risultati del referendum, Cameron si è dimesso lasciando il posto a Theresa May, che nel frattempo aveva vinto le primarie. Quest’ultima ha indetto delle elezioni generali anticipate, tenutesi a giugno del 2017, dove il partito conservatore ha perso la maggioranza dei seggi al parlamento. A luglio 2019 May si è a sua volta dimessa ed è stata sostituita dal nuovo leader eletto dal partito, Boris Johnson. Diventato primo ministro, Johnson, nel gennaio 2020, ha ratificato l’accordo di uscita dall’Unione Europea.
Brexit e politiche migratorie
La crisi politica interna al Regno Unito è interconnessa a degli eventi avvenuti a molte migliaia di chilometri di distanza.
Nel 2011 il nord-Africa e l’Asia occidentale sono state attraversate da una serie di sollevazioni popolari definite come le primavere arabe. In molti Paesi, come la Tunisia, l’Egitto e la Libia, le proteste hanno portato al crollo di dittature decennali instauratesi nel periodo postcoloniale.
La fase rivoluzionaria è stata seguita ovunque da una repressione statale da parte delle classi dirigenti e militari. Di fronte a ciò le democrazie occidentali hanno reagito nel migliore dei casi con l’indifferenza, come in Siria. Nel peggiore con interventi militari diretti alla destabilizzazione dell’area, come in Libia.
Mentre le rivolte dei civili venivano represse nel sangue e nuove – e vecchie – élite restauravano il potere con la forza delle armi, sempre più persone sono fuggite all’estero. Alcune di loro hanno deciso di andare in Europa.
Gli Stati europei si sono concentrati allora sulla legittimazione dei nuovi apparati statali afroasiatici, col fine di impedire alle persone in fuga dai diversi Paesi di raggiungere il proprio territorio.
A questo fine, negli ultimi anni, sono stati firmati degli accordi internazionali. Tra questi rientra il memorandum Italia-Libia firmato nel febbraio del 2017 dall’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e redatto dall’allora ministro dell’interno democratico Marco Minniti. Oppure il più recente memorandum Ue-Tunisia, firmato a luglio del 2023 dalla presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, la presidente della Commissione europea Ursula Von del Leyen, il presidente dei Paesi Bassi Mark Rutte e il presidente della Tunisia Kais Saied.
Come ha scritto su queste pagine Oiza Q. Obasuyi, ci sono state delle inchieste internazionali che hanno provato il vero significato di questo tipo di accordi. Questi vengono definiti nel testo ufficiale come progetti di “cooperazione allo sviluppo”.
I memorandum prevedono dei finanziamenti da parte degli Stati europei per rifornire gli Stati africani dei mezzi materiali per il contrasto all’emigrazione verso l’Europa. Queste politiche rientrano in quella che è stata definita l’esternalizzazione delle frontiere europee.
Nonostante la chiusura dei confini molte persone sono arrivate – e arrivano – in Europa.
Se per alcuni Stati europei esternalizzare non basta
Nel luglio del 2015 Abd El Majed Mohammed Ibrahim, Mohamad Achrat, Houmed Moussa e Husham Osman Alzubair si trovavano a Calais, una città nel nord della Francia che si affaccia sul canale della Manica, lo stretto dove l’Oceano Atlantico incontra il Mare del Nord. Queste quattro persone, rispettivamente di 45, 23, 17 e 22 anni, sono arrivate da diversi Paesi dell’Africa e dell’Asia: Ibrahim e Alzubair dal Sudan, Achrat dal Pakistan e Moussa dall’Eritrea. Dopo un viaggio tra diversi continenti sono tutte morte attraversando l’Eurotunnel, un’infrastruttura completata nel 1994 per collegare la Francia e il Regno Unito.
Tra il 1 gennaio 1999 e il 1 gennaio 2024 sulla frontiera naturale e artificiale che separa il continente europeo dal Uk sono morte 391 persone.
Una volta arrivate nel cuore dell’Europa continentale per le persone provenienti da Africa e Asia anche attraversare i confini dell’area Schengen è pericoloso. Quest’ultima è quell’area dove ai cittadini europei è concesso circolare senza passaporto.
Esistono delle frontiere più pericolose di altre, come il confine alpino tra Italia e Francia o quello tra Serbia e Bosnia, e tra questa e la Croazia. La pericolosità degli spostamenti nell’area Schengen per questa categoria di viaggiatori è legata sia all’accordo europeo di gestione del sistema di asilo del 1 gennaio 2014, detto Dublino III, sia alla mancanza di un patto riguardante il meccanismo di ripartizione delle persone soccorse alla frontiera europea.
Nel Regno Unito la Brexit, l’implementazione delle politiche di sorveglianza lungo i confini nazionali, e la criminalizzazione delle persone vittime di razzismo sono connesse ai viaggi delle persone provenienti dal continente africano e asiatico. Queste ultime sono diventate l’oggetto prioritario delle politiche nazionali britanniche, tanto da condizionare elezioni e governi.
Migranti tra i discorsi dei politici conservatori britannici
Alla fine di quel mese letale per le persone in viaggio che cercavano di raggiungere il Uk, luglio 2015, l’allora primo ministro conservatore David Cameron si è espresso a proposito dei recenti eventi. In un’intervista rilasciata al notiziario del canale televisivo nazionale Itv ha definito queste ultime come «uno sciame che attraversa il Mediterraneo perché vuole venire nel Regno Unito». Lo stesso giorno, di fronte alle telecamere dell’emittente televisiva pubblica BBC, Cameron si è impegnato affinché il governo rafforzasse «la sicurezza al confine francese e a Calais», stabilizzasse «i Paesi di provenienza» e garantisse che fosse «meno facile per i migranti illegali vivere in Inghilterra».
A tal fine ha promesso che non avrebbero potuto «affittare una casa, guidare una macchina o avere un conto bancario» e che il governo avrebbe provveduto «a rimuovere più migranti illegali dal nostro Paese» così che le persone sapessero «che non è un rifugio sicuro».
La sua subentrante, Theresa May, tra gli anni 2010 e 2016 durante i quali ha ricoperto il ruolo di Home Secretary – ministra dell’interno – nei governi Cameron, ha emanato oltre sette leggi sull’immigrazione e apportato 45.000 modifiche alla relativa legislazione.
Il suo scopo: «creare, qui in Gran Bretagna, un ambiente davvero ostile per i migranti illegali». E così ha fatto.
L’altro suo obiettivo dichiarato si è rivelato invece essere palesemente irraggiungibile in quanto viziato da retorica populista: rendere il saldo migratorio inferiore alle «decine di migliaia» di persone. Questo, secondo i dati dell’osservatorio sulla migrazione dell’Università di Oxford, durante il suo governo da home secretary e prima ministra, non è mai sceso sotto il numero di 220.000.
Le politiche di May si sono tradotte nella deportazione di persone senza documenti verso Paesi non sicuri, come l’Afghanistan e lo Zimbawe. Spesso senza possibiltà di appello. Esse non hanno risparmiato né coloro che vivevano sul territorio britannico da numerosi anni né i cittadini di altri paesi Ue. Come segnalato da un rapporto del settembre 2020 del think tank Institute for Public Policy Research (Ippr), gli anni di governo di May hanno contribuito ad alimentare il razzismo e la discriminazione.
Dopo le dimissioni di May, Boris Johnson ha assunto la guida del partito conservatore ed è stato eletto primo ministro.
Johnson è solito tenere una rubrica sul quotidiano britannico The Telegraph. In un articolo del 5 agosto 2018, riguardante il divieto della Danimarca rivolto alle donne islamiche di coprirsi il volto nei luoghi pubblici, ha scritto: «se dici che sia strano e oppressivo pretendere che le donne si coprino il volto, allora sono d’accordo». Nella frase immediatamente successiva: «è assolutamente ridicolo che ci debbano essere persone che vanno in giro vestite come cassette postali».
Si tratta di frasi affette da islamofobia e dirette a strumentalizzare le paure delle persone nei confronti degli stranieri. Dopo la pubblicazione dell’articolo il Consiglio britannico dei musulmani (Mcb) ha accusato l’allora primo ministro di assecondare l’estrema destra.
Dopo la crisi del governo Johnson a luglio del 2022, il nuovo primo ministro Rishi Sunak ha tenuto il potere fino a luglio 2024. Una delle sue principali battaglie politiche è stata l’emanazione di una legge per la deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda.
Il Labour post-Brexit
Ad aprile 2020, qualche mese dopo che il parlamento britannico ha ratificato l’accordo di uscita dall’Ue, Keir Starmer ha preso il posto di Jeremy Corbyn alla guida del partito laburista.
Il Labour è uscito da un periodo di forte crisi interna, in seguito a una tempesta mediatica che accusava i suoi politici di antisemitismo. In seguito a queste accuse, nel 2016, 56 politici laburisti – deputati, consiglieri e membri del partito – sono stati sospesi dal loro incarico. L’allora leader Corbyn ha affidato all’attivista per i diritti umani e avvocata Shami Chakrabarty un’inchiesta indipendente sull’antisemitismo e altre forme di razzismo all’interno del Labour.
Nonostante l’inchiesta concluda che «il partito non è dominato da antisemitismo, islamofobia e altre forme di razzismo» e suggerisca «il ricorso a una più ampia gamma di sanzioni disciplinari oltre all’espulsione», il numero di queste ultime è aumentato in modo esponenziale.
Nel solo 2019 sono stati espulsi dal partito 45 membri, rispetto ai dieci del 2018 e a un’unica persona espulsa nel 2017. Da settembre di quell’anno sono stati espulsi il doppio dei membri dell’intero 2018. Nel 2019 i pannelli disciplinari del Comitato esecutivo nazionale (Nec) del Labour hanno valutato 274 casi di antisemitismo rispetto ai 28 del 2017.
Il Nec nel 2018 ha deciso di adottare come definizione di antisemitismo quella formulata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (Ihra). Quest’organizzazione ha forti legami con Israele, a partire dal suo attuale presidente Eric Pickles, che è anche presidente degli Amici conservatori di Israele alla Camera dei pari del Regno Unito. La definizione di antisemitismo dell’Ihra comincia così: «le manifestazioni [di antisemitismo] potrebbero includere il bersagliare lo Stato di Israele, che si intende come una comunità di ebraica».
È proprio sul tema di Israele che il nuovo leader laburista Starmer ha ricevuto le prime critiche.
A ottobre 2023, alla domanda della conduttrice radiofonica della stazione londinese LBC, Nick Ferrari, se fosse «appropriato un assedio, tagliando elettricità e acqua» a Gaza da parte di Israele, Starmer ha ripetuto che questo «ha il diritto di difendersi».
Labour e le politiche in materia di immigrazione
Dopo 14 anni di ininterrotto governo conservatore e la Brexit, sono tante le aspettative riversate sul Labour di Starmer.
Il primo ministro ha rilasciato le prime dichiarazioni proprio sul tema dell’immigrazione. Due giorni dopo le elezioni ha detto che il piano di deportazione dei richiedenti asilo in Rwanda è «morto e sepolto». Eppure le proposte avanzate dal Labour durante la sua campagna elettorale sembrano andare nella stessa direzione.
L’attuale home secretary Yvette Cooper in un video elettorale fatto a Tamworth, una città al centro del Regno Unito, si è impegnata a chiudere gli hotel dove vengono accolte le persone richiedenti asilo e ad aumentare il numero dei rimpatri e dei funzionari della guardia di frontiera inglese.
In un articolo del 20 luglio sulla testata britannica The Sun, già assunta la carica di governo, Cooper ha scritto che il team di 1000 dipendenti pubblici che si è occupato del cassato progetto di deportazione in Ruanda verrà rimpiegato per lavorare sulla pianificazione di «raid» diretti verso le stazioni di autolavaggio o i centri di bellezza dove sono assunti lavoratori irregolari, allo scopo di «rimuoverli velocemente» dallo Stato.
I riot razzisti e islamofobi e le responsabilità politiche
Le promesse e le previsioni della home secretary Cooper si sono realizzate. Ma non come le aveva previste.
Le prime due settimane di agosto in tutto il Paese ci sono stati dei raid diretti alle strutture del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, di cui alcune sono state distrutte. Gruppi di uomini bianchi hanno attaccato in massa i centri di accoglienza, le moschee e diversi cittadini inglesi in almeno 30 città – tra cui Southport, Liverpool, Manchester, Belfast, Leeds e Tamworth, la stessa città dove Cooper ha promesso di chiudere gli hotel – al grido di “rivogliamo indietro il nostro Paese”.
Chi ha assaltato le strutture di accoglienza ha mirato ai suoi abitanti. Allo stesso modo, gli aggressori diretti alle moschee hanno minacciato i fedeli riunitisi per pregare.
Nei giorni precedenti gli attacchi sui social network si era diffusa la fake news che il responsabile di un omicidio commesso a Southport fosse un migrante musulmano. Le autorità britanniche hanno dovuto rivelare l’identità del colpevole – un minorenne cristiano nato nel Regno Unito – per evitare il peggio.
Due giorni prima dell’omicidio di Southport il fondatore del movimento neofascista English defense league (Edl), Tommy Robinson, aveva organizzato una marcia di protesta contro il trans pride di Londra. Quel giorno del 27 luglio, 15.000 fascisti sono scesi per le strade della capitale – molti ma relativamente pochi rispetto a quello che è stato definito come il trans pride più partecipato di sempre.
Lo stesso gruppo di fascisti ha preso parte alle rivolte che le settimane seguenti hanno colpito le strade delle città inglesi. Dallo scoppio delle violenze le autorità hanno arrestato circa 1217 persone. Le azioni di strada sono state violente. In più di un caso è stata messa in pericolo la vita di civili e di funzionari pubblici.
Il 4 agosto una folla ha assaltato l’hotel Holiday Inn Express, in un villaggio a nord di Rotherham, al centro del Regno Unito. I riottosi hanno dato fuoco a una scala antincendio, mentre all’interno dell’edificio si trovavano circa 250 persone con lo status di rifugiato politico.
Le accuse per gli arresti sono varie: disordine violento, sommossa, incendio doloso, attacco a pubblico ufficiale, tentata lesione aggravata a un pubblico ufficiale, lancio di molotov, esplosione che può mettere in pericolo la vita o causare lesioni gravi, e molestie aggravate da motivi razziali.
Mentre veniva dato fuoco a negozi e macchine di minoranze etniche, la folla ha continuato a urlare insulti razzisti, come “chi cazzo è Allah”.
I tribunali inglesi hanno accelerato i processi allo scopo di creare un deterrente rispetto a ulteriori violenze. Tra le condanne esemplari, la prima è stata per un ragazzino di soli 15 anni, accusato di sommossa.
Il tribunale di Manchester ha condannato un uomo di nome Joseph Ley a tre anni e due mesi di carcere per aver preso a pugni e calci in faccia una persona. Dai video si sente il criminale dire: «Hai dei problemi con noi inglesi, bro?». La folla di uomini bianchi intorno a lui gridava di ucciderlo e di colpirlo in faccia. A casa di Ley è stata trova un’arma contundente.
Il governo laburista ha condannato le rivolte razziste e islamofobe. Ma le politiche economiche, sociali e culturali di cui ha bisogno il Regno Unito post-Brexit per uscire dalla spirale di violenza non sono quelle solite (non dirette all’integrazione), in materia di migrazioni, finora pubblicizzate dal primo ministro Starmer e la home secretary Yvette Cooper.
Foto di copertina: Dagomir Oniwenko via Flicrk (Licenza CC BY-NC-SA 2.0)