Per Ismael Mohammed, il 26 marzo del 2003 è una seconda data di nascita. In quel giorno di quindici anni fa toccò per la prima volta il suolo italiano, dopo cinque giorni di navigazione su un barcone partito dalla Libia con altre 58 persone a bordo. Un guasto al motore gli aveva fatto temere il peggio. Poi, dopo ore di preghiere, una luce dall’alto dell’elicottero della Croce Rossa e una nave della Guardia costiera all’orizzonte lo avevano rassicurato che non sarebbe morto.
“Per me arrivare in Italia è stato come rinascere. Scappavo da un paese in cui una guerra stava mettendo uomini contro altri uomini e non ero disposto ad uccidere i miei fratelli. Qui ho capito che potevo rifarmi una vita”, racconta seduto sul ciglio di questa strada nella periferia est di Roma: via di Scorticabove. Per anni luogo simbolo della comunità del Darfur, oggi emblema di un nuovo sgombero senza alternative per i rifugiati della capitale, un anno dopo la violenta evacuazione di piazza Indipendenza.
Il 5 luglio intorno alle 8 del mattino le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nell’immobile al civico 151, dove da 13 anni vivevano 120 uomini sudanesi, provenienti dal Darfur, tutti rifugiati o titolari di protezione sussidiaria, alcuni con cittadinanza italiana. La cooperativa che ha gestito il centro fino al 2015, la Casa della solidarietà (coinvolta nell’inchiesta Mafia capitale) risultava infatti morosa, e la proprietà aveva chiesto più volte che lo sfratto fosse reso esecutivo. Al momento dello sgombero era presente solo una parte dei residenti, circa una cinquantina.
Molti infatti sono nelle campagne del sud Italia a lavorare come braccianti stagionali. “Non ci hanno avvisato”, spiega Ismael, 48 anni, tra i più anziani della comunità. “Ci hanno solo detto di prendere le cose e uscire, uscire da questa che è la nostra casa. Qui abbiamo la residenza”.
Una storia nota a tutti
La storia di via Scorticabove è nota da anni e nasce sulle ceneri di un altro sgombero, quello dell’ex hotel Africa, un immobile occupato all’inizio degli anni Duemila nella zona della stazione Tiburtina. Lì vivevano circa 800 tra migranti e richiedenti asilo di diverse nazionalità, che si ritrovarono da un giorno all’altro senza un tetto. “Abbiamo chiesto subito al sindaco di allora, Walter Veltroni, un posto dove stare. Al termine di una manifestazione a piazza Indipendenza il sindaco decise di incontrarci”, continua Ismael mostrandomi la foto di Veltroni che conserva ancora sul suo cellulare. “Quando gli abbiamo raccontato la nostra storia e cosa succedeva in Darfur si è convinto ad aiutarci. Per noi l’importante era stare tutti insieme. E allora siamo venuti qui, chiedendo fin dall’inizio la possibilità di autogestirci. Ci dissero che non era possibile, perché dovevamo costituirci in associazione e non avevamo i mezzi. E così il centro fu dato in gestione prima alla Casa della solidarietà”.
Ma la gestione da parte delle cooperative si rivelò da subito problematica, i rifugiati non sopportavano come venivano trattati dagli operatori e continuavano a rivendicare la loro autonomia. “Pur di autogestirci abbiamo chiesto di poter contribuire alle spese di affitto, ma ci avevano chiesto circa settemila euro al mese. Con i nostri lavori saltuari e stagionali era impossibile”, dice ancora Ismael, “così fino al 2015 siamo stati gestiti dalla Casa della solidarietà, poi quando sono iniziate le inchieste da un giorno all’altro non abbiamo visto più nessuno”.
Gli operatori sono spariti, i rifugiati no. Rimasti nello stabile hanno cominciato davvero ad autogestirsi con regole precise: si cucina per tutti, si mangia tutti insieme, le pulizie si fanno a turno, niente alcol in casa, niente luce e tv dopo la mezzanotte perché chi lavora possa riposare, chi lavora mette a disposizione una parte del suo stipendio per la gestione della casa. “Siamo una comunità: chi ha di più dà a chi ha meno, è la norma. Non tutti riescono a trovare un impiego, anche per ragioni di salute, per questo ci aiutiamo a vicenda. Chi guadagna qualcosa deve metterlo in condivisione, soprattutto per poter mantenere questo posto in maniera decorosa. Chi non lavora si occupa di più delle pulizie e della gestione generale. Dicono che eravamo in occupazione”, puntualizza Ismael, “ma non è vero, questo posto ce l’ha dato il Comune di Roma, siamo qui dal primo giorno, è la nostra casa. Tutti lo sapevano che eravamo qui e ora ci lasciano in mezzo alla strada da un giorno a un altro. All’assessora Baldassare l’ho detto chiaramente: avete fatto nascere un bambino e ora non sapete come farlo crescere, avete creato questa situazione e non sapete come risolverla”.
Per non lasciare quello che per anni è stato il loro punto di riferimento, dopo essere scappati da un conflitto che negli anni ha fatto 300 mila morti e più di due milioni di profughi, i rifugiati si sono accampati lungo la via, fuori dal cancello chiuso con un lucchetto. Le valigie sono tutte ammassate da una parte, i materassi, i cartoni e le brandine su cui sdraiarsi dall’altra. Negli ultimi giorni sono stati montati anche dei gazebo, donati dai cittadini, per ripararsi dal sole e da eventuali piogge. La decisione presa collegialmente alla fine di un’assemblea pubblica è quella di rimanere qui in segno di protesta, finché non ci sarà un’alternativa reale e stabile. A nulla è valsa la visita dell’assessora Laura Baldassarre la sera dello sgombero: come un anno fa a via Curtatone, i rifugiati hanno rifiutato di spostarsi nei centri di accoglienza temporanea extra Sprar del circuito cittadino.
“Siamo disposti ad andare da un’altra parte, ma se si tratta di un’alternativa reale, dove possiamo stare insieme”, spiega Issam, 40 anni, anche lui arrivato in Italia 13 anni fa. “Non siamo delinquenti, non abbiamo fatto nulla. Siamo rifugiati, tutti con i documenti in regola, nel quartiere ci conoscono, non abbiamo mai avuto problemi con nessuno in tredici anni”. Issam, come altri, ha provato anche a cercare fortuna in altri paesi. È stato prima in Inghilterra e poi in Germania, ma da qui, secondo il Regolamento di Dublino, è stato rimandato in Italia. “Sono sposato, ho due figli che vivono con la mamma nelle Marche, a Roma riesco a lavorare saltuariamente, per questo vivo qui insieme ai miei fratelli. E con loro voglio restare”.
L’immobile di via di Scorticabove si trova nella zona di Roma con la più alta densità di palazzi e strutture occupate da rifugiati e migranti. Basta fare dieci minuti a piedi per arrivare all’ex fabbrica della Penicillina, dove vivono almeno 600 persone di diverse nazionalità. A meno di un chilometro c’è lo stabile di via Vannina, da cui un anno fa furono sgomberati, in maniera violenta, un gruppo di richiedenti asilo. Secondo l’ultimo rapporto di Medici senza frontiere, “Fuori campo”, nella zona di Tiburtina e Tor Cervara “tra edifici abbandonati, ex fabbriche e capannoni, sono in centinaia tra migranti e rifugiati. Vivono senza acqua, luce e gas, in stabili spesso circondati da discariche abusive e infestati da ratti”. In questo contesto la sistemazione dei rifugiati sudanesi era un modello virtuoso di convivenza.
La reazione di Unhcr e del vescovo ausiliario di Roma sud
“Dov’è la nostra protezione internazionale?” c’è scritto sullo striscione che hanno appeso davanti al cancello d’entrata della loro ex casa. Lo stesso striscione che venerdì 6 luglio hanno portato sotto la sede romana dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Una delegazione è stata poi ricevuta dai funzionari dell’Unhcr, che hanno accettato la richiesta dei rifugiati di essere con loro nell’incontro con i responsabili del Comune di Roma, fissato per giovedì 12 luglio. Per la portavoce Carlotta Sami, “siamo nuovamente di fronte all’evidente ed enorme difficoltà di mettere in piedi un sistema efficace per l’inclusione sociale dei rifugiati che sono qui da moltissimi anni e che hanno gli stessi diritti dei cittadini italiani”. Secondo Sami il problema è l’accesso ad alcuni diritti, come quello alla casa. “Quella di via di Scorticabove, come quella di un anno fa a via Curtatone, era una situazione che si protraeva da anni e che tutti conoscevano. Ci si sarebbe aspettati una capacità di prevedere e organizzare la situazione in maniera migliore”, aggiunge. “Si tratta di rifugiati, alcuni con cittadinanza italiana, che lavorano, si poteva fare con loro un investimento diverso dal punto di vista dell’integrazione”.
In una nota ufficiale l’Unhcr ha chiesto al Comune di Roma “che vengano individuate con urgenza delle soluzioni per tutti coloro che ancora non hanno una sistemazione” e di mettere in campo “una strategia complessiva per migliaia di rifugiati che nella città di Roma dormono in palazzi occupati o in insediamenti informali”. L’accesso alla casa è uno dei punti del Piano nazionale per l’Integrazione annunciato un anno fa dal governo italiano e a cui oggi l’Alto commissariato Onu per i rifugiati chiede di dare “urgentemente attuazione, anche in concertazione con i rifugiati stessi”. L’Unhcr si è resa disponibile a cooperare attivamente per sostenere il lavoro della autorità.
Molto duro sulle modalità utilizzate nei confronti dei rifugiati sudanesi anche il vescovo ausiliario di Roma sud, Paolo Lojudice, che si è recato di persona a via di Scorticabove e poi ha incontrato i rifugiati nella basilica di San Giovanni in Laterano.“Purtroppo assistiamo a una situazione non nuova, ma questa volta mi sembra particolarmente fuori luogo l’azione messa in campo: si tratta di persone fragili che vivevano in una situazione pacifica di convivenza”, dice Lojudice. “Ma ancora una volta, invece di aprire un dialogo, un tavolo di confronto per cercare una soluzione, si agisce con la forza. Mi sembra che l’obiettivo sia più che altro dare un segnale forte, far vedere che si usa il pugno duro”.
Aboubakar Soumahoro, rappresentante del sindacato Usb, ha spiegato di aver chiesto diversi incontri al Comune di Roma negli ultimi due anni per affrontare la questione di via di Scorticabove, senza ottenere alcuna risposta. “Questa situazione dimostra che l’inserimento sociale in questa città è fallito”, dice, “c’è una latitanza della politica, che si rifiuta di mettere in campo soluzioni concrete”.
La solidarietà dei cittadini
A portare subito sostegno ai rifugiati in strada, diverse organizzazioni e associazioni: da A buon diritto ai Radicali, fino all’Arci Roma, Baobab experience, Alterego Fabbrica dei diritti, l’Unione sindacale di base Usb e Bpm (Blocchi precari metropolitani). Ma anche alcuni cittadini romani. La raccolta organizzata da Baobab experience sabato 7 luglio ha visto un via vai di persone portare beni di ogni genere. “Abbiamo stilato una lista di cose che servivano e l’abbiamo pubblicata sulla nostra pagina Facebook”, spiega Roberto Viviani, “è arrivata tantissima gente, molti con la maglietta rossa: abbiamo raccolto centinaia di scatole di tonno, pelati, pasta e anche molti vestiti. C’è stata una risposta straordinaria della popolazione che dimostra come ci sia la volontà di attivarsi in maniera concreta contro le campagne d’odio che si sono acuite negli ultimi mesi. È un segno di resistenza: se la nostra società diventa sempre più iniqua, ingiusta e inumana, non è certo per colpa di senzatetto, migranti e rom. I responsabili sono altri e le persone venute alla nostra raccolta lo sanno bene”.
Ogni sera la cena per i rifugiati che dormono in strada arriva dalle tante comunità straniere che vivono a Roma. “Oggi hanno cucinato per noi le donne africane di Casal Boccone. Domani ci portano la cena i fratelli dell’Hotel 4 stelle [storica occupazione di rifugiati in città]. La solidarietà non ci manca, sappiamo di non essere soli”, mi dice Adam mentre porge un piatto di riso basmati col pollo a una ragazza della Croce Rossa che è di turno sul posto. Poco distante, su un tappeto steso sul bordo estremo della strada, un gruppo di uomini sta finendo la preghiera. Due operatori della Sala operativa sociale del Comune di Roma passano per monitorare la situazione. “Siamo decisi a restare qui finché non avremo risposte reali”, mi dice un ragazzo mentre sistema con cura le lenzuola sul materasso per la notte. “Questa è la nostra resistenza pacifica, senza un impegno serio da qui non ce ne andiamo”.
In copertina: tre rifugiati sudanesi appena dopo lo sgombero di via di Scorticabove (fotografia di Eleonora Camilli, come tutte le immagini di questo articolo)