I Centri di Permanenza per Rimpatri (CPR) sono strutture di detenzione amministrativa presso cui vengono reclusi i cittadini non comunitari sprovvisti di un regolare permesso di soggiorno oppure già destinatari di un provvedimento di espulsione. Si tratta di luoghi in cui individui che non hanno commesso alcun reato, colpevoli soltanto di aver violato la disposizione amministrativa del possesso del permesso di soggiorno, vengono privati della libertà personale.
Malgrado le politiche migratorie siano al centro dell’azione dell’attuale esecutivo, impegnato quotidianamente a ridurre gli sbarchi e fermare i flussi di migranti, le strutture di detenzione amministrativa per migranti non rappresentano affatto una novità nel contesto italiano. Nel 1998, infatti, la Legge Turco-Napolitano istituì i Centri di Permanenza Temporanea (CPT), destinati alla permanenza di stranieri nei cui confronti non era stata possibile l’immediata esecuzione di provvedimenti di espulsione e/o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera. Il governo Berlusconi, con il decreto legge n. 92 del 2008 (c.d. “Pacchetto Sicurezza”), sostituì i CPT con i Centri di identificazione ed Espulsione (CIE), e alla fine del 2011 fu aumentato da 30 giorni a 18 mesi il periodo massimo di detenzione amministrativa all’interno dei centri (termine massimo successivamente ridotto a 90 giorni).
Un ulteriore cambio di denominazione – dai CIE si è passati ai Centri di Permanenza per Rimpatri – si registrò con il decreto Minniti-Orlando del 2017, mentre il recente “decreto Sicurezza” ha esteso fino a 180 giorni il termine di durata massima della misura restrittiva.
Le preoccupazioni destate dalla natura dell’istituto, volto a trattenere una persona al solo scopo di consentirne l’allontanamento, oltreché dalle condizioni di vita all’interno dei centri, sono crescenti e molteplici.
Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nella Relazione al Parlamento del 2019, ha evidenziato diverse criticità legate a tali strutture ed al loro funzionamento. Anzitutto, relativamente al recente “decreto Sicurezza”, ha sottolineato di come “la nuova norma riduca di fatto l’esclusività di tali Centri come luogo di privazione della libertà dilatando la possibilità di assolvere tale funzione anche in altri luoghi e per tempi più estesi”; la nuova normativa prevede, infatti, la predisposizione di strutture destinate al trattenimento ed al rimpatrio dei migranti irregolari in ogni regione italiana. Tra i locali adibiti al trattenimento dello straniero nella fase dell’espulsione, il decreto include anche gli uffici di frontiera, senza tuttavia aver effettuato alcuna valutazione circa l’idoneità delle strutture.
Inoltre, in seguito alle visite tematiche effettuate nel corso del 2018 dal Garante in quattro strutture (i CPR di Brindisi, Bari, Palazzo San Gervasio e Torino) sono stati segnalati alcuni punti critici concernenti la gestione e l’organizzazione dei Centri. Sono assenti, nella maggior parte dei casi, spazi comuni destinati al consumo dei pasti e ad attività ricreative e aggregative (gli ospiti trascorrono la maggior parte del tempo nelle camere da letto). Non sono assicurati spazi dedicati al culto, alla preghiera e ad attività di carattere religioso. Di frequente non vengono considerate le diverse posizioni giuridiche delle persone trattenute (in diversi casi non viene favorita la separazione tra i migranti provenienti dal circuito penale e coloro che si trovano soltanto in una posizione di irregolarità amministrativa o che sono richiedenti asilo), né si tiene conto delle differenti necessità individuali. I locali destinati all’isolamento sanitario all’interno dei centri non vengono sempre utilizzati a tale scopo: nel 2017, nel centro maschile di Brindisi-Restinco, una persona transessuale è stata collocata in una stanza adibita all’isolamento sanitario. (Delle violazioni nel CPR di Palazzo San Gervasio si era occupata anche la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili denunciandole in questo dossier)
Ulteriore preoccupazioni – frutto delle innovazioni introdotte dal “decreto Sicurezza” in materia di protezione internazionale – sono legate all’abolizione della protezione umanitaria ed alla tipizzazione di un numero ridotto di casi in cui può essere rilasciato un permesso di soggiorno. Conseguenza di tale novazione è l’aumento del numero degli irregolari, dunque delle persone potenzialmente trattenibili all’interno dei CPR.
Controversa risulta anche la questione attinente al prolungamento dei termini di durata massima del trattenimento dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio forzato. Se si considera che l’Italia ha stipulato accordi bilaterali per i rimpatri soltanto con quattro Paesi (Nigeria, Tunisia, Marocco ed Egitto), due soltanto dei quali – quelli con Nigeria e Tunisia – risultano effettivamente funzionanti, il pericolo è che la reclusione all’interno dei CPR possa non raggiungere lo scopo cui è prefissata.
In assenza di meccanismi, accordi e fondi sufficienti che consentano il rimpatrio dei migranti destinatari di un provvedimento di espulsione, la detenzione amministrativa, come sostenuto dal Garante, “si configura essenzialmente come uno strumento di deterrenza rispetto all’atto del migrare, attraverso la prospettazione di una potenziale aggiuntiva sofferenza individuale basata sulla privazione della libertà, così rischiando di configurarsi come trattamento inumano e degradante”.
A conferma di questo ragionamento ci sono i numeri. Nell’anno 2018, su un totale di 4092 individui transitati nei CPR, sono circa 1768 le persone effettivamente rimpatriate, cioè il 43,2%, meno della metà.
Nel dicembre del 2018 la Human Rights and Migration Law Clinic, in collaborazione con l’International University College di Torino, i Dipartimenti di Giurisprudenza dell’Università di Torino e l’Università del Piemonte Orientale di Alessandria, ha realizzato il rapporto “Uscita d’emergenza“, in cui si esamina la situazione della tutela della salute dei trattenuti all’interno del CPR di Torino.
Il quadro descritto è allarmante. La politica sanitaria all’interno del Centro è caratterizzata da un approccio informale, poiché non è previsto alcun tipo di preventiva valutazione tecnica circa la compatibilità tra lo stato di salute del migrante e la misura restrittiva. Né, ed è altrettanto grave, si garantisce la continuità terapeutica.
Emerge, inoltre, la non adeguatezza del numero del personale medico e del numero di ospiti all’interno della struttura torinese.
In ultimo, si è osservato come “la condizione di grave afflizione in cui versano molti dei detenuti, aggiunta alla concreta improbabilità di essere rilasciati dal Centro a seguito di un provvedimento giudiziario di non convalida o non proroga del trasferimento – ipotesi statisticamente inferiore al 5% dei casi nel CPR di Torino – esponga gli stranieri alla tentazione dell’autolesionismo, sacrificando il proprio benessere ed utilizzando il corpo come arma di negoziazione per la liberazione”.
Sullo stesso argomento: Le gravi criticità dei CPR denunciate dal Garante dei detenuti, Migranti: cresce l’utilizzo della privazione delle libertà.
Qui il Report “Uscita d’emergenza”
Foto di copertina: immagine tratta dal video “Turin CIE Report Chronicle of a Two Years Long Academic Research” realizzato da Manuel Coser, come tutte le altre immagini presenti nell’articolo