“La storia più bella che ho da raccontare è capitata nel giorno più brutto della mia vita.
Il 3 di ottobre [2013, il giorno del grande naufragio di migranti] è arrivato il peschereccio di un mio amico, che si chiama Domenico, che era riuscito a recuperare 17 ragazzi giovani vivi e anche quattro cadaveri. Perché Domenico, comandante di quella barca, è proprio un mio amico e abbiamo lavorato insieme quando facevo il pescatore. Anche io sono stato naufrago, e so bene cosa significa stare in mezzo al mare”, dice il dottor Pietro Bartolo.
“Domenico piangeva. Io sono salito a bordo. Qualcuno stava male, lo abbiamo portato subito al pronto soccorso, e poi mi sono dedicato ai morti. Domenico non li aveva lasciati in mare, era spaventato, era dispiaciuto, mi diceva ‘Pietro, non ne ho potuti prendere di più, non ce la facevo più’. Gli scivolavano [mentre provata a issarli a bordo] perché erano unti di benzina, li vedeva andare giù. Domenico per un anno non è andato più a mare, è stato in cura da noi.
“Nel frattempo i vigili del fuoco stavano mettendo le vittime dentro i sacchi e io, prima di chiudere, ho voluto controllare. I primi tre corpi erano in rigidità cadaverica perché erano morti da più di due ore. Il quarto invece era di una ragazza in ipotermia. Mentre parlavo con Domenico, come faccio normalmente ho preso il polso fra le mani. Mi è sembrato di sentire un battito, ma credevo fosse una mia impressione. Ho detto a Domenico di stare zitto un po’ perché lui piangeva, era disperato. Lui ha fatto silenzio e io ho sentito un altro flebile battito. Al pronto soccorso i medici l’hanno rianimata, dopo di che è stata ricoverata per più di un mese a Palermo. Si chiama Kebrat, e adesso vive in Svezia”.
Pietro Bartolo fa il medico a Lampedusa, dove si prende cura dei migranti che solcano il mare e approdano sull’isola, e questo è uno dei suoi ricordi più importanti, che non si stanca mai di raccontare. Diventato famoso per il film Fuocoammare di Gianfranco Rosi, e spinto dall’ostinazione della giornalista Lidia Tilotta, Bartolo ha deciso di mettere nero su bianco la sua esperienza. Il libro “Lacrime di sale” è uscito nel 2016 ed è stato da poco tradotto in inglese col titolo “Lampedusa: gateway to Europe”. Lo scorso 21 ottobre gli autori sono venuti a presentarlo al Festival della letteratura italiana a Londra.
L’incontro a Londra con Pietro Bartolo
È sabato mattina e a Londra piove un po’. Trovo Lidia Tilotta e Pietro Bartolo all’Istituto italiano di cultura in Belgrave Square, reduci da un incontro in cui si parlava del libro che hanno scritto insieme. Il medico di Lampedusa porta gli occhiali appesi al collo, si torce le mani, il volto abbronzato sembra una noce in cui di rado appare un sorriso. Ma quando apre bocca per raccontarmi della sua isola, la voce è calma e il discorso è quello persuasivo di chi è ormai abituato a parlare a un pubblico. Voglio sapere cosa lo ha spinto a fare il medico.
“All’inizio è stata una scelta di mio padre. Mio padre ha voluto che io studiassi, e per questo lo ringrazierò per tutta la vita. Lui mi ha dato la possibilità di andare fuori [dall’isola] a studiare, a 13 anni, ma sono stato io a scegliere medicina. Volevo tornare a Lampedusa a curare la mia gente. Da quando ero piccolo avevo visto tante cose brutte, non c’era assistenza sanitaria adeguata e spesso vedevo che quando la gente stava male doveva aspettare ore e ore e magari moriva. Certamente non era previsto che mi trovassi ad affrontare il fenomeno delle migrazioni.”
Gli chiedo come si sono accorti, a Lampedusa, che cominciavano ad arrivare persone migranti. “Quando nel 1991 è arrivato il primo sbarco, per noi è stata una novità”, racconta Bartolo, “non avevamo mai visto niente del genere. Il primo sbarco è stata una cosa… Erano tre ragazzi neri arrivati con una barchetta piccola che si erano rifugiati in un albergo in costruzione. La mattina sono arrivati i muratori, li hanno trovati che dormivano sul pavimento e hanno iniziato a dire che erano arrivati dei ‘turchi’. Poi ci sono stati altri sbarchi più consistenti – 10, 20, 30 persone. Fino a quando il fenomeno è diventato più importante e allora si è costruito il primo centro accoglienza e poi il secondo.
Sono 27 anni che accogliamo, ormai non è più un fatto emergenziale. Molti parlano ancora di emergenza, ma è un fatto strutturale e dobbiamo farcene una ragione”.
Dalle cure ai superstiti all’identificazione degli annegati
Qual è la tipica giornata di lavoro di Pietro Bartolo? “Sono il responsabile del presidio sanitario, quindi mi occupo della popolazione lampedusana ma anche dei turisti. Mi occupo dell’isola e poi anche dei migranti, a volte giorno e notte. Perché la maggior parte degli sbarchi avviene di notte. Sei costretto a stare ore in banchina, non per niente io la chiamo la mia seconda casa”.
“Oltre alla funzione di medico, abbiamo anche la funzione di assisterli come esseri umani. Non si tratta soltanto dell’aspetto sanitario: abbiamo fatto un giuramento, che si chiama giuramento di Ippocrate, e fa parte della nostra missione vedere l’altro come una persona e non come un malato. Io ho sempre cercato di farlo e lo pretendo da tutti quelli che sono là in banchina con me. E anche le ispezioni cadaveriche sono molto importanti, perché così dai a quel corpo un’identità, una dignità”.
Bartolo è la prima persona a salire a bordo per verificare che non ci siano malattie che possano destare preoccupazione sul territorio nazionale ed europeo. Nel frattempo nessuno può scendere, nemmeno l’equipaggio della nave militare che trasborda i migranti. In tutti questi anni, ci tiene a precisarlo, non ha mai riscontrato una malattia infettiva.
Gli chiedo che tipo di cure sono necessarie alle persone soccorse in mare. Le affezioni più comuni tra i naufraghi, dice, sono la disidratazione, l’ipotermia e le contusioni che subiscono al largo, ma anche le ferite da arma da fuoco o da taglio che si portano dietro da casa. Senza dimenticare i traumi psicologici, per i quali mancano i mezzi immediati. Bartolo racconta di aver osservato ultimamente una nuova patologia, che chiama “dei gommoni”. Consiste nelle bruciature di glutei e genitali provocate dalle perdite di benzina e colpisce prevalentemente le donne, che stanno sedute nella parte centrale del gommone circondate dagli uomini e generalmente arrivano in condizioni gravissime.
Partorire a Lampedusa
Quando una donna incinta entra in travaglio anche a causa dello stress provocato dal viaggio, non può essere assistita in maniera adeguata perché a Lampedusa non c’è una sala parto. Allora, spiega Bartolo, la cosa più bella che può succedere è quando si aiuta una donna a partorire.
“Succede, arrivano povere donne stremate. Ho avuto un’esperienza con una donna che era stata stipata nella stiva senza potersi muovere, aveva rotto le acque addirittura 48 ore prima. Non aveva più contrazioni, non aveva più la forza, non trovava spazio neanche per allargare le gambe. Quando l’abbiamo tirata fuori era quasi morta. Si doveva intervenire subito, non c’era il tempo neanche di portarla a Palermo con l’elicottero. C’era una grande sofferenza fetale. Ho dovuto fare un taglio che si chiama episiotomia per tirare fuori la bambina. Mi sono raccomandato alla Madonna, perché io, anche se non sono un buon cristiano, sono credente. E sia la mamma sia la bambina si sono salvate. Quando fai una cosa del genere, è bellissimo”.
Immagino faccia rabbia salvare vite destinate a perdersi nella burocrazia, gli dico. “Certo che ti fa rabbia”, dice lui, “quando andiamo in giro, parliamo, commuoviamo, convinciamo, e mi vengono a chiedere cosa possono fare per aiutare, io rispondo sempre che devono fare qualcosa nel resto del paese. Lampedusa è una porta sempre aperta, la porta d’Europa, l’ultimo lembo rivolto verso la Libia. Da noi entrano e passano, poi arrivano nella casa ed è lì che bisogna lavorare tanto per farli integrare con noi, perché sicuramente questo ci porterà a una crescita”.
E come si sente il dottor Bartolo quando come adesso si trova lontano dall’isola? “Telefono comunque, anche ieri notte ho chiamato la Capitaneria. Cerco di organizzare anche da lontano, certamente in quel momento vorrei essere là. Spesso mi ritrovo a parlare mentre la testa ce l’ho sempre là. Eppure è anche giusto e importante, credo, quello che stiamo facendo adesso con Lidia”.
Com’è nato “Lacrime di sale”
L’idea del libro è nata nel 2014, quando Lidia Tilotta si trovava a Lampedusa per l’anniversario della strage del 3 ottobre 2013, e aveva accennato al libro che le sarebbe piaciuto scrivere per raccontare “la Storia attraverso le storie”. Al poliambulatorio dell’isola era stata allestita una mostra con le foto scattate il giorno del naufragio. In quell’occasione Bartolo si era soffermato a parlare delle fotografie descrivendo quello che lui stesso aveva visto e provato un anno prima. I due hanno iniziato a collaborare soltanto due anni dopo, con l’uscita del film “Fuocoammare”.
“Non volevamo né fare un libro-intervista né usare una forma che suonasse retorica”, racconta Tilotta. “Alla fine abbiamo scelto un mix fra la sua storia in prima persona e quelle delle persone che sbarcano a Lampedusa”. Per scriverlo si sono incontrati qualche volta a Palermo, più spesso lui le mandava registrazioni su Whatsapp, che lei rielaborava e assemblava. Quando hanno riletto l’intero racconto, insieme alla moglie di Bartolo, sono scoppiati in un pianto liberatorio. “È stata un’operazione dolorosa, ma anche un po’ catartica”.
Gli attacchi alle Ong visti da chi salva persone a Lampedusa
Chiedo a Lidia Tilotta cosa si può fare per migliorare la narrazione sulle migrazioni.
“È un problema che come giornalisti ci siamo posti più volte, perché in Italia esiste la Carta di Roma, che nasce proprio per questo. Al netto di una parte dell’informazione che è artatamente fatta in malo modo perché risponde a determinate direttive, anche chi pensa di agire in modo neutro in realtà spesso commette degli errori. Abbiamo impiegato anni per convincere i nostri colleghi a non usare la parola “clandestino”. Devo dire che ci eravamo riusciti, salvo poi vederla rispuntare dopo l’accordo con la Libia. Sono problemi di cui dovrebbero occuparsi di più le associazioni di categoria, perché si tratta di doveri e la Carta di Roma è una carta deontologica a cui dobbiamo attenerci. Perciò dovrebbero esserci anche dei provvedimenti disciplinari quando non viene rispettata”.
Bartolo interviene: “andrebbe considerato reato di procurato allarme. Se stai dicendo una bugia perché ti serve creare il panico, devi essere smentito”.
Visto che di chi lavora a Lampedusa stiamo parlando dopo un’estate di attacchi alle Ong che operano in mare, chiedo a Bartolo cosa pensa di questa campagna d’odio. “Io delle Ong posso parlare soltanto bene, per me fanno cose straordinarie e vanno a colmare un vuoto lasciato dall’Europa”, dice. “L’Europa dovrebbe consentire che queste persone arrivino in sicurezza, non dovrebbe permettere che mettano neanche un piede in mare”.
Per la stampa il Mediterraneo è diventato sinonimo di cimitero, ma agli occhi degli abitanti di Lampedusa è cambiato qualcosa? “Il mare per noi è tutto, è ancora fonte di vita. Noi siamo un popolo di pescatori, e non lasciamo nessuno a mare. Io sono diventato medico grazie al mare. In tutti questi anni in quell’acqua hanno trovato la morte migliaia di persone, donne e bambini. E questo è vergognoso e inaccettabile. Di sbarchi ce ne sono continuamente e nessuno ne parla, magari in questo momento stanno morendo delle persone.
“Quello che sta succedendo nel nostro mare, io dico che è una mattanza. Sta succedendo il nuovo olocausto, ovviamente non nei numeri, ma è forse peggio perché quando 70 anni fa sono stati liberati i prigionieri dei campi di concentramento alcune nazioni non sapevano quello che stava succedendo. Oggi non abbiamo neanche questo alibi. È da 30 anni che lo sappiamo, le persone continuano a partire e continuano a morire. Addirittura ne muoiono di più”.
Più tardi, durante la presentazione ufficiale del libro, Bartolo torna a parlare del naufragio del 2013. Quel giorno, dopo il salvataggio di Kebrat, hanno continuato ad arrivare soltanto cadaveri. C’erano 111 sacchi, tutti messi in fila sotto il sole sul molo Favaloro. “Dovevo fare le ispezioni cadaveriche, dovevo aprire i sacchi e cominciare a fare tutto quel lavoro per arrivare all’identità. Ho visto tanti morti, tanti morti – 368 morti. Non 366, perché a volte sento dire che sono morte 366 persone. No, ne sono morti 368 e li ho visti tutti io, uno per uno. Per una volta i numeri sono importanti, sono due persone in più che hanno perso la vita. E questo è disumano”.
Da oltre un anno, Pietro Bartolo e Lidia Tilotta girano l’Italia e l’Europa per cercare di spiegare cosa succede a Lampedusa. “Vorrei far capire alle persone la verità, per cambiare la mentalità, per distruggere il muro mentale che ha costruito la cattiva informazione fatta da alcuni politici e giornalisti delinquenti”, conclude Bartolo. “Dovrebbero andare in galera perché non fanno altro che spaventare le persone e farle reagire nel modo che sappiamo. Ma le persone non sono cattive – sono cattivamente informate”.
In copertina: Pietro Bartolo al Centro italiano di cultura di Londra, ottobre 2017 (fotografia di Emanuela Barbiroglio come tutte le foto in questo articolo)