Trema con le foto della moglie e della figlia tra le mani. Mbengue Nyimbilo Crepin, marito di Fati Dosso e padre di Marie, è di fronte a Papa Francesco. Non regge all’emozione e, tra le lacrime, comincia a ripercorrere la sua storia. Le immense stanze vaticane che lo accolgono sembrano improvvisamente diventare minuscole, e lasciare spazio all’umanità del suo racconto.
“Il mio nome legale è Mbengue Nyimbilo Crepin, ma mi chiamano tutti Pato. Sono cattolico e originario del Camerun. È stato durante gli scontri tra i secessionisti e l’esercito che ho lasciato il mio paese, dopo che i terroristi hanno ucciso mia sorella maggiore e preso la mia casa”.
Da lì inizia l’odissea del viaggio, dal Camerun alla Nigeria, dalla Nigeria alla Libia, poi la Tunisia, il deserto e di nuovo la Libia. “A Qarabulli, in un campo di prigionia libico, ho conosciuto Fati Dosso, trentenne anche lei. Originaria della Costa d’Avorio, sarebbe diventata la madre della mia prima e unica figlia”. Era il giugno del 2016 quando i due si incontrano e si sposano, il 12 marzo 2017 nasce la piccola Marie. “Eravamo in attesa di partire per l’Europa, ci avevamo già provato quattro volte e per quattro volte eravamo stati respinti e riportati in Libia. In uno dei nostri tentativi – quando ancora non era nata Marie – Fati era incinta di un altro bambino e l’ha perso durante il respingimento in mare”. Per quattro volte Pato e Fati, mentre cercano di attraversare il Mediterraneo, incontrano la cosiddetta guardia costiera libica che li riporta indietro nei campi di detenzione. Prima Bani-Walid, dal luglio all’ agosto 2016. Poi Tarik al Sikka, dal novembre 2019 al febbraio 2020, insieme alla figlia di tre anni. Poi la prigione di Ghout-Al-shaal/Al-Mabani. Infine, nel 2021 vengono detenuti a Tariq al Matar.
Giovedì 13 luglio 2023 Pato e Fati decidono, con la piccola Marie, di fuggire dalla Libia e andare in Tunisia, nella speranza che lì la bambina possa frequentare la scuola. Il sogno europeo è ormai svanito e, dopo quattro tentativi di attraversare il Mediterraneo, anche i soldi per realizzarlo. “Volevamo solo far studiare Marie, degli amici ci avevano detto che lì anche noi neri potevamo mandare i figli a scuola. In Libia sarebbe stato impossibile”. Riescono ad arrivare a Ben Garden dove vengono fermati dalla polizia tunisina. “Era venerdì mattina quando poco dopo il confine con la Tunisia la polizia ci ha intercettati e, dopo averci picchiati, ci ha rimandati indietro nel deserto. Siamo rimasti lì tutto il giorno e la sera abbiamo riprovato ad entrare in Tunisia. Ci siamo riusciti. Sabato siamo arrivati a Zarzis. Ma mentre cercavamo dell’acqua la polizia ci ha trovati”. Da Zarzis Pato, Fati e Marie vengono rimandati di nuovo nel deserto. Dopo due giorni, spesi a camminare sotto il sole cocente di luglio senza cibo né acqua, per cercare di raggiungere il confine tunisino dalla Libia, ecco davanti a loro altri due giorni di cammino, questa volta per tornare indietro. Nessuna speranza di entrare in Tunisia. Dopo una notte di sofferenza e fame trascorsa nel deserto, le autorità tunisine li trasferiscono in un altro checkpoint. Vengono nuovamente maltrattati, soprattutto Pato. Domenica 16 luglio la polizia li trasporta nel deserto e li abbandona insieme ad altre trenta persone. È l’inizio della tragedia. Proprio nel giorno in cui la premier italiana Giorgia Meloni, in compagnia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trova a Tunisi per sbloccare l’accordo sui migranti, Pato, Fati e Marie vengono portati al macello. “Non avevo più le forze per continuare a camminare – racconta Pato con la morte negli occhi – mi sono accasciato e ho chiesto a mia moglie di proseguire con la bambina, senza di me. Con me, pensavo, non si sarebbero salvate”. Fati e Marie continuano il viaggio, mentre Pato da solo aspetta di morire. Durante la notte però, tre ragazzi sudanesi lo trovano lungo il proprio cammino, hanno dell’acqua e con quell’acqua Pato riprende forza. Ricomincia il suo viaggio verso la Libia, dove spera di ricongiungersi con la moglie e la bambina. Fati e Marie, però, non sono lì.
“Due giorni dopo ho visto questa foto nei social media – spiega Pato, mostrando la foto di Fati Dosso e della piccola Marie che giacciono morte abbracciate nel deserto – così ho capito che non sarebbero mai arrivate in Libia. Per un attimo mi sono detto che forse stavano solo dormendo, dormivano sempre abbracciate in quel modo, ma non era così”.
Una volta in Libia, Pato chiede all’UNHCR protezione e aiuto per raggiungere l’Europa. “Mi hanno detto che ci sarebbe voluto del tempo, che dovevo essere paziente”. Ma Pato non ha tempo. Ogni giorno è una lotta contro la morte. Vive per strada a Tripoli, senza soldi e senza una casa. Una cosa non lo lascia mai solo: il pensiero di ammazzarsi. È questo il periodo in cui Pato inizia a scrivere al Papa, nella speranza che, nonostante la negligenza dell’Unhcr e dei governi europei, qualcuno possa aiutarlo o anche solo incoraggiarlo.
È il 5 novembre 2023 quando decide che non può più aspettare. “Siamo partiti nella notte da Zuara, non c’era la guardia costiera, siamo passati tranquillamente, abbiamo speso in mare la notte e la mattina del giorno successivo. Nel pomeriggio del 6 novembre eravamo a Lampedusa”.
Pato adesso è in Italia da poco più di tre mesi, ma quando ha incontrato Bergoglio era appena arrivato. “Troppe persone sono morte dopo l’accordo con Saied. Troppe. Non solo mia moglie e mia figlia, quel giorno più di 20 persone hanno perso la vita abbandonate nel deserto. La storia di Fati e Marie è diventata famosa per quella foto, ma di tutte le persone che muoiono nel deserto non ne sa niente nessuno, probabilmente neanche le famiglie che aspettano ancora di avere notizie dei propri cari dall’Europa, che aspettano invano il loro ritorno. Nonostante ciò, non credo che l’immigrazione verrà mai fermata. L’unica soluzione per fermare le persone in movimento, secondo me, è rimuovere l’acqua dal mare”, continua Pato, “Si tratta di persone che non possono tornare indietro nel loro paese, non possiamo tornare indietro. Abbiamo solo questa possibilità, e continueremo a cercare la salvezza, anche se le politiche europee ci vogliono morti”.
Pato porge le lettere che ha scritto al Papa dalla Libia, sorride tra le lacrime, alza lo sguardo “io sono un pittore e adesso che sono qui in Italia il mio sogno è continuare la mia professione, sperimentare nuove tecniche e diventare famoso”. Sono minuti intensi quelli che Pato spende insieme a Bergoglio, minuti in cui la fede sembra assumere un senso anche agli occhi di chi non ha mai sofferto come lui la disperazione. In quelle grandissime stanze del Vaticano, la fragilità dell’essere umano e la sua solitudine incontrano la forza maestosa di chi ce l’ha fatta, di chi ha vinto nonostante tutto ed è arrivato alla fine del viaggio. Sono minuti che sembrano infiniti. Ma quando il Papa torna nelle sue stanze, diventa evidente la reale brevità di un incontro tra due mondi che in fondo, forse, non si incontrano mai. Fati e Marie tornano ad essere un ricordo stampato in quella foto un po’ sbiadita che Pato porta sempre con sé, e la sua storia è ancora il presente di tanti e tante che si trovano in Libia o in Tunisia con un unico sogno: l’Europa. Costi quel che costi.