Nel ventesimo anniversario dell’11 settembre, i Talebani governano l’Afghanistan, un Paese che, secondo Deborah Lyons, rappresentante del segretario generale dell’Onu, è sul rischio di un “cedimento totale” e in cui secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il 97 per cento della popolazione potrebbe finire sotto il livello di povertà.
I Talebani sono tornati al potere dopo una lunga resistenza alle truppe straniere e una rapida offensiva militare che, insieme a un’attenta strategia di accordi e cooptazione, tra il 14 e il 15 agosto li ha condotti a conquistare anche Kabul, la capitale del Paese. Celebrano la vittoria, ma i trentacinque milioni di abitanti non hanno molto da celebrare. Su di loro si sono riversati gli effetti di un avvenimento lontano, accaduto a New York, dove l’11 settembre del 2001 sono state colpite le Torri Gemelle, e a Washington, dove è stata colpita la sede del Pentagono. Responsabili non erano gli afghani e non lo erano i Talebani. Arrivati al potere nel 1996, hanno ereditato un ospite che era già nel Paese, al momento dell’instaurazione del loro Emirato islamico.
I rapporti con Osama bin Laden, spiegano i ricercatori più attenti, o le stesse autobiografie degli studenti coranici come quella dell’ex ambasciatore in Pakistan, non sono mai stati semplici. Ai Talebani, la cui matrice era legata alla cultura pashtun del sud dell’Afghanistan, non piaceva l’ambizione globale del rampollo della ricca famiglia saudita. Dissidi, discussioni e divisioni erano ordinarie, come d’altronde è sempre accaduto tra i jihadisti votati a colpire il “nemico lontano” e quelli con un’agenda locale, preoccupati del “nemico vicino”, in casa.
I rapporti sono diventati più complicati dopo l’11 settembre, quando la leadership del movimento dei turbanti neri si è divisa sull’eventualità di consegnare o meno lo sceicco saudita a Washington. Prevalse la linea del no, e prevalse il rifiuto da parte degli Stati Uniti di accogliere le controproposte dei Talebani: prima le prove, poi Bin Laden; un processo con le autorità e i giudici di tre governi islamici; l’impegno a rompere qualunque legame con al-Qaeda (lo stesso sottoscritto, con parole diverse, nell’accordo bilaterale firmato con gli Stati Uniti a Doha, il 29 febbraio 2020).
I Talebani – questa la posizione maggioritaria – non potevano consegnare Bin Laden: farlo avrebbe inficiato la loro pretesa di sovranità, la stessa che rivendicano oggi e che renderà particolarmente turbolenti le relazioni con la comunità internazionale. L’amministrazione Bush non poteva aspettare: serviva una prova muscolare. Quella che il governo degli Stati Uniti ha presentato come una “guerra giusta” è stata invece percepita come un’ingiusta rappresaglia dai Talebani e dalla gran parte della popolazione. “Avete sbagliato bersaglio”, hanno ripetuto in questi anni tanti afghani e afghane. La guerra andava condotta altrove. In Arabia saudita, da dove venivano molti degli organizzatori e degli esecutori degli attentati; in Pakistan, dove a lungo si è flirtato con i gruppi jihadisti. Dovunque. Ma non in Afghanistan, che nel 2001, al momento dell’intervento armato che avrebbe condotto al rovesciamento dell’Emirato islamico, scontava un forte isolamento internazionale, attraversava una gravissima siccità, preliminare alla carestia.
Oggi che i Talebani hanno formato un nuovo governo, composto da esponenti della vecchia guardia e da nuovi comandanti militari, per la popolazione il bilancio dell’intervento militare è drammatico. Sono tre gli aspetti più preoccupanti: la crisi umanitaria, l’economia in caduta libera, la spinta migratoria, interna ed esterna. A quest’ultimo aspetto dedicheremo però un altro articolo, tra pochi giorni.
Partiamo dalla crisi umanitaria, che precede la presa del potere dei Talebani. Non è dunque una conseguenza della loro avanzata, anche se potrebbe essere inclusa tra le premesse. Secondo i dati delle agenzie delle Nazioni Unite, 18,5 milioni di abitanti, circa metà della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Sette milioni di persone non ha alcun accesso ai servizi sanitari; 3,1 milioni di bambini sono a rischio di malnutrizione acuta; la seconda gravissima siccità in due anni è destinata ad aggravare i deficit alimentari, limitando l’accesso al cibo, già fortemente compromesso dalle conseguenze del Covid, che ha interrotto le catene di rifornimento di cibo, provenienti dai Paesi dell’Asia centrale.
Gli incontri di questi ultimi giorni tra la leadership dei Talebani e rappresentanti delle agenzie dell’Onu e con Peter Maurer, presidente del Comitato internazionale della Croce rossa, indicano che la comunità internazionale è consapevole del problema. Ma non è detto che ci sia la volontà politica, e la conseguente disponibilità finanziaria, per soddisfare tutti i bisogni del Paese. Non è un caso che Antonio Guterres, il segretario generale dell’Onu, di fronte all’afasia della comunità internazionale abbia convocato una conferenza dei donatori per il 13 settembre. Nella speranza che i Paesi donatori riconoscano la gravità della situazione e mettano mano al portafogli.
Non è detto che sia così: le agenzie delle Nazioni Unite già sono sotto-finanziate. I governi che hanno partecipato all’intervento militare in Afghanistan già hanno ridotto le donazioni. Molti saranno tentati di archiviare il dossier afghano. Qualcuno abdicherà alle proprie responsabilità con il pretesto che quello dei Talebani è un governo illegittimo, che non merita sostegno. Altri invece proveranno a trovare un modo – possibile – per sostenere la popolazione senza legittimare il nuovo Emirato.
Il sostegno è indispensabile. Senza, servizi fondamentali come istruzione e sanità collasserebbero. In una recente intervista, il ministro della Sanità afghana lo ha detto molto chiaramente. La dipendenza dall’esterno è una delle caratteristiche principali dell’economia afghana. Il Paese esce da molti anni di economia di guerra: un’economia artificiale, gonfiata e poi scoppiata come una bolla, in particolare dopo il 2014, quando si è conclusa la missione di combattimento Isaf, sostituita da Resolute Support, missione di addestramento alle forze afghane. La crescita reale del Pil, che nel 2021 era del 14,4% grazie alla bolla militare, nel 2015, quando la fase del progressivo ritiro era già cominciata, era scesa allo 0,8%.
Più in generale, l’intera macchina istituzionale, finanziaria e politica è dipesa dall’esterno. Quello afghano è uno Stato-rentier, che si regge su risorse esterne. Vale in particolare per l’economia, dipendente dagli aiuti internazionali. Nel corso del tempo, il presidente Ashraf Ghani, tecnocrate con un passato alla Banca mondiale, ha sempre sostenuto di essere l’uomo giusto per ridurre il deficit fiscale, ma non ne è stato capace. Nel 2016, nel corso di un’importante conferenza dei donatori, Ashraf Ghani e il quasi “primo ministro” Abdullah Abdullah, costretti a coabitare in un governo di unità nazionale, hanno presentato alla comunità internazionale l’Afghanistan National Peace and Development Framework. Un piano quinquennale con l’obiettivo di ridurre la dipendenza di Kabul dai donatori dal 75% del budget totale al 40%-50% nel 2020. Non ci sono riusciti. La dipendenza è ancora su quei livelli. E il Pil ancora in fase discendente.
Dal 2002 al 2020, la crescita media del Prodotto interno lordo è stata del 6 per cento. Ora, con gli eserciti tornati a casa e i Talebani al potere, le cose cambiano di nuovo. Fitch Solutions, branca della compagnia internazionale di valutazione del credito, prevede che il Pil si ridurrà del 9,7 per cento nel corso dell’anno finanziario in corso, con un’ulteriore riduzione del 5,2 il prossimo anno. La crescita potrebbe essere del 2,2 per cento dal 2023 al 2030 nello scenario più ottimistico, che passa però per ipotesi tutte da verificare: riconoscimento del governo talebano da parte di Mosca e Pechino e forti investimenti nel Paese.
In attesa degli investimenti, il Paese spera negli aiuti. Le ultime promesse fatte dalla comunità internazionale risalgono al novembre 2020, tutta un’altra stagione politica, per l’Afghanistan. All’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, c’era Ashraf Ghani, il presidente fuggito il 15 agosto. I Talebani tenevano in piedi, almeno formalmente, il negoziato intra-afghano, iniziato due mesi prima a Doha. A Ginevra, nella conferenza ministeriale di fine novembre 2020 i donatori hanno promesso nuovi aiuti, ma più condizionati e ridotti rispetto al passato.
I rappresentanti delle 66 nazioni e delle 32 organizzazioni internazionali riunite a Ginevra, in presenza oppure online, hanno promesso 3,3 miliardi di dollari per i successivi 4 anni, per un totale di 13,2 miliardi di dollari (11,1 miliardi di euro). Si tratta di circa il 15 per cento meno di quanto stanziato nella precedente conferenza, a Bruxelles, nel 2016, quella in cui, come abbiamo visto, Abdullah e Ghani promettevano di ridurre la dipendenza del Paese, la cui spesa pubblica invece dipende ancora per il 75% dall’esterno.
La cifra stanziata a Ginevra era inferiore ai bisogni. Alla vigilia della conferenza, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite aveva fatto sapere che l’Afghanistan aveva bisogno del 30 per cento in più di aiuti, a causa del Covid. Mentre a Ginevra i due delegati della società civile, Soraya Pakzad e Sayed Hussain Anosh, ricordavano che la povertà – che nel 2007 riguardava il 34 per cento della popolazione e nel 2017 il 54, 5 – alla fine del 2020 avrebbe potuto riguardare il 72 per cento della popolazione. Oggi, secondo l’Undp, la percentuale potrebbe arrivare al 97: povertà universale, la chiamano.
Allora Filippo Grandi, Alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ricordava i 300.000 nuovi sfollati interni del 2020 e le conseguenze drammatiche di un disimpegno finanziario della comunità internazionale. “Non è tempo di mollare”, ammoniva Deborah Lyons, rappresentante speciale per l’Afghanistan dell’Onu. “Il momento è critico”. Oggi la situazione è ancora più critica di allora. Conta il brusco passaggio di potere a Kabul, contano i circa 500.000 nuovi sfollati interni, conta la decisione di Washington di bloccare le riserve della Banca centrale afghana custodite negli Stati Uniti (circa 7 miliardi di dollari dei 9,5 complessivi), conta il congelamento dei prestiti da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Il 13 settembre capiremo meglio se la comunità internazionale vorrà impegnarsi per il futuro del Paese o se preferirà archiviare il dossier afghano e tirare i remi in barca. Lasciando gli afghani ad affrontare da soli una gravissima crisi umanitaria.