“Quelle urla che salivano dall’acqua mi sembravano gabbiani, invece erano uomini, donne e bambini”. Chi ascolta anche una sola volta nella vita il racconto di Vito Fiorino, non lo potrà mai dimenticare. Nato a Bari, ma cresciuto a Sesto San Giovanni, falegname e pescatore per passione, Vito da anni è diventato un lampedusano adottivo. La notte del 3 ottobre 2013 era in barca, senza immaginare quello che stava per accadere e che – come racconta lui stesso – l’ha segnato per sempre. Fiorino era in rada in attesa dell’alba per uscire a pesca con un suo amico, ha iniziato a sentire dei lamenti e non ha realizzato subito che si trattava di esseri umani. Quelle invocazioni di aiuto venivano da persone che ormai si trovavano in acqua da più di quattro ore. “Li ho tirati su con le mani, mi sentivo afferrare, ma molti di loro erano cosparsi di benzina, e scivolavano via”. Non si è mai fermato, anche quando l’imbarcazione rischiava di ribaltarsi. Dopo aver dato l’allarme alla Capitaneria di porto, riportò le 47 persone salvate sulla terra ferma (46 uomini e una donna), strappandole a morte certa. Quella che era toccata a 368 persone, per lo più eritree, morte a mezzo miglio dalla spiaggia dei Conigli, sull’isola di Lampedusa, quando la barca che le trasportava dalla Libia all’Italia è affondata. Tra loro c’erano molte donne e bambini.
Erano partiti dalla costa della Libia che, ma per quelle persone si trattava solo dell’ultima – fatale – tappa di un viaggio iniziato molto tempo prima, in fuga dal regime eritreo.
Il prossimo 3 ottobre saranno dieci anni da una tragedia che ha segnato a livello mediatico il racconto delle migrazioni; come ogni anniversario sarà un’occasione per un bilancio, per capire cosa e come è cambiato il meccanismo che ha portato a quella tragedia, quali sono state le responsabilità, chi ha pagato e chi no. Ma come ci arriva Lampedusa, a questo anniversario. L’isola, letteralmente, esplode. Nel fine settimana 25-27 agosto 2023 sono state circa 3mila le persone sbarcate, in barba al governo Meloni e ai suoi alleati che del ‘blocco navale’ avevano fatto il loro cavallo di battaglia all’opposizione. “Non ho capito quale sia la strategia del ministro dell’Interno per aiutare quest’isola”, ha tuonato il sindaco Filippo Mannino, rivolgendosi al ministro Piantedosi, che a gennaio 2023 aveva promesso alle istituzioni locali un’imbarcazione in servizio permanente effettivo per portare via subito le persone sbarcate senza congestionare l’isola. Nulla è accaduto, come per l’altra promessa fatta al sindaco, cioè di eliminare i barchini senza lasciarli alla deriva con gravi conseguenze per la sicurezza e per il lavoro dei pescatori locali.
Il sistema è al collasso: da un lato gli arrivi (rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) sono raddoppiati, passando da 52mila persone a 107mila persone nei primi otto mesi dell’anno, dall’altro il sistema dell’accoglienza è in tilt, anche e soprattutto grazie alla gestione fallimentare degli ultimi cinque anni, nei quali sono stati cancellati oltre 40mila posti in tutta Italia. Questo mentre assistiamo al blocco delle navi delle ONG che tentano di restate operative tra mille difficoltà burocratiche. Oltre a essere costrette a sbarcare le persone salvate in porti sempre più lontani, per l’incapacità delle istituzioni di gestire l’accoglienza, navi come la Mar Jonio, l’Aurora della SeaWatch, SeaEye 4 e Open Arms lottano per ottenere il certificato d’idoneità.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Cosa è rimasto dell’indignazione e della commozione globale dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, quando di fronte alle bare si giurava che ‘mai più’ sarebbero accadute tragedie come quella?
Questa serie in quattro puntate sarà un viaggio in questi dieci anni, da quella notte terribile ai giorni nostri, passando sempre per Lampedusa e per il suo destino, quello di “essere stata messa al centro del mare dalla mano di Allah, per proteggerli, per offrigli un appiglio”, come ha detto lo l’Imam di Catania Abdelhafid in occasione delle commemorazioni del 3 ottobre dello scorso anno.
Ma come sempre gli anniversari rischiano di ammalarsi di retorica, se non diventano occasione di riflessione e di confronto, e allora torniamo a quella notte, ripartiamo da quello che accadde allora per capire quello che accade oggi.
Il naufragio e il cordoglio
Basta trovarsi in mezzo al mare, nel punto del naufragio del 3 ottobre, per capire quanto fosse dannatamente vicina la salvezza per tutte quelle persone. Lampedusa è là, immobile nella sua bellezza, così vicina che ti illudi di poterla toccare. Ma la notte del 3 ottobre 2013 il mare era rabbioso. Un peschereccio, partito dal porto libico di Misurata l’1 ottobre 2013, di circa 20 metri, stracarico. Si parla di circa 500 persone, ma il numero esatto non sarà mai ricostruito.
Secondo le testimonianze dei superstiti, nel tentativo di dar fuoco a delle coperte per chiedere aiuto con il natante in difficoltà, scoppiò un incendio a bordo e la barca, in poche ore, s’inabissò.
Oltre alle 368 vittime, con i 20 dispersi, si contarono 155 salvati, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). L’inabissamento finale – dopo ore di agonia – sarebbe avvenuto attorno alle 6.30 del mattino, i primi soccorsi (tra i quali Vito Fiorino) sono arrivati alle 7. Fiorino ha sempre sostenuto che ci siano stati dei colpevoli ritardi nei soccorsi, forse in parte dovuti al fatto che quello stesso giorno – alle 5 del mattino – già due barconi con oltre 460 persone erano stati soccorsi e portati a riva dalla Guardia Costiera italiana.
Un primo gruppo di cadaveri, 194, venne rinvenuto in acqua, mentre altri 108 corpi vennero recuperati quando diventò possibile accedere alla parte interna del relitto. Di questo gruppo, facevano parte 210 uomini, 83 donne e 9 bambini. Secondo le dichiarazioni di alcuni sopravvissuti, il barcone avrebbe avuto a bordo 518 persone; il numero risulterebbe dai conteggi dei pulmini che li avrebbero portati sul natante a Misurata. Tuttavia, la somma dei 155 superstiti e dei 366 corpi recuperati (360 eritrei, 6 etiopi), dà un totale di 521, a cui potrebbero essere sommati un’ulteriore possibile ventina di dispersi. Secondo la testimonianza del superstite eritreo, Mussiie Ghebberhiert, le persone imbarcate sono invece 545, in massima parte eritree. Le salme recuperate vengono portate prima al Molo Favaloro, a Lampedusa, poi altrove. Una fila straziante di sacchi di plastica, con cerniera, verdi e blu, forniti dalla direzione dell’aeroporto dell’isola siciliana. Lampedusa, in quei giorni, è piena di turisti, i lidi hanno tutti gli ombrelloni aperti, gli alberghi non hanno camere libere, e i bagnanti si godono lo scampolo vacanziero forse senza sapere cosa avviene a pochi metri da loro. Dal pontile una staffetta di ambulanze con la sirena accesa precedute dalle gazzelle dei carabinieri portano i cadaveri nell’enorme edificio blu dell’aeroporto che normalmente ospita gli elicotteri della Guardia di Finanza e del 118. Sono stati portati lì anche due bimbi, un maschio e una femmina, di tre e due anni: operatori sanitari e militari, come si vede dalle immagini dell’epoca, non trattengono le lacrime davanti a quei due piccoli senza vita.
L’hangar della morte è un capannone 40 per 40 alla fine della pista dell’aeroporto di Lampedusa, dove sono state deposte le vittime recuperate. Sopra ogni sacco viene spillato un numero che servirà alla polizia scientifica per dare un nome ai migranti deceduti. I poliziotti hanno fotografato i volti di tutte le persone morte. I sacchi sono disposti in file doppie e seguono il perimetro dell’hangar dove sono stati accesi i climatizzatori e le pompe per l’aerazione per tentare di mantenere più bassa possibile la temperatura. Chi entra ed esce da questo luogo parla di ”sensazione indescrivibile”.
Inizia lo straziante riconoscimento delle salme: migliaia di persone arrivano in Sicilia, nel tentativo di avere notizie di parenti che potevano essere a bordo. Le bare identificate o meno sono state seppellite in vari cimiteri della Sicilia. Ad Agrigento è stata celebrata ufficialmente una cerimonia funebre senza bare a fine ottobre 2013.
Le reazioni sono straziate: il presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, twitta “Una tragedia immensa”, Papa Francesco chiede di “pregare Dio per le vittime di Lampedusa”, ma sottolinea come “Viene la parola vergogna: è una vergogna! Uniamo i nostri sforzi perché non si ripetano simili tragedie”. Il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, rilascia una nota addolorata, nella quale dice “Provo vergogna e orrore; è necessario rivedere le leggi anti-accoglienza”, ma in contemporanea molti dei cortei di studenti e della società civile che vengono organizzati in Italia indicano proprio la legge Turco – Napolitano del 1998 come simbolico inizio della criminalizzazione delle migrazioni e della deriva securitaria contro le persone in movimento. Anche l’Europa si addolora: Cecilia Malmström, commissario europeo per gli Affari Interni, si affretta a sollecitare l’Unione per incrementare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento dedicate a intercettare le imbarcazioni di migranti attraverso l’agenzia Frontex, dichiarando: “Facciamo in modo che ciò che è accaduto a Lampedusa sia un campanello d’allarme per aumentare il sostegno e la solidarietà reciproca, e per evitare tragedie simili in futuro”. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea e il Presidente del Consiglio dei ministri italiano Enrico Letta si recano insieme a Lampedusa il 9 ottobre 2013, venendo duramente contestati dalla popolazione dell’isola al grido di “assassini” e “vergogna”. Il ministro degli Interni, Alfano, si era lasciato andare all’annuncio di funerali di Stato per le vittime, poi negati.
L’opinione pubblica è scossa, le immagini delle bare delle vittime sono ovunque, la solidarietà travolge Lampedusa e i parenti delle vittime. Sembra di parlare di un altro secolo, invece è solo dieci anni fa. Sull’onda emotiva di quelle giornate, dopo un lungo iter parlamentare, il 15 aprile 2015 la Camera dei Deputati italiana ha approvato con 287 voti favorevoli, 72 contrari e 20 astenuti l’istituzione, l’istituzione del 3 ottobre come “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”. Il Senato della Repubblica ha poi ratificato tale decisione il 16 marzo 2016.
Ma non solo questo: il risultato più importante dell’ondata di indignazione nata da quella tragedia è l’istituzione della missione Mare Nostrum. Una vasta missione di salvataggio in mare – militare e umanitaria – dei migranti che cercavano di attraversare il Canale di Sicilia dalle coste libiche al territorio italiano e maltese, attuata dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 dalle forze della Marina Militare e dell’Aeronautica Militare italiane. Droni, elicotteri e aerei di soccorso, cinque unità d’altura; una nave anfibia, la San Marco, due pattugliatori delle classi Costellazioni e Comandanti e due fregate classe Maestrale. Un’operazione che salvò la vita a decine di migliaia di persone, alimentata dalla più banale delle considerazioni, ricordata al mondo intero nei giorni della tragedia di dieci anni fa proprio dai pescatori di Lampedusa: le persone in difficoltà in mare vanno aiutate, questa è la legge del mare, poi c’è la politica, quella viene dopo la vita degli esseri umani. Ma durò un sospiro, poi tutto tornò come prima e peggio di prima. E i primi segnali, rispetto alla mediaticità del cordoglio, si ebbero a poche ore dal naufragio di Lampedusa. Esattamente l’11 ottobre 2013.
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