Adriana è una donna transessuale brasiliana di 34 anni. È arrivata in Italia quando ne aveva diciassette e da allora ha sempre vissuto a Napoli, dove lavorava come cameriera. Quando è stata licenziata, oltre al lavoro ha perso dopo qualche tempo anche il permesso di soggiorno, diventando per la legge italiana una clandestina.
Lo scorso 21 gennaio, mentre si trovava in un albergo con il suo compagno, la polizia ha bussato alla porta, comunicandole che l’avrebbero portata al Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Brindisi, in contrada Restinco. “Ho effettuato la registrazione dell’albergo e i dati sono stati trasmessi alla questura. Se ne sono accorti in questo modo”, ha raccontato. Nella struttura pugliese, però, esiste solo la sezione maschile. Adriana, che ha iniziato sette anni fa la sua transizione, ha fatto presente alle forze dell’ordine che seguiva da tempo una cura ormonale: “Ho spiegato il mio percorso di vita. Ma la mia destinazione era già decisa”.
Insieme a lei nel Cie erano reclusi decine di uomini. Ha diviso la stanza con due ragazzi algerini, tre nigeriani, un pakistano e un marocchino: “Loro si sono sempre comportati bene, come anche le forze dell’ordine e gli operatori”, ha spiegato, raccontando però di aver subito ripetute minacce di morte da altre persone trattenute nel Cie e di essere stata esposta al costante rischio di abusi e violenze.
Per cercare di tutelarsi, per giorni Adriana ha dormito sistemando il materasso nel salone del centro, dove c’erano due telecamere. Una situazione che si è prolungata per quasi due mesi, mentre attendeva il trasferimento in un Cie con reparto femminile e, soprattutto, il responso alla domanda di protezione umanitaria che aveva presentato tempo prima. Il Brasile, infatti, è uno dei paesi con il più alto numero di vittime di transfobia – motivo per cui da quando Adriana ha iniziato il percorso per diventare donna non ci è più tornata. Secondo il progetto Trans Murder Monitoring (TMM) la situazione nel paese sudamericano è “particolarmente preoccupante”: vi sono stati registrati il 40% di tutti i casi di omicidi di transessuali nel mondo dal gennaio 2008, e il 42% di quelli avvenuti nel 2016.
Oltre alla convivenza con decine di uomini, nei quasi 60 giorni di permanenza nel reparto maschile del Cie di Brindisi, Adriana ha dovuto affrontare anche un altro problema: l’interruzione della cura ormonale. Dopo aver fatto più volte richiesta per avere le pillole – ricevendo rifiuti per via di non precisati “problemi burocratici” – ha iniziato uno sciopero della fame che le ha fatto perdere otto chili.
Nel frattempo è riuscita a mettersi in contatto con il Movimento identità transessuale (Mit) di Bologna, che ha denunciato pubblicamente la sua vicenda – alla quale si è interessata anche Sinistra Italiana. In seguito al polverone sollevato, Adriana è stata spostata in isolamento in una cella di sicurezza all’interno del Cie, costantemente sorvegliata da una guardia. “È la cella in cui viene messo chi ha malattie infettive, vicino agli uffici del personale”, ha spiegato, manifestando il malessere di trovarsi “in un carcere senza aver commesso alcun reato”.
Alla fine di marzo le è stato comunicato che le avrebbero concesso un permesso di soggiorno di sei mesi in attesa della decisione della Commissione territoriale sulla sua richiesta d’asilo. Pochi giorni dopo, però, Adriana è stata trasferita in un altro Cie, quello di Caltanissetta. I giudici del tribunale di Napoli avevano sì annullato il decreto di espulsione, ma avevano anche stabilito che la donna, a causa di precedenti penali, la decisione sulla protezione umanitaria avrebbe dovuto aspettarla in un Cie.
La pronuncia della Commissione sulla richiesta d’asilo è arrivata l’11 aprile, “e purtroppo è infausta”, spiega Cathy La Torre, legale del Mit che sta seguendo il suo caso. “Adriana – aggiunge – al momento si trova ancora nel centro di Caltanissetta, e dopo quasi tre mesi dentro a un Cie è disperata. Ora capiremo come muoverci”.
L’identità negata dei migranti transessuali
Essere transessuale e migrante amplifica problemi e difficoltà dell’una e dell’altra condizione. La vicenda di Adriana ne è un perfetto esempio. “È finita nel Cie perché era destinataria di un foglio che le intimava di lasciare il territorio italiano e non l’ha fatto, così come tante altre persone che dopo 17 anni nel nostro paese perdono il lavoro, non ottengono il rinnovo del permesso di soggiorno ma hanno qui una vita strutturata, una famiglia, e decidono di non lasciarla”, spiega La Torre. La legale del Mit sottolinea come in generale in Italia le persone transessuali trovino difficoltà nell’inserimento al lavoro, perché la loro condizione viene ancora stigmatizzata. Per chi è anche migrante, però, questo comporta un problema ulteriore: “Per loro l’aggravio di restare fuori dal mercato del lavoro è duplice. Se sei italiano, nessuno ti caccia dal territorio nazionale, se invece non hai un permesso di soggiorno rischi di essere espulso. L’impossibilità di avere un’occupazione, insomma, ti fa finire per strada o tra gli irregolari e magari in un Cie”.
Quella di Adriana, comunque, non è una vicenda isolata. Il Mit, spiega La Torre, “ne ha incontrate a decine” di persone “la cui identità viene negata” – l’unica differenza sta nella risonanza che i loro casi sono riusciti ad avere. Secondo l’avvocato, “quello del trattenimento detentivo o paradententivo di persone transessuali è un tema reale e concreto, sebbene considerato da molti minoritario. Si tratta di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica di queste persone. Il Mit solleva da anni la questione di mancanza di strutture nelle istituzioni divise tra maschili e femminili”. Una piccola sezione per transessuali era prevista nel Cie di Ponte Galeria – prima che parte della struttura fosse dichiarata inagibile in seguito a una rivolta – e un’altra a Milano, nel centro di via Corelli (dove peraltro anni fa una trans ha denunciato di essere stata picchiata dalle forze dell’ordine), che poi è stato chiuso.
La scarsa attenzione alle specifiche esigenze di migranti transessuali (e in generale LGBTI), però, non riguarda solo i Cie e i centri di detenzione. In Italia, infatti, ad oggi non esistono strutture destinate all’accoglienza di queste persone. Una mancanza che, secondo Porpora Marcasciano, presidente del Mit, “non è un capriccio o una questione di lana caprina”, ma “un problema importante per le persone trans che non appartengono al sesso riportato sui documenti e mettono in grosso imbarazzo anche le strutture che non sono adeguate ad accoglierle”.
Un punto, ad esempio, riguarda le terapie ormonali. Secondo il recente rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) sulla situazione dei richiedenti LGBTI in Europa, l’accesso a questo tipo di trattamenti è spesso difficile per le persone migranti transessuali ospiti dei centri d’accoglienza, soprattutto dove non ci sono direttive per coloro che hanno già iniziato il percorso di transizione nel paese d’origine.
“Noi allo sportello del Mit non abbiamo mai chiesto il permesso di soggiorno per la somministrazione di ormoni perché la legge non ci obbliga a chiederlo nel caso in cui si tratti di farmaci salvavita o per la salute”, spiega La Torre, che però sottolinea come tanti consultori in Italia non diano “gli ormoni a persone che si trovano qui illegalmente, andando contro quelli che per noi sono i principi di assistenza della tutela della salute delle persone trans”. Questo provoca situazioni pericolose: “Alcuni migranti se li autosomministrano, fanno cose dannose per la loro salute. Ma non possono fare altrimenti, perché quando sei illegale fai anche fatica ad avere accesso a un ospedale. Per questo motivo servono strutture dedicate”.
Così, i migranti LGBTI devono affrontare una doppia discriminazione: quella dovuta alla loro condizione di stranieri, e quella relativa alla loro identità sessuale. Una situazione che li espone – secondo il rapporto globale dell’UNHCR – “a una forte esclusione sociale” e a violenze perpetrate “sia dalla comunità ospitante, che da quella più ampia degli altri richiedenti asilo e rifugiati”. Questo è vero a maggior ragione nel caso specifico dei migranti transessuali.
Anche all’interno della comunità LGBTI, infatti, le persone trans sono considerate soggetti maggiormente vulnerabili: secondo un sondaggio pubblicato nel 2015 dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, il tasso di violenze e molestie subito da questo gruppo è doppio rispetto a quello rilevato da lesbiche, gay e bisessuali. Tanto che, spiega La Torre, “sono tantissime le persone trans che hanno dichiarato di aver subito abusi più o meno gravi dentro un hub per migranti, da parte di altri ospiti o di operatori”.
Il rapporto FRA sulla situazione dei richiedenti LGBTI in Europa ha rilevato come nella maggior parte degli stati europei non ci siano strutture d’accoglienza apposite, nonostante molti paesi si siano organizzati con “speciali misure” in caso di abusi o molestie: trasferimenti in stanze singole, in altre aree dei centri o in sistemazioni private. Dall’altro lato, però, lo stesso report ha evidenziato come non siano state identificate “linee guida per l’alloggio di migranti transessuali”.
In Italia sono in cantiere alcuni progetti per la realizzazione di strutture specifiche per rifugiati LGBTI – di cui uno promosso proprio dal Mit – sul modello del centro d’accoglienza promosso in Germania dall’associazione Schwulenberatung, nato dopo ripetute denunce di violenze e discriminazioni che si verificavano nelle strutture miste.
Come ha evidenziato l’indagine elaborata da Arcigay nel 2008, il punto in generale è che i servizi rivolti ai migranti sono “progettati e forniti senza considerare la dimensione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”. Questo comporta diversi problemi nella relazione tra operatore e utente, una relazione cruciale se si considera che molto spesso questi migranti – a differenza di altri gruppi – non possono contare su una comunità di provenienza che li aiuti e li supporti.
Il Mit contesta l’obiezione di chi sostiene che vi sia il rischio di creare dei ghetti. “Come dicono le linee guida dell’UNHCR, e come ci insegna l’esperienza tedesca, noi dobbiamo costruire un luogo sicuro per queste persone, nel quale possano vivere il momento dell’accoglienza fino alla concessione di un permesso di soggiorno umanitario o di inserimento lavorativo in un ambiente sano e protetto, con persone specializzate sulla disforia di genere”, spiega La Torre. La richiesta, dice, arriva direttamente da chi dovrebbe avere accesso a questi centri: “Ieri ho parlato con un rifugiato siriano trans che adesso si trova in una struttura mista e non vede l’ora che si apra la nostra, perché sa cosa significherebbe per lui: possibilità di essere se stesso, di essere chiamato al maschile, di non doversi scontrare con altri migranti di altre culture o dover convivere con una comunità d’origine che lo rifiuta. E di telefonate come la sua ne ho ricevute tante”.
Foto di copertina e in homepage: il CIE di Ponte Galeria – via MEDU e LasciateCIEntrare.