La Piana di Gioia Tauro, in Calabria, è uno dei principali luoghi di produzione di agrumi in Italia. Il settore agricolo del territorio poggia sulla forza lavoro composta da braccianti provenienti in particolare dall’Africa subsahariana che, in molti casi, sono vittime dello sfruttamento dei caporali e della criminalità organizzata. Dopo le proteste del 2010, non molto è cambiato a livello istituzionale, mentre sono sorte iniziative dal basso che rendono dignitosa la vita di questi lavoratori. Ne parla per noi Marta Facchini.
Ibrahim lavora come bracciante a San Ferdinando in Calabria. Abita nell’ostello sociale Dambe So, struttura che offre un alloggio dignitoso a chi lavora come stagionale nella piana di Gioia Tauro. Prima dormiva in un casale abbandonato nelle campagne. “Non c’erano acqua, elettricità e riscaldamento. Era inaccettabile stare là. Lavoravo a cottimo, non avevo un contratto”, ricorda. Nella piana, una delle principali aree di produzione di agrumi in Italia, i braccianti di origine straniera, in particolare durante i mesi della raccolta, sono costretti a vivere in situazioni di estremo degrado e sfruttamento. Sono le organizzazioni dal basso ad attivarsi per garantire accoglienza e inserimento socio-lavorativo, di fronte ai vuoti e ai ritardi istituzionali.
Nella piana poco è cambiato dalla cosiddetta “Rivolta di Rosarno” quando nel 2010, all’aggressione di alcuni lavoratori stranieri feriti con armi ad aria compressa mentre rientravano dai campi dove erano pagati pochi euro l’ora, seguirono giornate di proteste. I lavoratori africani si scontrarono con la polizia e gruppi di italiani del posto, episodi cui seguirono spedizioni punitive e ronde contro i braccianti. Ma furono anche organizzati cortei in reazione agli abusi della ‘ndrangheta e dei caporali, manifestazioni che portano all’attenzione dell’opinione pubblica le dinamiche con cui era prodotto il cibo che arriva sulla tavola del consumatore. Dopo più di un decennio, nella zona tra Rosarno, San Ferdinando e Taurianova, i braccianti – in particolare uomini provenienti dall’Africa subsahariana, manodopera su cui poggia il settore agricolo del territorio – si trovano ancora in una condizione di precarietà e desolazione. In questo contesto, cooperative e realtà locali costruiscono nuovi modelli di inclusione e filiere etiche, parlando di diritti fondamentali e dignità dei lavoratori.
“Pensiamo sia necessario intervenire sulla questione abitativa. I braccianti hanno difficoltà ad affittare un appartamento, così in molti finiscono nei ghetti che aumentano vulnerabilità e marginalizzazione”, spiega Francesco Piobicchi, coordinatore di Dambe So, progetto di Mediterranean Hope, il programma per persone migranti e richiedenti asilo sostenuto dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei). Nella piana molti braccianti vivono in edifici abbandonati e lontani dai centri abitati, come il casolare di contrada Russo a Taurianova e la tendopoli di San Ferdinando dove durante la raccolta si concentrano anche 800 persone. In questi insediamenti sono carenti o assenti l’acqua e l’energia elettrica. Le condizioni igienico-sanitarie sono critiche. Le baracche sono fatiscenti e costruite con materiali di risulta. Non ci sono sistemi di smaltimento dei rifiuti ed è elevato il rischio di incendi derivanti da possibili cortocircuiti e da fuochi improvvisati, usati per riscaldarsi nei mesi invernali.
“A Dambe So si può ottenere la residenza e il codice fiscale, una stabilità che fa guardare in avanti perché fa guadagnare tempo. Ci sono stati ragazzi che hanno studiato per prendere la patente di guida della macchina e del muletto”, continua Piobicchi. Nella struttura, dotata di 15 appartamenti da due stanze ciascuno dove oggi alloggiano 35 persone, sono organizzati corsi di italiano e momenti di incontro con i sindacati. “Gli inquilini contribuiscono alle spese versando una quota calmierata di 3 euro al giorno. La gestione degli spazi è una responsabilità di tutti e risponde a una logica di mutualismo. Chi abita qui è considerato come un soggetto attivo, non come una persona che deve essere assistita”.
Una parte dei costi dell’ostello è sostenuta grazie ai proventi della filiera Etika, nata dalla collaborazione tra Mediterranean Hope e la cooperativa “Mani e terra” che coordina Sos Rosarno, associazione di piccoli produttori locali di agrumi basata sui principi di prezzi etici e trasparenti, e sul rispetto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori. Nel progetto Etika, le arance, le clementine biologiche e le conserve sono vendute in Italia e all’estero, in particolare alle comunità e alle chiese protestanti in Germania; il prezzo comprende una quota aggiuntiva del 10% che sostiene l’ostello. Inoltre a gennaio un carico di arance è stato donato a Mediterranean Hope che le ha vendute alla cooperativa Rua di Bergamo: con i proventi la cooperativa Jungi Mundu di Camini ha cucito strisce catarifrangenti sulle giacche distribuite ai lavoratori che, in assenza di mezzi di trasporto pubblici, si muovono su strade buie e pericolose, spesso in bicicletta.
“Negli anni chi ha lavorato con noi è stato assunto con un contratto regolare ed è riuscito ad abbandonare la tendopoli”, spiega Peppe Pugliese, uno dei fondatori dell’associazione Sos Rosarno nata nel 2011 proprio come reazione all’abbandono nella piana. Come denunciato dai sindacati, oggi rimangono sfruttamento, caporalato e irregolarità retributive. Il lavoro grigio è la norma, e il lavoro nero è diffuso, con la conseguenza che chi è costretto ad accettare condizioni di irregolarità contrattuali incontra difficoltà nel possedere i requisiti per il riconoscimento del permesso di soggiorno o della disoccupazione agricola. “Per parlare di dignità, bisogna ragionare sul giusto prezzo pagato ai produttori, sulle filiere e sulle profonde criticità della Grande distribuzione organizzata”, aggiunge Pugliese. Sos Rosarno ha deciso di non rimanere nel circuito della Gdo ma di vendere ai Gruppi di acquisto solidale, quasi 200 in Italia e all’estero, e a privati. “Retribuiamo il produttore in modo equo. Per un kg di clementine, paghiamo 90 centesimi. Nel circuito della Gdo è pagato tra i 20 e i 30 centesimi, al di sotto dei costi di produzione. Il nostro prezzo finale si traduce in diritti e tutele”, spiega.
Succede anche nella cooperativa Valle del Marro – che coltiva agrumi, kiwi e ulivi in terreni confiscati alla ‘ndrangheta – parte del Consorzio Libera Terra Mediterraneo, insieme di aziende che lavorano recuperando beni liberati dalle mafie attraverso metodi rispettosi dell’ambiente. “Dal 2005, anno in cui sono iniziate le nostre attività, abbiamo avviato borse lavoro per lavoratori stagionali migranti che hanno seguito un percorso formativo”, spiega Antonio Napoli, socio co-fondatore della cooperativa in cui oggi sono assunte a tempo indeterminato 9 persone che arrivano a 40 durante la stagione della raccolta. “Il costo dei nostri prodotti è garanzia di un lavoro dignitoso. Per consolidare questo modello, crediamo sia centrale agire sulle potenzialità del territorio creando reti”. La cooperativa aprirà un emporio solidale a Polistena nel Centro polifunzionale padre Pino Puglisi, edificio confiscato alla ‘ndrangheta, dove è attivo anche un ambulatorio di Emergency che offre cure gratuite. “Lavoro, salute, terra. I pilastri da rafforzare”.
Immagini. In copertina: Il magazzino dove sono preparate le arance e le clementine prodotte dalle aziende che fanno parte della rete di Sos Rosarno. Nell’articolo: La tendopoli di San Ferdinando in Calabria. Nell’insediamento informale, le condizioni abitative e igienico-sanitarie sono estremamente precarie. La rete elettrica e l’acqua non sono sufficienti. È elevato il rischio di incendi a causa delle stufe e dei fuochi improvvisati usati dai lavoratori braccianti per riscaldarsi. Foto di Marta Facchini.