Da diversi anni la narrazione prevalente sugli italiani che emigrano all’estero ha abbandonato lo stereotipo della valigia di cartone e si è spostata sulla “fuga dei cervelli”. Al di là della retorica dell’utilizzo del termine, di vero c’è che l’Italia fatica a trattenere un gran numero di laureati e, più in generale, di personale qualificato. Un esodo continuo che conosce fasi alterne e più o meno acute, ma non si arresta.
Gli ultimi dati diffusi dall’Istat dicono che nel 2014 sono rimpatriati 30 mila italiani, a fronte di 102 mila che hanno spostato la propria residenza all’estero. Secondo lo studio “Le migrazioni qualificate in Italia: ricerche, statistiche, prospettive” realizzato per l’Istituto di Studi Politici S. Pio V dal centro studi Idos, si tratta di cifre che riportano il paese indietro nel tempo: solo nel 1974, infatti, gli espatriati avevano superato le 100 mila unità, mentre numeri maggiori si erano registrati nel secondo dopoguerra e dopo il 1961, quando si era oltre i 200 mila.
Il Rapporto “Italiani nel mondo” 2015 della Fondazione Migrantes aveva già evidenziato come negli ultimi nove anni si sia registrato un aumento del 49,3% degli iscritti all’Aire – l’Anagrafe italiani residenti all’estero: dai 3 milioni del 2006 si è passati agli oltre 4 milioni e mezzo del 2015. In media si tratta di uomini (56%), per la maggior parte in età lavorativa e in partenza dal Nord Italia verso un altro paese europeo. Stando a questo studio, la mobilità italiana “sempre di più affonda le sue radici in una recessione che da ormai troppo tempo incide sulla fiducia nel futuro dell’intero Paese”.
Chi va via
Un’analisi del Centro Studi Impresa Lavoro su dati Eurostat mostra che dal 2008 al 2013 sono andate via complessivamente dall’Italia 554 mila persone. Il 39% di queste ha tra i 15 ed i 34 anni: 47.048 nel 2013, in aumento del 40% dal 2008. Per lo più vanno in Germania, Regno Unito, Svizzera, Francia e Spagna. Fuori dall’Europa, invece, la meta sono gli Stati Uniti.
C’è una differenza, però, rispetto al passato: oggi a migrare sono soprattutto giovani, e per lo più diplomati e laureati. Nel 2014 hanno lasciato l’Italia circa 20 mila ragazzi con più di 24 anni d’età, aspirazioni elevate e un titolo in tasca, in aumento del 3,4% rispetto all’anno precedente. La causa di questo esodo, insomma, non sta più solo nelle retribuzioni più alte o nella ricerca di una qualsiasi occupazione, ma in una maggiore affidabilità sia del mondo del lavoro che di quello universitario.
Secondo una rilevazione condotta da Almalaurea sui laureati di 72 atenei italiani, solitamente espatriano gli studenti con votazioni più alte e maggiormente in regola con gli studi. Chi parte lo fa per trovare “migliori chance lavorative verificate in particolare dalla maggiore quota di contratti a tempo indeterminato (60% all’estero, 49% in Italia)” e anche determinato. E poi le retribuzioni: gli occupati italiani all’estero “a 5 anni dalla laurea, dispongono di un guadagno mensile netto notevolmente superiore alla media (2.146 euro, contro 1.298 euro in Italia)”. Il rientro a casa nel medio termine – cinque anni – è una possibilità concreta solo per un ragazzo su nove.
I laureati e i diplomati che abbiamo perso
Sui 4.811.000 cittadini italiani residenti all’estero e iscritti all’Aire, ad oggi i laureati hanno superato le 400 mila unità. Tra l’altro le cifre dell’anagrafe residenti all’estero non sono complete: stando agli archivi dei paesi di destinazione, gli espatriati superano i registrati, a volte anche del doppio.
L’andamento di questo esodo è stato progressivo ma discontinuo: tra il 1996 e il 2000 il nostro paese ha perso più di 27 mila laureati, con una media di 3.200 all’anno. Il picco è stato nel 1999, quando a partire sono stati in 4.000. I numeri – seppur non stabili – sono decisamente cambiati dopo il 2000: una nuova impennata ha toccato quota 102.813 nel 2004, prima di tornare a diminuire tra il 2010 e il 2011, con poco più di 50 mila. Poi le cifre sono salite nuovamente: 80 mila nel 2013 e nel 2014, fino a oltre 100 mila nel 2015. In tutto in quattordici anni, dal 2002 fino all’anno scorso, hanno lasciato l’Italia 202 mila diplomati e 145 mila laureati. Un numero che non viene compensato dai rientri.
C’è una quota di studenti che parte in via temporanea, per partecipare al programma Erasmus: nell’anno 2014/2015 sono stati 30.875 – di cui 24.475 per studio e 6.400 per tirocinio; ma c’è anche una parte di ragazzi che si trasferisce all’estero per frequentare un normale corso di laurea: le statistiche ne hanno contati 82.450 nel 2013 – inclusi però anche i figli degli immigrati residenti – specialmente nel Regno Unito.
Del resto, secondo il Rapporto Giovani 2016 dell’Istituto Toniolo, sei ragazzi italiani su dieci (83,4%) sarebbero disponibili a trasferirsi stabilmente all’estero pur di migliorare le proprie condizioni di vita e lavoro.
Secondo Idos tra le ragioni che spingono a migrare ci sono “la mancanza di un’occupazione o di un lavoro confacente alla formazione ricevuta, non rispetto della meritocrazia, ristrette possibilità di avanzamento, forme contrattuali precarie, scarso sostegno ai progetti di ricerca, e infine mancato collegamento tra l’università e il mondo produttivo”.
Laureati stranieri residenti in Italia
Se da un lato sono pochi gli italiani che tornano, dall’altro è aumentato il numero dei laureati stranieri nel nostro paese. Nell’anno accademico 2014/2015 risultavano iscritti alle università italiane 70.339 stranieri – il 4,3% delle iscrizioni complessive – a cui si sommano i 10.290 che frequentano l’Alta Formazione Artistica e Musicale, gli 11.101 coinvolti in corsi post-laurea, i 4.262 iscritti a dottorati di ricerca, i 4.573 a master di I e II livello e i 2.267 a corsi di perfezionamento e scuole di specializzazione. Si tratta in totale di 91.730 cittadini stranieri. Se si aggiungono anche i 22.152 studenti Erasmus e quelli delle facoltà pontificie a Roma la quota supera i 100 mila. Negli atenei italiani c’è uno straniero ogni 23 iscritti e uno ogni 28 laureati. Anche questa situazione è evoluta nel tempo: quindici anni fa la proporzione tra gli iscritti era di 1 a 60.
Secondo la Rilevazione Istat sulle Forze lavoro nel 2014 la popolazione straniera residente dai 15 anni in su contava il 39,7% di diplomati e il 10,3% di laureati: si tratta di poco meno di mezzo milione di persone, esclusi coloro che nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza italiana e i non residenti. È una cifra che sicuramente riesce a coprire l’esodo dei laureati italiani. Il punto è che, così come accade ai giovani nostrani, il paese non valorizza i titoli conseguiti dagli stranieri, che difficilmente trovano uno sbocco adeguato alla loro formazione.
L’Italia, si legge nel rapporto Idos, “dispone di un capitale umano in larga misura non valorizzato”, per un totale di “quasi 8 milioni di individui”. E questa scarsa valorizzazione non è senza conseguenze. Nonostante il possedere un titolo universitario resti comunque utile nella ricerca di un lavoro, la quota di laureati nel nostro paese è complessivamente più bassa che in altri. Con il 12,9% tra gli italiani e il 10,3% tra gli stranieri la percentuale di coloro che hanno conseguito il titolo universitario è al di sotto della media europea calcolata da Eurostat – e lo stesso vale per i diplomati. Anche l’incidenza degli studenti stranieri sul totale degli iscritti è maggiore altrove: nel Regno Unito è del 17,5%, un valore quattro volte superiore a quello italiano. La quota, scrive l’Idos, è più elevata dove “si riescono a creare più posti ad alta qualificazione, sollecitando l’inserimento degli immigrati”.
Un sistema che non funziona?
Tra i talenti italiani che se ne vanno e quelli stranieri che vengono poco valorizzati, c’è un sistema che evidentemente si inceppa da qualche parte. Secondo quanto rilevato dall’Ocse nel rapporto Education at Glance, nel 2012 l’Italia ha speso nell’istruzione terziaria 10.071 dollari per studente, pari a solo due terzi della media Ocse, lo 0,9% del Pil. Si tratta della seconda quota più bassa dopo il Lussemburgo, un livello simile a quello del Brasile e dell’Indonesia. Paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, hanno destinato all’università quasi il 2% o una quota superiore.
Una recente indagine di Impresa Lavoro, diffusa a giugno, ha quantificato gli investimenti italiani in ricerca e sviluppo in 1,29 punti percentuali di Pil. Considerato che l’obiettivo posto dall’Unione europea è del 3%, appare evidente che siamo ben lontani dal raggiungerlo. Anche il sostegno privato alla ricerca scientifica è uno dei più bassi d’Europa. È pari al 52% della spesa nazionale, una quota definita dall’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca – Anvur “particolarmente modesta” rispetto alla media Ue, che è di circa il 62%.
Secondo il rapporto Idos, “maggiori investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo (eguagliando la media Ue)” sarebbero necessari al fine di “normalizzare gli spostamenti dei lavoratori qualificati, rendere il mercato occupazionale più attrattivo”. E, non ultimo, “inserirvi in maniera appropriata anche gli stranieri qualificati”.
Tra il 2001 e il 2011 si sono cancellati per iscriversi all’estero 180 mila laureati e diplomati, compensati nello stesso periodo da una popolazione straniera residente cresciuta di 243 mila laureati e 841 mila diplomati. Questo significa che l’immigrazione riesce a coprire lo spazio lasciato dagli italiani che se ne vanno e contribuisce a “non abbassare il capitale culturale del paese”. Ogni persona che va via dall’Italia, infatti – specialmente se laureato, dottore di ricerca o, in generale, “talento” – può essere considerata una sorta di capitale, la cui partenza crea una perdita. Basti pensare ai mancati introiti derivanti dal deposito o dall’utilizzo all’estero di brevetti dei ricercatori.
Questa perdita viene compensata un po’ dagli effetti benefici della partenza stessa degli italiani – ad esempio collegamenti scientifici o culturali con istituzioni estere, un eventuale ritorno con un’esperienza più ampia – ma per la maggior parte dall’arrivo di laureati stranieri, che investono nell’istruzione e si inseriscono nel mercato occupazionale. Tra partenze e arrivi, insomma, più che di fuga di cervelli sarebbe più corretto parlare di circolazione. Il punto è valorizzare adeguatamente questo capitale umano qualificato, e non lasciare che si perda.