È commovente vedere la montagna di materassi accatastati che le 170 ragazze che sono riuscite a partire da Beirut, tra il 29 novembre e il 3 dicembre, hanno lasciato dietro di sé. Il Libano, per la comunità di sierraleonesi ingaggiate – poi intrappolate, maltrattate, schiavizzate dal sistema di reclutamento di lavoratori stranieri noto come kafala -, si era trasformato in un incubo insostenibile: e la guerra non ha potuto che aggiungere un tassello al già intricato mosaico di vulnerabilità, più simile a una prigione, in cui molte di loro si sono trovate costrette.
A due settimane dall’inizio del fragilissimo cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele, il boato dei bombardamenti ha smesso di riecheggiare tra le pareti di cemento e travi di metallo in cui da più di due mesi hanno trovato rifugio: eppure, per chi di loro è rimasta, non c’è nessun luogo in cui tornare. Ai giovani noto come discoteca The Shelter – e ai più anziani come Chevriolet, dalla marca di automobili esposte nel salone in voga nei primi anni Settanta, prima che con lo scoppio della guerra civile diventasse il segno di un confine inattraversabile tra Beirut est e Beirut ovest – l’enorme sala porta ancora i segni di un conflitto durato quindici anni, con le pareti puntellate dei fori di proiettile di allora. Oggi, in termini e tempi diversi, ospita un altro aspetto di storia bellica: quello umanitario.
“Questa casa è nata il primo ottobre,” racconta Lea Ghorayeb, una delle fondatrici – insieme a Nasri Sayegh e Dea Hage-Chahine – dell’iniziativa Good Will: ma che preferisce, come loro, definirsi “cittadina di buona volontà.” “Il giorno dopo l’assassinio di Hassan Nasrallah scovai sui social un video postato da Nasri in cui riprendeva la valanga di persone fuggite ai bombardamenti e accampate sulla spiaggia di Ramlet el-Beida: non avevano acqua né cibo, nessun luogo in cui rifugiarsi, alcune di loro scalze o in pigiama, e tra tutte quelle persone, un gruppo di giovanissimi ragazze africane denunciavano di essere state lasciate senza documenti dai propri datori di lavoro. Abbandonate dai loro sponsor, abbandonate dalle loro ambasciate, volevano soltanto tornare a casa, e non potevano”.
Era il 28 settembre, l’inizio di una catastrofe della cui portata e durata nessuno avrebbe potuto avere idea. In un paio di giorni, il falso equilibrio su cui da un anno giaceva il destino del Libano sarebbe stato sconvolto, ed esacerbata la già estrema vulnerabilità di una comunità di decine di migliaia di lavoratrici migranti, escluse dal diritto del lavoro, ingabbiate in un sistema di moderna schiavitù – il kafala – che le vincola a un garante, o sponsor, attraverso un contratto che manca di tutele contro il lavoro forzato, non soddisfa gli standard internazionali sui diritti umani, e il più delle volte viene loro sottoposto in arabo – una lingua che non conoscono – senza essere tradotto.
Nasri, due mesi dopo quel giorno da cui sembrano passati anni, si accorge finalmente della portata della sua azione. “Non so come scelsi di filmare quelle ragazze, in effetti non scelsi”, confessa, “guidai, mi fermai, piansi. Quello che venne poi fu peggio di ciò che chiunque avrebbe potuto aspettarsi.” Si definisce un nessuno, “sono soltanto un uomo, un cittadino, un artista” – e continua: “ma non c’è niente che l’arte, da quel giorno, sia stata in grado di darmi rispetto alla forza di questa comunità di giovani donne”.
Da un giorno all’altro il numero duplicò, poi triplicò. Con alle spalle una forte rete di contatti e l’esperienza emergenziale di attivismo seguita all’esplosione del porto nell’agosto 2020, riuscirono ad assicurare un autobus che le portasse, dalla spiaggia, in una scuola adibita a rifugio a Tripoli, nel nord del paese allora non ancora toccato dalle bombe. In quanto donne, migranti, alcune di loro con bambini, e non padroneggiando l’arabo, i rischi a cui erano esposte, dormendo per strada, sarebbero stati incalcolabili. Ma il sollievo durò poco: il tempo di una notte, nuovi e violenti bombardamenti, e centinaia di migliaia di nuovi sfollati. Al mattino, quel gruppo di dieci ragazze sierraleonesi che intanto aveva raggiunto la sessantina, venne messo alla porta: la priorità nei rifugi era riservata ai cittadini libanesi.
“Tornammo a Beirut il giorno della prima pioggia,” racconta Nasri seguendo il filo di un tempo non cronologico, ma indubbiamente reale in quanto vissuto. “Lì, decidemmo che era giunto il momento di creare un nostro rifugio, per loro. Così, nacque The Migrant Shelter”.
Riprendersi il fuoco
In poche settimane, l’enorme stanza di cemento con i fori di proiettile alle pareti, senza luce né acqua, ospitante 60 ragazze, tre bambini, e l’eco del loro panico a ogni bombardamento avvertito, ne avrebbe ospitate 270, sei bambini, assumendo sempre più l’aspetto di una casa: con una cucina, fili di panni stesi, panche di legno e tappeti, materassi, coperte coloratissime, e il rimbombo di risate, musica, lo schioccare ininterrotto di elastici per capelli e forcine.
Per le prime due settimane, si trattò essenzialmente di beni di prima necessità: provvedere all’elettricità, all’acqua, ai materassi e al cibo che veniva quotidianamente donato dalle tante cucine comunitarie che si sono spontaneamente aperte nel paese. “Alcune di loro erano così traumatizzate che dovevamo quasi imboccarle per farle mangiare,” racconta Nasri, criticando l’approccio assenzialista alle crisi ma al tempo stesso riconoscendone la necessità, a patto che sia temporaneo. “Poi, accadde la magia. Invece dei soliti pasti, ricevemmo in donazione una cucina. Puoi immaginare i sorrisi sui volti di queste ragazze quando arrivarono i fornelli. Letteralmente, si stavano riprendendo il fuoco: il potere di cucinare, con le loro mani, i loro ingredienti preferiti. In altre parole, il potere di decidere per sé stesse. Il magazzino si riempì di riso e burro d’arachidi, e la musica iniziò a fare compagnia alle nostre giornate, coprendo l’eco dei bombardamenti che nel frattempo non si fermavano”.
Persino il ricevere i sacchi di vestiti donati divenne un’attività. Con l’aiuto di una delle tante volontarie, Haifa, crearono uno spazio per lo shopping: ogni due settimane, di domenica – la festa. “Dividemmo i vestiti per tipo, taglia, colore; le scarpe da ginnastica da quelle eleganti; un angolo per gli accessori, un altro per i giocattoli. Può essere deprimente ricevere vestiti nelle stesse, enormi buste azzurre usate per la spazzatura. Ma con un po’ di creatività trasformammo la passività della ricezione nell’attività della scelta”. E a queste ragazze, di scelte, troppe ne sono state già tolte.
Il sistema kafala
Hanno tutte tra i 20 e i 25 anni. Dei padri dei sei bambini presenti, neanche una traccia. Fatmata* e Adama* rimaste incinta a seguito di uno stupro; Tenneh* con un’anca rotta per essersi gettata dalla finestra del secondo piano, nei sobborghi meridionali di Beirut ripetutamente attaccati dalle bombe israeliane, dopo essere stata chiusa a chiave nella casa del padrone che era costretta a chiamare baba, papà, mentre la famiglia che la teneva prigioniera era fuggita altrove, portando con sé i suoi documenti. E adesso, salva per miracolo, senza passaporto né fonte di sostentamento, necessita di un’operazione che costerà tra i 10 e i 15 mila dollari.
Mariama* e Aminata* non sanno dire dove abbiano vissuto negli ultimi tre e quattro anni delle loro vite. Riescono a dire solo “vicino al mare” o “in montagna”, e quando chiedi loro del 7 ottobre, della Palestina e di Israele, di Hezbollah e del sud del Libano, non sanno quasi niente, talmente sono state tenute alla larga da tutto ciò che è accaduto nell’ultimo anno al di fuori delle quattro mura da cui non erano autorizzate a uscire, se non con il permesso dei padroni che continuano a chiamare mama e baba, talvolta madame e monsieur, per comprare spugne e detersivi.
Si stima che circa 177.000 lavoratrici domestiche migranti risiedano in Libano: la maggior parte sono donne provenienti da paesi africani e del sud e sud-est asiatico, tra cui Sierra Leone, Bangladesh, Sri Lanka, Etiopia, Ghana, Indonesia, Filippine, Madagascar e Nigeria. Sono escluse dalle tutele del diritto del lavoro libanese e il loro status nel paese è regolato dal sistema kafala, un regime restrittivo di immigrazione composto da regolamenti che ne legano la residenza legale al garante o sponsor: il padrone. Le lavoratrici non possono lasciare o cambiare datore di lavoro senza il suo consenso, il che le espone a continui sfruttamenti e abusi: e quelle di loro che tentano di fuggire dalle case in cui vengono rinchiuse e maltrattate, rischiano di perdere la residenza legale in Libano – il paese di cosiddetta ‘accoglienza’ – affrontando detenzione e deportazione forzata.
Garantire agli sponsor questo livello di controllo sulla vita delle lavoratrici ha portato a una serie di abusi che Human Rights Watch e molte altre organizzazioni hanno documentato per anni, tra cui il mancato pagamento dei salari, il confinamento forzato, orari di lavoro eccessivi senza giorni di riposo o pause, e abusi verbali, fisici e sessuali. Già la severa crisi economica che nel 2019 travolse il paese, aggravata dalla pandemia di Covid-19, aveva ulteriormente peggiorato la situazione – avendo molte lavoratrici riferito come gli episodi di abuso siano aumentati durante il lockdown – mentre centinaia di loro vennero abbandonate fuori dai consolati e dalle ambasciate, senza soldi, passaporti o effetti personali. È infatti ampiamente documentato che, al momento dell’arrivo in Libano, alle lavoratrici venga sottratto il passaporto: a volte non restituito nemmeno quando decidano, autonomamente, di lasciare il paese.
In una situazione senza precedenti come l’attuale guerra, storie di sfruttamento, abbandono e molteplici violenze si sono accavallate per diverse comunità – non solo quella sierraleonese – già estremamente vulnerabili, lasciate indietro dalle famiglie per cui hanno lavorato per anni, esse stesse sfollate e decimate dai bombardamenti israeliani: alcune senza spazio in macchina per salvare una vita che considerano secondaria, altre che quelle vite le hanno rinchiuse in aree già evacuate di tutto – ad eccezione degli oggetti e dei beni di proprietà. Alla fine di settembre, a pochi giorni dall’inizio dell’escalation militare israeliana che avrebbe causato, in appena due mesi, più di 3.500 morti in Libano – il triplo di quelli dell’estate del 2006 – una ragazza del Gambia di nome Anna è rimasta uccisa in un attacco aereo contro la casa del suo datore di lavoro ad Hanouiyeh, nel sud del paese. E alle pareti di The Shelter è affisso un poster con la fotografia di un’altra giovane donna, sorridente, le dita in gesto di vittoria o di pace: non ne è indicato il nome né l’età, e l’annuncio si limita a chiedere: “Conoscete questa ragazza? Se ne avete notizia, fateci sapere. Viveva a Dahieh”.
La ragazza in foto ha un nome: ma nessuno sembra saperlo. Sorride, viveva a Dahieh, neanche una persona – al di fuori di queste mura – ne ha denunciato la scomparsa. Neppure di Anna, la vittima gambiana del bombardamento del 25 settembre a Hanouiyeh, siamo certi che il nome sia vero. Nel presentarsi, queste ragazze danno un nome di sé falso o semplificato: così le hanno abituate i padroni, le mama e i baba, per cui hanno lavorato per anni – senza che questi si sforzassero di riconoscerne l’essenza di identità, il nome. Aysata Lamghana si sorprende che qualcuno non si accontenti di ‘Lama’, che voglia sapere davvero come si chiami, e che spenda appena un minuto a cercare di memorizzare la pronuncia straniera. Per Zeinab Tzughi, ‘Titi’ non significa niente: eppure è così che risponde alla più basilare delle domande, what is your name.
E chissà quante altre, senza nome o coi nomi imparati sbagliati, tutt’oggi non reclamate dai datori di lavoro, che ancora detengono i loro passaporti – molto probabilmente sepolti sotto le macerie del sud -, a più di due mesi dal giorno in cui aggregarono i propri averi in un sacchetto di nylon, versandosi per le strade, dipendono ancora dagli aiuti di donatori stranieri che presto si dimenticheranno del Libano. Per loro, a poco più di due settimane da quello che per gli altri è un cessate il fuoco, non c’è nessun posto in cui tornare: se non il paese d’origine.
Delle 270 donne ospitate a The Shelter fino allo scorso 19 novembre, 130 sono riuscite a tornare in Sierra Leone, grazie all’assistenza dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel processo di rimpatrio, e alla buona volontà di Nasri, Lea, Dea, e dei tanti volontari che continuano a sostenere coloro che dovranno aspettare un po’ più a lungo. Tra loro, c’è una bambina di un anno e mezzo, l’ultima rimasta: è circondata dai giocattoli che i suoi coetanei, tornati nel paese da cui provengono e che non avevano mai visto, le hanno lasciato – ma non sembra interessata. Fissa, piuttosto, la montagna di materassi che presto saranno portati via per sostenere altri rifugi, e si chiede quando arriverà il suo turno per disfare anche lei il proprio, prendere il primo aereo, conoscere i nonni, imparare la lingua madre alla luce del sole, toccare l’Africa. Blessing Uga ha due nomi, ma nessuno di questi è una versione semplificata. A un anno e mezzo, non ha mai avuto un padrone, ha già vissuto una guerra, e non fa altro che chiedere come sia il tempo a Freetown.
*I nomi segnati con un asterisco sono stati modificati per proteggere l’identità delle intervistate.
Le immagini in questo articolo sono di Sergio Attanasio.