L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) afferma che nel 2030 l’Africa sub-sahariana diventerà il continente con la più alta mortalità attribuibile alla crisi climatica. Nel nord-ovest del Kenya c’è una contea, il Turkana, che è la più povera e meno sviluppata delle terre aride e semi-aride del mondo. Il 60% della popolazione locale vive di pastorizia: il loro sostentamento dipende completamente dal bestiame e dalle risorse naturali.
Dal 1960 la popolazione Turkana è cresciuta e la temperatura dell’aria è aumentata di circa 3 gradi. Entro il 2060 si prevede un ulteriore aumento tra i 2 e i 5 gradi: questo significa periodi di siccità più frequenti e prolungati e un accesso più ridotto alle risorse naturali. La desertificazione riduce i pascoli e la siccità provoca la morte degli animali (secondo un sondaggio dell’Università di Nairobi il 15% degli animali muore ogni anno), e questo ha spinto circa il 10% della popolazione ad avvicinarsi al lago Turkana, il più grande lago salato in luogo desertico, per dedicarsi alla pesca come alternativa all’allevamento, un’attività fino a quel momento poco praticata poiché meno redditizia. I Turkana, insomma, per sopravvivere hanno dovuto adattarsi a un nuovo stile di vita, ma da pastori a pescatori il passo non è semplice, anche se necessario. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organizzazione istituita nel 1988 con lo scopo di valutare su basi scientifiche, tecniche e socioeconomiche il rischio dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo, definisce l’adattamento spontaneo ai cambiamenti climatici come una misura di adattamento che viene presa naturalmente, senza un coordinamento specifico. Da sempre le società umane si sono adattate spontaneamente ai cambiamenti, modificando le colture, i metodi di costruzione o lo stile vita, ed è questo che hanno fatto i Turkana dedicandosi alla pesca. Gli adattamenti spontanei non possono tener conto però della modifica degli ambienti preesistenti e il caso del lago Turkana ne è un esempio.
La pesca, infatti, è stata messa in crisi dalla decisione dell’Etiopia di costruire cinque dighe sul corso del fiume Omo – da cui il lago riceve il 90% delle sue acque – con lo scopo di produrre energia elettrica e alimentare le piantagioni di cotone e canna da zucchero. Attualmente sono state costruite tre dighe (GIBE I, II, III) e secondo uno studio sugli impatti della GIBE III condotto dalla Oxford University, la riduzione del flusso d’acqua che raggiunge il lago, sommato all’evaporazione causata dall’aumento della temperatura dell’aria, ha portato alla riduzione del livello del lago Turkana e a un aumento della salinità delle acque, fattori che hanno determinato una riduzione drastica della pescosità.
In quanto pastori, i Turkana sono abituati a una vita nomade come mezzo di sostentamento, ma oggi questi spostamenti sono diventati una risposta obbligatoria alle avversità climatiche. Diversi autori definiscono la migrazione ambientale in forme differenti, quindi non esiste ancora un consenso universale a tale definizione. Nurit Kliot, docente presso l’università di Haifa, lo definisce come “il cambio di residenza a causa della scarsità di risorse e/o di catastrofi naturali”.
Per i Turkana la povertà causata dalla perdita del bestiame è la principale spinta a tentare una vita stanziale nei centri urbani. Secondo uno studio dell’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’83% dei membri della comunità Turkana pastorale ha almeno un parente che vive nelle aree urbane. Alcuni si spingono anche verso le città più grandi, fino a Nairobi dove risulta infatti un elevato incremento di arrivi di migranti: grazie ai dati raccolti da un sondaggio del Center for International Earth Science Information Network (Columbia University) è possibile affermare che il 74% dei migranti è arrivato a Nairobi tra il 1991 e il 2008, e solo il 26% prima del 1991. La maggior parte di loro, però, senza risorse e quasi nessuna abilità per la generazione di reddito urbano finisce a vivere nelle baraccopoli.
Chi sceglie di restare in Turkana resiste come può, spesso dipendendo dagli aiuti umanitari soprattutto nelle zone più colpite dalla siccità (oltre al Turkana, Marsabit, Isiolo, Tana River e Garissa): sono oltre un milione, le persone che necessitano di assistenza alimentare. Molti si spostano in cerca di sostentamento per le mandrie, ma questo non fa che esacerbare i rapporti tra le tribù locali che si contendono le terre rimaste con scontri violenti e sanguinosi.
Anche le tribù semi-nomadi etiopi come i Dassanech, i Nyangtom e i Mursi seguono i corsi d’acqua e si trovano in conflitto con le tribù pastorali del Kenya. I Nyangatom, allevatori di bestiame, si sono armati per proteggere le proprie risorse di terra e acqua. Dall’altro lato del confine, in Kenya, gli sfollati contano sull’assistenza del governo e sugli aiuti esteri che però non sono sufficienti per farli uscire dallo stato di povertà in cui si trovano. I combattimenti al confine tra Kenya ed Etiopia provocano morti su morti, inoltre la proliferazione di armi illegali provenienti dal Sudan meridionale ha contribuito all’escalation della violenza sia lungo i confini condivisi con Etiopia, Sudan e Uganda che tra le contee dello stesso Kenya come Turkana e West Pokot (dove un sondaggio dell’Università di Nairobi riporta centocinquanta morti ogni anno, nella sola contea del Turkana).
Samuel Ekal, program manager dell’associazione TUPADO (Turkana Pastoralist Development Organization) che ha sede a Lodwar, la capitale della contea del Turkana, afferma: “Non so dire il momento esatto in cui sono iniziati i conflitti, tutto risale al tempo delle colonie inglesi quando sono stati creati i confini e questo è stato un problema per i pastori, i quali non conoscevano questi confini, loro seguivano l’acqua. Il cambiamento climatico che causa la siccità, oggi è la principale causa di conflitti tra Turkana e Pokot. E a catena seguono il commercio delle le armi illegali e della carne rubata alla tribù rivale”.
Kalemngorok è un villaggio della regione del Turkana tristemente noto per l’alto numero di vittime causate dal conflitto. Apetet Tioko Francis è l’insegnante della scuola del villaggio e spiega che questo si trova al confine con la contea del West Pokot e a causa della sua vicinanza al fiume Turkwel è una risorsa molto ambita, perché in grado di fornire acqua e quindi pascoli per il bestiame, rendendolo uno dei territori più contesi.
A oggi è chiaro che gli sforzi sostenuti dai Turkana non sono stati, e non saranno, sufficienti a fornirgli una vita dignitosa. Cambiare stili di vita dedicandosi alla pesca o migrare verso centri urbani non hanno garantito loro una vita migliore. Il vero potere dovrebbe appartenere al popolo ma potrà mai un popolo come quello dei Turkana riuscire a trasformarsi davvero in potere? Se la risposta più plausibile è un no, allora è tutto il resto del mondo ad avere l’obbligo morale di farlo. E non possiamo fare altro che sperare che accada. Presto.
In copertina: Nairobi Due bambini giocano nelle strade di Kibera, una baraccopoli di 256 ettari a soli 7 chilometri dal centro di Nairobi. Sebbene non esista una mappatura scientifica del numero di abitanti, possiamo considerare la baraccopoli di Kibera come uno delle più grandi, povera e densa dell’Africa. Una ricerca di UN-HABITAT fissa la popolazione tra i 400.000 e i 700.000 abitanti, mentre la NGO “Carolina for Kibera” stima la metà della popolazione di età inferiore a 15 anni.(Foto di Maurizio Di Pietro come tutte quelle presenti nell’articolo)