“Come so che la maggior parte delle donne che lavorano qui come prostitute sono sfruttate e controllate? L’ultima volta che ho tentato di aiutarne una a mettersi in contatto con una Ong sono stato picchiato e minacciato dal suo sfruttatore” dice Paul. A Daoura, un sobborgo della periferia est di Beirut, per chi come Paul conosce la situazione, non è difficile individuare le donne in attesa di un cliente.
A pochi metri dalla sua macchina, Paul indica una donna che parla con un uomo alla guida di un SUV. Pochi minuti dopo sale in macchina: “Hanno trovato un accordo”, chiarisce Ray, la moglie di Paul.
Paul e Ray (entrambi chiedono di non essere identificati con il loro vero nome) conoscono molto bene la zona. Una volta alla settimana da circa dieci anni, insieme ad un gruppo di volontari legati ai gesuiti di una chiesa locale, portano medicine, cibo e beni di prima necessità alle “gente di strada”: senzatetto, tossicodipendenti, ma anche donne sfruttate nella prostituzione.
Alle 8 di sera la strada principale di Daoura è ancora affollata e due poliziotti stanno pattugliando la zona. Ma basta svoltare ad un angolo, in una strada meno illuminata, per vedere un’altra auto accostata, con un uomo alla guida e una donna africana al suo fianco, che anche in questo caso, spiega Ray, stanno “concludendo un accordo”.
“Incontriamo donne libanesi, dell’Africa orientale, e negli ultimi anni anche molte siriane”, spiega Paul. “Per quella che è la mia esperienza, tutte vorrebbero lasciare questo lavoro, ma l’unico modo che hanno per lasciare un protettore è trovarne un altro”. I problemi, chiarisce Ray, sono molteplici, sia economici che sociali: non c’è una rete di supporto, ma a pesare è soprattutto lo stigma. “Una volta che sei stata etichettata come prostituta – dice – per la società lo sarai per tutta la vita”.
“Non esiste prostituzione fuori dal controllo dei trafficanti”
Nel 2011, sotto pressione degli Stati Uniti, il Libano ha approvato una legge per contrastare il traffico di esseri umani, una legge in linea con le normative internazionali. Ma il gap culturale da colmare, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione delle vittime, è ancora consistente. Nel 2017, ad esempio, le vittime di tratta identificate sono state appena 52.
“Non c’è dubbio che molte vittime non vengano identificate”, afferma un ex ufficiale delle General Security (l’agenzia di intelligence libanese) che chiede di mantenere l’anonimato, non essendo autorizzato a parlare con la stampa. L’ex ufficiale, che afferma di aver indagato il fenomeno della tratta per anni, spiega che lo sfruttamento della prostituzione avviene tramite due canali principali: quello che fa capo ai “super nights club” e alle case chiuse e quello si affida ai “free agents”, piccoli trafficanti che controllano reti più piccole, apparentemente indipendenti.
Ma a dispetto del nome, anche i “free agents” operano in connessione con i trafficanti:
“Non esiste prostituzione al di fuori del controllo dei trafficanti principali. In Libano sono sostanzialmente quattro persone, peraltro note alle forze dell’ordine”, afferma la fonte.
Dal 2017, una politica interna adottata dalle forze di sicurezza libanesi (ISF) prevede che tutti i casi sospetti di tratta siano gestiti da un’unità specializzata. Inoltre, secondo i dati disponibili al 2018, sia all’interno della General Security che dell’ISF sono stati tenuti oltre 108 sessioni di formazione per gli agenti.
Eppure, secondo Ashraf Rifi, che è stato ministro delle Giustizia tra il 2014 e il 2016 e direttore generale dell’ISF tra il 2005 e il 2013 non è realistico aspettarsi risultati concreti prima di 10 o 15 anni.
“È un problema culturale”, dice riferendosi al basso numero di donne identificate come vittime di tratta. “Ed è un problema che riguarda soprattutto le donne siriane: a causa dello stigma e del pregiudizio di cui sono vittime sono spesso considerate nient’altro che prostitute”.
D’altra parte, l’ISF è responsabile anche delle indagini che dovrebbero portare all’arresto dei trafficanti e all’identificazione delle reti di sfruttamento: “La sfida più grande resta l’alto livello di corruzione”, ammette Rifi. Anche all’interno dell’ISF.
Rifi non ne fa esplicito riferimento, ma ad agosto 2018 il capo dell’unità anti-tratta dell’ISF, Jhonny Haddad, è stato arrestato con l’accusa di corruzione relativamente ad un caso di sfruttamento della prostituzione. Impossibile ad oggi saperne di più: Haddad non è infatti stato sottoposto ad un normale processo, ma ad una procedura disciplinare interna. Tutte le informazioni relative al caso sono quindi riservate.
I limiti del lavoro umanitario
Nel frattempo, centinaia di donne (304 solo nel 2016, di cui oltre la metà siriane) che sono quasi sicuramente vittime di tratta continuano ad essere arrestate come prostitute. Solitamente finiscono nella prigione femminile di Baabda, a Beirut, per un paio di mesi, prima di tornare nella mani dei trafficanti.
Hasna Abdulreda, in oltre 10 anni di lavoro come avvocato per la ONG Centre Libanais des Droits Humains ne ha incontrate decine: “In media due o tre al mese”, afferma. “Con un aumento sensibile, negli ultimi anni, soprattutto per effetto della crisi siriana. A volte sono loro a chiedere esplicitamente il mio aiuto, a chiedermi come fare per uscire dal giro”. Ma Abdulreda, mentre sono in prigione, non può fare altro che lasciare loro il suo numero di telefono: “Nessuna di loro mi ha mai richiamata – dice. A volte escono prima grazie al protettore che paga la cauzione dicendo di essere un parente. E quasi sempre, sotto ricatto dello sfruttatore, hanno paura a rimettersi in contatto con me”.
A luglio l’Oim, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, ha organizzato nella capitale libanese una conferenza sulla tratta, annunciando la formazione di una task force regionale per contrastare il fenomeno. Tra i partecipanti c’era anche Suor Marie-Claude Naddaf, che tra le altre cose coordina il progetto “Wells of Hope”, fonti di speranza, all’interno dell’iniziativa globale contro la tratta, Talitha Kum.
“Come Ong, siamo ancora bloccati tra le teoria e la pratica, e siamo ancora troppo lontani dall’avere un minimo impatto sulla situazione concreta – afferma Naddaf. Alla conferenza ho preso la parola per fare un semplice domanda: chi di noi aveva storie di successo da condividere. Nessuno ha alzato la mano”. Naddaf si dedica da anni a combattere la violenza contro le donne.
Prima di trasferirsi in Libano viveva a Damasco, dove ha fondato nel 2010 la prima hot-line per le donne vittime di violenza domestica. Negli ultimi anni ha viaggiato dal Marocco all’Iraq nel tentativo di costruire una rete regionale contro la tratta e mettere in comune le esperienze locali: “Dobbiamo condividere le informazione e le conoscenze, perché siamo ancora troppo lontani dal capire davvero il fenomeno”.
Il problema, anche secondo George Ghali, direttore dell’organizzazione per i diritti umani Alef, non è nella legge quando nella sua implementazione. Alef ha da poco curato un report relativo proprio all’implementazione della normativa del 2011: “Contrastare la tratta e identificare le vittime non può essere il lavoro delle Ong: è una precisa responsabilità dello Stato”, afferma. E dove sono finora le indagini e gli arresti? Stiamo parlando di crimine organizzato: non è qualcosa di cui può occuparsi la società civile”.
Intanto ogni settimana, a Daoura, Paul e Ray continuano a fornire assistenza alle persone in situazioni di bisogno. Negli ultimi anni Paul non ha più ricevuto minacce da parte dei trafficanti. “Perché? La verità è che non abbiamo nessun impatto sulla situazione, non siamo una minaccia. E anche se per caso riuscissimo ad aiutare una ragazza ad andarsene, ne troverebbero subito un’altra”, dice.
Paul ammette che ultimamente ha pensato di interrompere questa attività di volontariato, a causa del carico emotivo che comporta: “Ma non posso – dice, guardando sua moglie – Per noi è una vocazione”.
Immagine di copertina: Beirut, Libano. Dar Al Amal -Borse e oggetti realizzate da ex carcerate (Foto di Daniela Sala)
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