Leggi la prima puntata dell’approfondimento sullo strano caso dei richiedenti asilo cinesi.
Su richiesta dei protagonisti di questa vicenda, i nomi cinesi sono di fantasia. Il nome delle associazioni evangeliche coinvolte è stato omesso per evitare che i richiedenti asilo possano essere riconosciuti.
La storia di Xia, che è fuggita
Parlare è difficile, anche con un interprete. Il dialetto cinese delle aree rurali è ben più difficile della lingua parlata in città. Anche le applicazioni che traducono in simultanea, a volte, non sono sufficienti. Così Xia, richiedente asilo di 27 anni, decide di scrivere la sua storia, seguendo cinque domande guida. In un linguaggio asciutto e diretto, profondamente influenzato da formule evangeliche, Xia descrive ciò che l’ha portata a “bruciare le frontiere”, come si direbbe per un immigrato che viene dal Nord Africa. Perché, a un certo punto della sua storia, si sentiva in pericolo per la religione in cui crede.
Si è avvicinata al Cristianesimo, lei che non è nata in una famiglia cristiana, a 9 anni, dopo un funerale. Sua zia le consegnò una Bibbia e cominciò a farla pregare in una “chiesa domestica”. In inglese sono definite così, “House church”, queste stanze di case private adibite ad accogliere celebrazioni di piccoli gruppi, al riparo da occhi indiscreti. Chiese clandestine. Pregare è di per sé un’attività illegale, se fatto in gruppo. Comincia così il tortuoso percorso di fede di Xia.
Negli anni, sente parlare del Three-Self Patriotic Movement, una sorta di chiesa parallela costituita dal governo. Three-Self perché i tre principi su cui si basa sono – spiega Xia – “Auto-governo”, “Auto-supporto” ed “Auto-diffusione”. “Auto” in quanto attività autonoma da qualunque altra chiesa straniera. In sostanza, è una chiesa di Stato che secondo Xia serve al governo per mostrarsi tollerante verso la religione. Una maschera per l’Occidente: “Ho sentito qualche fratello e qualche sorella dire che il Three-Self non risponde a Dio ma al Partito comunista cinese”. Il Three-Self, nella visione di Xia, è lo strumento che si frappone tra i cinesi è la vera conoscenza di Dio. “Ricordo che a Natale i membri del Comitato Centrale andavano in chiesa per assicurarsi che prima venissero cantati inni per lodare il partito (il tema dei canti si basava sul principio: “Se non c’è il partito comunista non c’è la nuova Cina”), e solo dopo si potevano cantare inni per lodare Dio. I cristiani credono che questo non sia in accordo con l’insegnamento del Signore. Infatti Gesù dice: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo» (Luca 14:26)”. La testimonianza di Xia è disseminata di citazioni dalla Bibbia e dal Vangelo.
La prima volta che Xia ha conosciuto i modi della polizia cinese è stato quando aveva 12 anni. All’epoca, anche sua mamma aveva cominciato a frequentare i cristiani. La polizia confiscò loro Bibbie e sermoni registrati, dopo la delazione di una vicina. Tre dei predicatori da cui andavano furono arrestati. Da allora dice di essere essere stata costretta a vivere come una nomade. Nel 2010 la situazione è ulteriormente peggiorata: le retate si sono fatte più frequenti e la madre ne ha scampata una di un soffio. Nel 2013 alla lista di proscrizione degli evangelizzatori cinesi si aggiunse il suo nome: Xia, infatti, cercava universitari da convertire. “Evitai una cattura perché una sorella (un’altra fedele, ndr) mi fece nascondere tra le cianfrusaglie della casa, in uno sgabuzzino”, scrive. Poi, ad aprile 2015, il primo arresto: “Mi hanno preso mentre evangelizzavo – racconta -. In caserma mi hanno ustionata con acqua bollente e inciso il dorso delle mani con delle lame. Per essere rilasciata mi hanno costretto a pagare una multa di 2000 yuan (quasi metà dello stipendio medio in Cina, ndr)”. A dicembre 2015 un suo collega s’è finto interessato al cristianesimo solo per infiltrarsi, accusa Xia, e denunciarla alle autorità. “Da quel momento non smisero mai di pedinarmi”, aggiunge. Ha deciso di partire in quel momento: in mano un passaporto visto turistico e un biglietto aereo di andata e ritorno, per non destare sospetto. Alla fine, la Commissione territoriale le ha concesso lo status di rifugiato politico.
La storia di Clarissa, che accoglie
“Da quando è cominciata questa storia mi chiedo ogni giorno: sarei disposta a lasciare mia madre e mio padre per amore di Dio? Da cristiana, è una domanda che mi sconvolge”. Questa storia è entrata nella vita di Clarissa, cristiana evangelica di Milano, da undici mesi. Quando per la prima volta ha ricevuto una strana telefonata: una signora la chiamava per conto di due donne cinesi, mai conosciute prima. Avevano trovato il nome dell’associazione dove è responsabile degli aiuti umanitari. “Era impossibile parlare – racconta Clarissa -, usavamo il traduttore sul telefono, ma le conversazioni erano minime”. Trovare un interprete è stata un’impresa: “Queste donne non si fidavano di nessun cinese che presentavo loro. Alzavano sempre un muro. Avevano sempre paura di essere denunciate alle autorità cinesi”. Clarissa racconta che qualche cinese che ha incontrato nel tentativo di trovare un aiuto, li ha definiti “una setta”: “Voleva farli passare per terroristi”. L’ossessione di essere denunciate è tanto forte che per vincerla è stato necessario l’aiuto di una ricercatrice volontaria all’associazione Naga, Alessandra, italiana che parla cinese.
In questi 11 mesi, la chiesa italiana dove prega Clarissa ha accolto più di 15 richiedenti asilo. “Nessuno ci ha mai chiesto nulla se non un aiuto per presentare la domanda d’asilo – racconta Clarissa -. Solo una donna aveva chiesto di entrare in un centro d’accoglienza, ma l’assistente sociale ha detto che l’unico posto disponibile era in Calabria. Ha rifiutato perché giustamente aveva paura di restare sola”.
Le storie dei richiedenti risuonano nel vissuto di Clarissa. Anni fa ha introdotto delle Bibbie in Vietnam, insieme al marito, mentre la madre, già 20 anni fa, cercava a fatica di fare opere di evangelizzazione in Cina, dove qualunque religione era al bando. “Le loro sono storie vere. Sappiamo tutti quello che accade in Cina”, assicura. “Sognano ancora le retate della polizia. Prego per loro che la Commissione territoriale possa accettare le loro richieste”. A maggio e a giugno sono stati convocati per ricevere il responso.
“Almeno sette di loro sono qui tutte le domeniche, pur senza capire l’italiano”, racconta Clarissa.
Domenica al teatro dove prega questa missione evangelica, i fedeli cinesi sono 15. Non sono famiglie, ma persone che si sono conosciute solo una volta arrivati in Italia. Più che una funzione religiosa, la messa è una performance collettiva che si svolge per di più in piedi: la preghiera si fonde alla danza e al canto. Sul monitor appeso al centro del palco da cui parla la pastore scorrono immagini e parole: da estratti della Bibbia, fino a una sorta di “parabole contemporanee”. Il tema del giorno è quello che accade dopo la morte. La maggior parte dei cinesi sta insieme, un po’ defilata, nel settore in fondo del teatro. Un’interprete traduce in tempo reale per chi sta nelle vicinanze. Un ragazzo di 20 anni e un signore che sembra vicino ai cinquanta ascoltano le parole ripetute dal traduttore del cellulare. Il filo degli auricolari che li unisce li costringe a stare immobili e quasi appiccicati. “Senza interprete, questo è l’unico modo che hanno per seguire”, racconta Clarissa.
Nonostante l’atmosfera festosa e le parole di sostegno dei fedeli, è ancora presto per infrangere il muro di diffidenza che isola queste persone. Diffidenti verso i cinesi, ancora troppo avulse dal contesto italiano per integrarsi. Nessuno di loro, ancora, sente di poter condividere la propria storia.
Foto di copertina: una donna cinese cristiana legge la Bibbia – di Lucas mohamd (CC BY-NC-ND 2.0).