Ci rubano il lavoro, anzi no, fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Sono una risorsa. No distraggono fondi che altrimenti sarebbero impegnati in altro modo. Parlare di temi legati alle migrazioni porta spesso a facili semplificazioni, se si parla poi del rapporto tra migranti ed economia questa tendenza viene portata al suo estremo.
Giunto alla sua ottava edizione il rapporto di Fondazione Moressa sull’economia dell’immigrazione ci aiuta ad avere una fotografia più nitida della questione permettendoci di accantonare gli slogan.
Un’Italia che invecchia
Nel 2050 in Italia vivranno meno di 59 milioni di persone. A diminuire maggiormente sarà la popolazione in età lavorativa, quella cioè tra i 15 e i 64 anni, per cui è prevista una contrazione di 7 milioni di unità, mentre gli over 65 cresceranno del 47% cioè saranno 6 milioni in più rispetto ad oggi. Calo demografico e saldo migratorio negativo – con sempre più giovani italiani che si trasferiscono all’estero – queste le principali cause dell’invecchiamento della popolazione, ma le stesse stime prevedono anche una diminuzione degli occupati, 4 milioni in meno. Un terremoto per il sistema pensionistico: se oggi ci sono 2 pensionati ogni 3 lavoratori, nel 2050 la proporzione sarà di un pensionato per lavoratore.
È in questo contesto che va inserito l’apporto dei lavoratori stranieri in Italia. Mediamente più giovani (età media 33,6 anni contro i 45,4 degli italiani) hanno un saldo naturale positivo che ha in parte rallentato l’invecchiamento della popolazione. Un impatto che non si esaurisce sotto il solo aspetto demografico, ma che è forse maggiore in ambito economico.
I lavoratori stranieri in Italia
Iniziamo col dire che – a fronte di oltre 5 milioni di stranieri regolari residenti nel nostro paese – i lavoratori stranieri in Italia sono 2.4 milioni, il 10,5% dei lavoratori totale.
Più che la percentuale di lavoratori stranieri – stabile dal 2015, pur con un aumento costante in termini di occupati – merita attenzione il loro apporto alle casse statali, 2.4 milioni di occupati stranieri producono infatti un valore aggiunto pari a 131 miliardi ovvero all’ 8,7% del Pil nazionale.
Il 34% per cento degli immigrati regolari in Italia svolge un lavoro manuale non qualificato.
Domestici, badanti: degli oltre 130 miliardi di euro di prodotto interno lordo generati del lavoro degli immigrati, quasi la metà provengono dal settore dei servizi, mentre più di 26 miliardi – con occupazione pari al 16,8% – sono prodotti da quello manifatturiero. Seguono il settore del commercio con 13 miliardi, quello delle costruzioni con 12 e i servizi alberghieri e di ristorazione con 10 miliardi.
I lavoratori stranieri dichiarano 27,2 miliardi di euro, che sotto l’aspetto previdenziale si traducono in 3,3 miliardi di Irpef versata e 11,9 miliardi di contributi. Imposte che vanno a finanziare il funzionamento del welfare italiano. Sistema di protezione di cui usufruiscono tutti: essendo mediamente più giovane e con un saldo naturale positivo, la popolazione di origine straniera infatti incide sulla spesa pubblica solo per il 2,1%.
Come abbiamo già detto, stranieri e italiani svolgono lavori complementari.
Tra gli immigrati in Italia solo il 10% è laureato, mentre tra i giovani italiani questa quota raggiunge il 30%, ciò si traduce in una diversa occupazione con gli stranieri impiegati al 34% in posizioni non qualificate (contro l’8% degli italiani) e italiani che svolgono lavori qualificati al 38% (stranieri al 7%).
Se questo dato il più delle volte viene enfatizzato per dimostrare come i lavoratori stranieri non mettano a rischio l’occupazione italiana, non rubino cioè il lavoro agli italiani come da vulgata comune, va anche sottolineato come da lavori poco qualificati si generino redditi ed imposte inferiori alla media italiana. Un aumento della mobilità sociale degli stranieri andrebbe quindi ad incidere in modo positivo sull’impatto fiscale italiano.
Da questo punto di vista un aspetto positivo può essere quello relativo agli imprenditori stranieri che rappresentano il 9,2 % del totale imprenditori, dato in crescita negli ultimi cinque anni del 16,3%.
Un altro aspetto che emerge dal rapporto della Fondazione Moressa, riguarda le rimesse inviate dai lavoratori stranieri residenti in Italia verso i loro Paesi d’origine. Queste nel 2017, risultano maggiori ai 5 miliardi di euro, pari allo 0,3% del Pil. Senegal, Sri Lanka e Filippine i paesi che ne hanno usufruito maggiormente. Un ammontare molto superiore a quello relativo agli Aiuti Pubblici allo Sviluppo, cui il nostro paese ha destinato – escludendo la spesa per l’accoglienza – 3,5 miliardi: solo lo 0.2% del Pil, con buona pace della retorica sulla necessità di aiutarli a casa loro.
Il futuro passa da una maggiore integrazione
Contribuiscono ad aumentare il numero degli occupati, producono quasi il 9% del Pil, influiscono in maniera fondamentale sul sistema previdenziale e incidono relativamente poco sulla spesa pubblica. Raccontare chiaramente l’apporto dei lavoratori stranieri nell’economia di un paese è fondamentale – basta pensare a quanto abbia inciso la narrazione di senso contrario nel referendum sulla Brexit – ma non è la sola sfida che va fronteggiata.
L’Europa tutta, e il nostro paese in particolare, invecchiano velocemente. Una popolazione più anziana non vuol dire solamente meno lavoratori, ma anche costi maggiori per il welfare, costi solamente in parte sostenuti dai lavoratori stranieri.
Rilanciare la natalità, riuscire a sostenere una popolazione sempre più anziana, saranno i compiti con cui nel futuro prossimo il nostro paese dovrà confrontarsi. Confronto che passa inevitabilmente per la sfida dell’integrazione.
In copertina: la presentazione del rapporto a Roma (Fondazione Leone Moressa)