È stata presentata a Roma martedì scorso la prima Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Durante il suo intervento il Garante Mauro Palma ha dedicato ampio spazio all’attività che il suo ufficio ha svolto nel monitoraggio delle varie forme di privazione della libertà nel contesto del controllo dei flussi migratori – tra CIE, hotspot e rimpatri forzati.
Un’attività complessa sia per “il suo evolvere da situazione contingente, emergenziale, a situazione strutturale, stabile o almeno di lungo periodo” sia perché dotata di minori presidi rispetto a quella di altri luoghi di privazione della libertà (come carceri, caserme e stazioni di polizia), e rispetto alla quale il Garante ha quindi dovuto costruire un modello del tutto nuovo di analisi e di conseguente valutazione e produzione di raccomandazioni. Modello che peraltro subirà necessariamente ulteriori cambiamenti a seguito dell’evoluzione del sistema normativo – che è attualmente in fase di cambiamento, soprattutto per quanto concerne dimensione e in tipologia delle strutture di detenzione, attraverso il criticato nuovo piano immigrazione (legge 17 febbraio 2017 n. 13).
La Relazione del Garante ha il merito di fotografare la situazione del sistema italiano sul terreno dell’immigrazione e, seppur senza sottolineature esplicite, mettere anche in risalto il fallimento di alcuni aspetti del modello. È così ad esempio quando si fa riferimento ai rimpatri e al fatto solo uno su quattro riguardi persone trattenute nei CIE.
Ma entriamo nel dettaglio dei dati che la relazione fornisce.
CIE: un sistema (sinora) in smantellamento ed i suoi risultati limitati in termini di rimpatrio
I Centri di identificazione ed espulsione (CIE) si sono progressivamente ridotti in numero e capacità ricettive nel corso degli ultimi anni: se nel 2011 erano 13 le strutture disponibili sul territorio nazionale, per una capienza complessiva di 1.901 posti, solo quattro sono oggi i centri realmente funzionanti (Torino, Roma, Brindisi e Caltanissetta) per una capienza effettiva di 359 posti. Nel 2016 le persone transitate nei CIE sono state 2.984, un numero in forte calo rispetto a quello del 2015 (quando le strutture di detenzione accolsero invece complessivamente 5.371 persone). Nei primi nove mesi dell’anno, quando ne erano transitate 1.968, solo 876 di queste erano state rimpatriate (il 44%).
Nella Relazione si legge che “il ruolo dei CIE nell’esecuzione dei rimpatri ha dunque finito per essere molto marginale: mediamente soltanto la metà dei cittadini stranieri irregolari che transitano nei CIE viene effettivamente rimpatriato; nei primi nove mesi del 2016 sono transitati nei CIE 1.968 persone di cui 876 rimpatriate (il 44%)”. Pare qui opportuno sottolineare come la scarsa utilità della detenzione amministrativa per l’obiettivo dei rimpatri prescinda in realtà dalla estensione e capienza del sistema, dato che – come rilevano i rapporti della Commissione diritti umani del Senato – la percentuale dei soggetti effettivamente rimpatriati tra quelli transitati nei centri è da sempre intorno al 50% (per la precisione: circa il 52% nel 2015, quando nei Cie hanno transitato complessivamente 5.371 persone, di cui nemmeno 3000 sono stati rimpatriati; circa il 55% nel 2014, e cioè 2.771 a fronte dei 4.986 stranieri trattenuti; circa il 50% nel 2013 – con 6.016 transitanti, dei quali appena 2.749 rimpatriati).
È del resto la stessa Relazione a evidenziare come l’estensione del sistema di detenzione amministrativa – tramite la capillarizzazione di centri su tutto il territorio nazionale (un CIE per regione) e la quadruplicazione della capienza degli stessi (dai nemmeno 400 posti attuali ai 1600 richiesti dalla nuova legge) non si presti ad essere lo strumento per ottenere più rimpatri: “al momento, rimane il dubbio che, in mancanza di accordi di riammissione con i Paesi terzi, la percentuale dei rimpatri sul totale dei provvedimenti di espulsione possa aumentare in modo consistente rispetto all’attuale valore: nei primi nove mesi del 2016, dei 3.737 cittadini stranieri rimpatriati dall’Italia, solo uno su quattro proveniva da un CIE. Molti rimpatri, infatti, sono stati eseguiti direttamente dagli hotspot, sotto forma di c.d. respingimenti differiti”.
In merito all’attuale fisionomia dei CIE, la Relazione sottolinea come “in generale, nei CIE vi è una forte e negativa eterogeneità tra le persone presenti: oltre a ex detenuti, si trovano peraltro richiedenti asilo che hanno formalizzato la domanda solo dopo il provvedimento di trattenimento, oppure persone che hanno a lungo risieduto in Italia e che non avendo più il permesso di soggiorno sono diventate irregolari, incluse a volte persone neo-maggiorenni, e così via”. In questo contesto, particolarmente assurda è la situazione dei richiedenti asilo: nella Relazione infatti “si segnala il ‘paradosso’ legato al trattenimento dei richiedenti asilo che può arrivare sino a 12 mesi rispetto ai tre mesi attualmente previsti dal testo unico sull’immigrazione. L’aumento considerevole delle domande di asilo, unito alla conseguente crescita nel numero delle impugnazioni in sede giurisdizionale, ha condotto a una dilazione dei tempi di decisione per cui il richiedente asilo risulta ulteriormente penalizzato”.
Un’altra criticità sottolineata dalla Relazione del Garante è quella del regolamento dei CIE ed il controllo sui gestori. Il funzionamento dei CIE è infatti affidato a strutture che vengono selezionate in base a uno schema di capitolato d’appalto – tra prefetture ed enti gestori – predisposto dal Ministero dell’interno nel 2008 e di solito l’ente gestore aggiudicatario è l’ente privato che ha presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa – un criterio, questo, che “favorisce di fatto standard qualitativi non elevati, con il conseguente rischio di offrire servizi al di sotto di standard internazionali”.
I CIE si confermano insomma come luoghi poco rispettosi dei diritti fondamentali – “i controlli e le inchieste sui CIE promosse dal Parlamento e da Organizzazioni non governative hanno puntualmente e chiaramente testimoniato in questi anni l’inadeguatezza delle strutture e le carenze evidenziate nelle modalità di trattenimento”, scrive il Garante – e tendenzialmente inutili.
Il limbo giuridico degli hotspot
Come si anticipava poc’anzi, molte delle 3.737 persone che sono state rimpatriate nello stesso periodo dei nove mesi considerati sono transitati invece negli Hotspot e il loro rimpatrio è stato eseguito sotto forma di “respingimenti differiti”.
Il cosiddetto “approccio hotspot” – lanciato dall’Agenda europea per le migrazioni del 2015 – consiste nella canalizzazione di tutti gli arrivi in una serie di aree di sbarco attrezzate dove vengono effettuate le procedure di screening sanitario, pre-identificazione, registrazione, fotosegnalamento e di rilevamento delle impronte digitali entro 72 ore. E qui la criticità è immediatamente evidente: infatti, “la natura giuridica degli hotspot resta non chiara, indefinita. Essi risultano in una sorta di ‘limbo’ giuridico, come struttura intermedia tra Centri di prima accoglienza e Centri di identificazione ed espulsione. Il trattenimento negli hotspot, le modalità, la durata non sono sottoposti al vaglio dell’Autorità giudiziaria, nonostante si tratti di una misura che incide sulla libertà personale dell’individuo e che pertanto andrebbe adottata nel rispetto dell’articolo 13 della Costituzione italiana che prevede una riserva assoluta di legge e di giurisdizione”.
Le strutture attualmente attive sono quattro (Lampedusa, Pozzallo, Taranto e Trapani) per una complessiva capienza di 1600 posti, anche se, secondo i dati ufficiali della Commissione europea i numeri sono un po’ più bassi per via di interventi di manutenzione e ristrutturazione in corso.
Gli hotspot ad essere attivi già nel 2015 erano quelli di Lampedusa nel quale transitarono 3.569 migranti e quello di Trapani, aperto il 22 dicembre di quell’anno, nel quale fecero in tempo a transitare 427 persone. Tra gennaio e febbraio del 2016 aprirono gli altri due fino a portare l’attuale sistema – con una crescita davvero impressionante – a ricevere addirittura 65.295 persone durante l’anno appena trascorso (11.632 a Lampedusa, 19.000 a Pozzallo, 14.744 a Taranto, 19.919 a Trapani).
Si è detto che la permanenza negli hotspot in teoria non dovrebbe andare oltre le 72 ore, ma nei fatti la permanenza è sostanzialmente indeterminata in quanto rimessa allo svolgersi della procedura di foto-segnalamento e di rilevamento delle impronte (come si legge nel documento Standard Operating Procedures redatto dal Ministero dell’Interno con il contributo della Commissione Europea). Su questo influisce anche il fatto che Italia non ha accolto la sollecitazione, formulata da alcuni Paesi europei, a forzare il prelievo di impronte: la via italiana è quella del “convincimento” ad accettare il foto-segnalamento, attività di convincimento che ha evidentemente una durata variabile.
La media dalla data di attivazione è infatti di 15 giorni a Lampedusa, 5,5 a Trapani, 2,5 a Pozzallo e 10 a Taranto. Tempi di permanenza che in alcuni casi si allungano ulteriormente per quanto riguarda i minori non accompagnati: se la permanenza è la stessa a Lampedusa, 15 giorni anche per i minori, e di poco inferiore a Trapani (5 giorni), aumenta a Pozzallo, dove mediamente sono trattenuti due settimane in più rispetto agli adulti (17,5 giorni) e a Taranto (13 giorni). A fronte dei tempi di permanenza, i minori non accompagnati transitati negli hotspot nel 2016 sono stati 6.133 (1.269 a Lampedusa, 2.470 a Pozzallo, 890 a Taranto, 1.504 a Trapani).
La lunga attesa dei minori – secondo la Relazione – è dovuta al fatto che l’Italia, sulla base della Convenzione per i diritti dell’infanzia e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, considera i minori non accompagnati persone vulnerabili e da tutelare, e da non espellere, ma da accogliere in Centri di prima e di seconda accoglienza, per accompagnarli verso la maggiore età. Nel novembre 2016, 17.245 minori non accompagnati erano presenti nei Centri, il doppio dell’anno precedente. Ciò ha determinato la saturazione delle strutture e prolungamento della loro presenza negli hotspot. “Una situazione comprensibile, ma non accettabile, che richiede soluzioni rapide, nell’ottica di un problema che non può essere definito emergenziale” ha sottolineato il Garante. Infatti “le strutture, pensate per ospitare persone in un breve arco temporale, si rivelano in tali casi inadeguate dal punto di vista dell’erogazione dei servizi, soprattutto nel caso di minori non accompagnati che possono rimanere anche per periodi lunghi, in attesa di trovare un posto per loro”.
Insomma: la Relazione del Garante offre alcuni preziosi spunti di riflessioni sulle attuali criticità dell’uso della detenzione nel controllo dei flussi migratori, invitando a maggiore cautela ed attenzione nella configurazione di un sistema che non può e non deve mettere in secondo piano l’esigenza di rispettare i diritti fondamentali.