In una delle centinaia di tende fuori da Moria, il centro di accoglienza e identificazione sull’isola greca di Lesbo, tre donne siriane parlano della vita nel loro paese prima della guerra e delle condizioni sull’isola. Temono che le loro dichiarazioni possano compromettere l’esito delle loro richieste di asilo, perciò non vogliono essere identificate né fotografate. Ma sono più che disposte a raccontare le esperienze che hanno vissuto dal loro arrivo a Moria.
Quando parlano della Siria prima della guerra, a tutte e tre brillano gli occhi; lo descrivono come un paradiso in terra. Poi però è arrivata la guerra e tutto è cambiato; sono dovute fuggire.
Due di loro sono sbarcate sull’isola sette mesi fa, mentre l’altra è qui solo da un mese. Quando passano a descrivere Moria e la vita che conducono qui, i loro occhi si riempiono di lacrime. Moria è un luogo orribile, paragonabile alla Siria devastata dalla guerra.
“Se avessi saputo com’era la situazione qui, sarei rimasta in Siria sotto ai bombardamenti. Almeno lì avevano case al posto di tende”, dichiara la più anziana.
Da quando è stata adottata la dichiarazione UE-Turchia per arrestare il flusso dei migranti in Europa, in Grecia è stato avviato il meccanismo europeo degli hotspot. Questo approccio era stato presentato per la prima volta con l’Agenda europea sulla migrazione 2017, ed è sostanzialmente basato sulla creazione di centri di accoglienza e identificazione nelle zone in cui arrivano i rifugiati. Fra queste c’è l’isola di Lesbo, e Moria è stato usato come centro di accoglienza per i rifugiati, diventando di fatto il primo hotspot greco. In un certo senso, la dichiarazione UE-Turchia ha legittimato l’approccio complessivo dell’Unione Europea al fenomeno migratorio.
Moria è anche il più tristemente noto degli hotspot greci, per via del sovraffollamento e delle terribili condizioni di vita. Al momento della pubblicazione di questo articolo, più di 5800 persone risiedono in un’area che ha una capacità massima di 3100. Già base militare, oggi ha gli stessi abitanti di una cittadina greca, ma le condizioni di vita sono inadatte per chiunque. Si verificano regolarmente rivolte e aggressioni, e i rifugiati temono per la propria incolumità. A causa del sovraffollamento, gli operatori hanno allestito centinaia di tende in una zona chiamata Oliveto, che a prima vista sembra suddivisa in zone, ciascuna abitata da un gruppo etnico diverso.
Una crisi della salute mentale
Le organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno condannato la situazione a Moria e ribadito la necessità di un decongestionamento. Un rapporto pubblicato a settembre dall’IRC (International Rescue Committee, Comitato internazionale di soccorso) ha sottolineato i gravi costi per la salute mentale dei rifugiati e parla di una vera e propria crisi.
I dati forniti nel rapporto sono impressionanti. Dei 126 assistiti da IRC, il 64% soffre di depressione, il 60% ha pensieri suicidi e il 29% ha provato a togliersi la vita; il 15% ha invece compiuto atti di autolesionismo, mentre il 41% presenta sintomi di disturbo da stress post traumatico e il 6% manifesta sintomi di psicosi.
La più anziana delle tre donne è arrivata in Grecia insieme alla famiglia, fra cui il figlio ventenne. Lo ricorda in Siria come un giovane attivo e pieno di amici, ma quando è arrivato in Grecia la sua salute mentale è peggiorata per via delle condizioni del campo. Un giorno, mentre era da ore in fila per un pasto, è stato aggredito e pugnalato. Non è mai più tornato a fare la fila. Ha anche pensieri suicidi ed esce a stento dalla sua tenda.
Ascoltando il suo racconto, la più giovane delle tre donne dice di riconoscere alcuni degli stessi sintomi nel comportamento di suo marito.
“Mio marito aveva già problemi di salute mentale nel nostro paese. Ma gli hanno dato del paracetamolo”, racconta.
Le esperienze vissute dai rifugiati di Moria prima e durante la fuga dai paesi di origine possono essere traumatiche. Alcuni di loro sono stati imprigionati, torturati o violentati. Le condizioni di vita nell’hotspot possono amplificare questi traumi.
Secondo Alessandro Barberio, psichiatra di Medici senza frontiere e del Dipartimento di salute mentale di Trieste, chi arriva sull’isola ha già patito grandi avversità nel paese di origine. Tuttavia l’assenza di alloggi adeguati, le attese interminabili e le condizioni deplorevoli possono riportare alla luce traumi passati o crearne di nuovi.
“Quelli che arrivano qui, prima o poi – ma spesso dopo poco tempo – iniziano a manifestare sintomi di psicosi. Credo che ciò sia legato ai grossi traumi vissuti in patria e poi alle condizioni di vita dell’hotspot di Moria, che possono facilmente scatenare sintomi psicotici e non sono disturbi da stress post traumatico”, spiega.
Barberio definisce poi negative e controproducenti le condizioni di vita all’interno del campo.
L’assenza di speranze e di qualsiasi aspettativa, l’assenza di risposte, di diritti e della più elementare umanità sono legate ai traumi dei rifugiati e al tempo stesso li aggravano. Fra i sintomi che Barberio ha riscontrato nei pazienti ci sono disorientamento, stato confusionale, incapacità di rapportarsi agli altri o partecipare alle attività quotidiane. I traumi passati, unitamente alle condizioni attuali, possono portare i pazienti a sentire voci o a sperimentare visioni.
“So riconoscere quel che vedo, e sto assistendo a nuovi casi di persone con sintomi psichiatrici. Si tratta di persone che non erano già pazienti psichiatrici. I loro sintomi, sebbene legati a eventi traumatici passati, sono del tutto nuovi.”
Mancano le garanzie di base per la salute mentale
Morteza* vive nella parte superiore dell’Oliveto, nella zona afgana del campo, che sembra essere stata dimenticata dalle autorità e dagli operatori in quanto occupa una proprietà privata. Ci vive insieme alla sorella, al cognato e ai loro bambini. Prima viveva in Iran, dove i diritti degli afgani erano fortemente limitati; poi si è trasferito in Afghanistan da adulto, ma è dovuto fuggire in seguito a un attacco dei talebani in cui è rimasto ferito.
Morteza soffre di depressione e disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Quando viveva in Iran seguiva una terapia farmacologica per tenere a bada i sintomi, ma una volta arrivato in Grecia ha dovuto interromperla. Le farmacie del luogo non accettavano la sua ricetta, e all’ospedale di Mitilene, dove ha richiesto una visita, gli hanno prospettato un’attesa di mesi.
“L’ADHD può essere molto problematica per gli adulti. Non riesco a concentrarmi, mi interrompo mentre parlo perché dimentico cosa volevo dire. Mi scordo le cose di continuo, e questo mi preoccupa in vista del colloquio per l’asilo. Devo annotarmi tutto in un taccuino”, spiega, mostrandomi un mazzetto di post-it gialli che porta sempre con sé.
Nel campo di Moria vengono prestate le cure di base, ma le condizioni di sovraffollamento hanno messo in ginocchio i servizi sanitari. Stando al rapporto dell’IRC, le autorità statali greche responsabili della gestione di Moria sono incapaci di fornire sostegno ai rifugiati, non potendo venire incontro alle loro necessità di base, fra cui la salute fisica e mentale.
Morteza appare disperato. La sua salute mentale è peggiorata e pensa ogni giorno al suicidio. Il suo colloquio per la richiesta di asilo è fissato per la primavera del 2019, ma lui sembra aver perso ogni speranza.
“Lo so che non resterò qui per sempre, ma quando vedo i diritti umani calpestati non vedo la differenza rispetto a dove mi trovavo prima. Come posso continuare ad avere speranze per il futuro? Non voglio restare intrappolato su quest’isola per anni”, spiega.
Una crisi europea
Benché l’anno scorso varie ONG abbiano lanciato un appello congiunto per decongestionare l’isola e migliorare le condizioni dei rifugiati, ciò appare impossibile. Da quando è stata adottata la dichiarazione UE-Turchia sulla migrazione, i rifugiati sono soggetti a restrizioni di movimento, per cui non possono lasciare l’isola finché non hanno completato la procedura di asilo o se vengono dichiarati vulnerabili. Tuttavia, stando al rapporto dell’IRC, “i cambiamenti continui dei criteri di vulnerabilità e le rispettive procedure operative fanno temere l’insorgere di una tendenza alla riduzione del numero di richiedenti asilo riconosciuti come vulnerabili”.
Il sistema di accoglienza ai rifugiati dell’Unione Europea costringe i rifugiati di Lesbo a un processo che ha conseguenze dirette sulla loro vita e un impatto potenzialmente gravissimo sulla loro salute mentale. Senza una strategia o una pianificazione ad hoc da parte delle autorità greche per risolvere tale crisi, i rifugiati sono abbandonati in un limbo.
Secondo Alessandro Barberio, il soggiorno prolungato sull’isola nelle condizioni attuali priva le persone di tutti i sogni e le speranze che potevano nutrire per il futuro.
“I rifugiati non hanno la possibilità di pensare che domani è un altro giorno, perché sono bloccati qui. Naturalmente c’è chi è più bravo a resistere, chi si organizza in gruppi, chi partecipa a varie attività, ma alla fine della giornata devono tutti rientrare a Moria”, dice.
Per le tre donne siriane Moria è un luogo terrificante. Temono per la loro incolumità, temono per la salute dei figli e dei mariti. Ma dato che sono siriane, prima o poi potranno lasciare Moria e forse trovare asilo in Grecia.
Per Morteza, invece, le cose saranno sempre più difficili e lui sembra già saperlo. Mentre ascolta musica metal sul telefono, parla del suo unico sogno: andare all’università e studiare filosofia, materia secondo lui in grado di guarire l’anima.
Dal nostro ultimo incontro, Morteza è fuggito dall’isola.
*Il suo nome è stato cambiato.
Sullo stesso argomento leggi l’opinione di Marco Bertotto – Responsabile Advocacy di Medici Senza Frontiere – che dalle nostre pagine richiedeva l’evacuazione urgente del campo di Moria.
In copertina: alcuni bambini afgani camminano fra le tende nella zona afgana dell’Oliveto, appena fuori dall’hotspot di Moria (fotografia di Marianna Karakoulaki come tutte le immagini in questo articolo)