H. è arrivato nell’hotspot greco di Moria con la moglie e due bambini piccoli. È afghano ed è sbarcato a Lesbo da appena 24 ore quando lo incontriamo, attraversando gli otto chilometri di mare che separano l’isola dalla Turchia. “Mi hanno fatto fare il comandante” dice fieramente. È dicembre, le piogge hanno reso il terreno del campeggio una fanghiglia di terra, bottiglie di plastica, pezzi di tenda. La sera le temperature scendono a 2/3 gradi, l’umidità è altissima, i bambini giocano tra le tende, in ciabatte.
Il campo ufficiale, recintato, è pieno. Ci sono più di cinquemila persone dentro e H., come tanti dei profughi sbarcati nel fine settimana, si sta sistemando nell’olive grove, il campo informale nato in un uliveto che costeggia le recinzioni, dove altri mille e cinquecento richiedenti asilo si arrangiano come possono in attesa sia esaminata la loro domanda.
Qua non c’è elettricità da tre giorni, qualcuno prova ad attaccarsi alla corrente all’interno del campo, ingegnandosi in fantasiosi sistemi di cablaggio sotto la pioggia battente. Le reti di metallo sono piene di buchi, gli spostamenti tra dentro e fuori, il campo ufficiale e l’olive grove, avvengono perlopiù attraverso questi varchi.
Difficile dunque spiegarsi la presenza di filo spinato lungo tutto il perimetro, così come i severi controlli agli ingressi ufficiali utili solo ad allontanare i giornalisti.
“Moria ha superato la sua capacità di tre volte. Le procedure di assegnazione sono lunghe e le persone fanno da sole. Il commercio delle baracche nel campo esterno avviene già in Turchia, la situazione è completamente fuori controllo” ci spiega Lorraine Leete, responsabile del Legal Center Lesvos, un’associazione di avvocati volontari di base a Mitilene.
H. in effetti ha acquistato un posto per una tenda da campeggio da una famiglia di richiedenti asilo che ha appena lasciato l’hotspot. Lo ha pagato cinquanta euro, neanche troppo, sorride: “per il viaggio abbiamo pagato cinquecento euro a persona. So che si può restare anche due anni, lo sapevamo e siamo pronti ad affrontarlo, non potevo restare un giorno di più in Afghanistan con la mia famiglia”.
Il business sulle vite umane non si ferma d’inverno, semmai abbassa i prezzi. In una settimana a Lesbo sono arrivate circa 250 persone. Quasi tutti afghani, hanno affrontato il viaggio negli stessi giorni in cui circa 400 richiedenti di Moria sono stati spostati ad Atene, chi per il rimpatrio, chi per aver ottenuto un permesso o il diritto d’asilo. Ce lo confermano in tanti, operatori e richiedenti. È un circolo che si autoalimenta e non si interrompe mai: mentre a Moria ci si saluta e in alcuni casi si festeggia, dall’altra sponda del braccio di mare che separa le isole egee dalla Turchia si organizzano gli sbarchi che andranno a colmare gli spazi lasciati vuoti.
O si è pazzi o lo si diventa
“Sono qua da un anno e mezzo, altri miei fratelli da più di due anni” spiega Y., ex operatore e giornalista nel suo Paese, la Repubblica Democratica del Congo. “Se metto piede nel mio Paese mi uccidono: hanno ucciso mio padre e mia moglie, io non voglio raccontare bugie, non voglio impazzire qua dentro, voglio solo che ascoltino il mio caso”.
Il problema cronico dell’accoglienza a Lesbo risiede nella lentezza delle procedure. Il sistema di gestione bicefalo, greco-europeo, non riesce a superare la fase emergenziale e le criticità segnalate nel 2017 dallo studio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sulla Migrazione (ASGI) restano attuali.
A seguito dell’accordo del 2016 tra Unione Europea e Turchia, che riconosce quest’ultimo un Paese sicuro, in particolare per i richiedenti siriani, gli arrivi a Lesbo sono diminuiti. Quest’anno nelle isole greche dell’Egeo sono infatti arrivate trentamila persone, pochissime rispetto alle ottocentocinquantamila del 2015. I siriani hanno infatti smesso di percorrere la rotta greca e la nazionalità più presente a Moria, al momento, è quella afghana.
Il ricorso alla procedura di ammissibilità, una preliminare valutazione sul diritto di accedere al procedimento di asilo, è diventato comune anche per richiedenti non siriani, e sempre più persone, anche provenienti da Paesi in guerra, sono sottoposte a questo procedimento accelerato.
“Le persone vulnerabili non sono accolte in strutture adeguate, manca supporto legale”, denuncia ancora Leete, del Legal Center Lesvos. “Per i minori c’è l’inversione dell’onere della prova: sta a loro dimostrare di essere minori altrimenti vengono trattati e messi con gli adulti”. Ottenere lo status di vulnerabile, rientrando nelle categorie di migranti più a rischio, è uno dei pochi modi per uscire dall’incubo.
“Succede che l’incontro con il medico che dovrebbe certificare la vulnerabilità avvenga dopo un anno, nel frattempo se uno non era vulnerabile, lo diventa nel campo, dove si vive nello stress dell’incertezza. Spesso i migranti non sono consapevoli dei loro diritti, anche chi potrebbe avere accesso alla protezione internazionale, poiché proviene da un Paese in guerra, può pensare che stare male sia il modo migliore per uscire dall’inferno dell’isola”, sostiene Leete.
Sono tanti i migranti che ci dicono di avere certificati psichiatrici, firmati da medici privati di Lesbo, un altro piccolo investimento per poter proseguire il viaggio. Anche se spesso non è necessario fingere.
“Quando arrivano qua non sanno quanto staranno e questo, sul lungo periodo, provoca problemi mentali e non solo”, afferma Karoline Billewand, Field Coordinator di Medici Senza Frontiere a Moria. “I problemi sono di tutti i tipi. Molti hanno già vissuto episodi traumatici durante il viaggio”, prosegue, “ma qua contraggono malattie e diventano affetti da problemi mentali”.
“Sono qua da due anni, i primi tre mesi li ho fatti nel Detention Center”, racconta un ragazzo algerino seduto in uno dei piccoli ristori costruiti fuori dalle reti. Il Detention Center è una vera e propria prigione nella prigione, situata all’interno del campo recintato: i letti sono pieni di pulci, il cibo consiste in pane, uovo, pomodori e acqua, le condizioni all’interno sono disperate. Ci si può finire in due modi: aver commesso un reato all’interno del centro o essere magrebino, nigeriano o perché no, haitiano. La colpa di questi è quella di provenire da un Paese che ha un basso tasso di riconoscimento della protezione internazionale.
Vuoti istituzionali e violenza
Le interviste per chi arriva oggi sono fissate nel 2021. Il sistema è intasato dalla compilazione delle cartelle cliniche, i medical papers che dovrebbero essere registrati in fase di arrivo dei migranti. Il Registration and Identification Center (RIS), che gestisce insieme al Greek Asylum System (GAS) le fasi dell’accoglienza, fornisce alla struttura di Moria due soli medici. Le Ong sopperiscono alle mancanze del sistema sia garantendo sostegno logistico che supporto medico sanitario. I pochi dottori che lavorano dentro il campo sono impegnati a smaltire le procedure burocratiche. Un servizio medico basilare viene fornito da due medici volontari di una Ong, mentre le vaccinazioni di massa, la salute riproduttiva e una prima assistenza pediatrica sono in capo a Medici senza frontiere.
“Si creano queste condizioni impossibili per disincentivare l’arrivo. Fino a pochi mesi fa per il riconoscimento della vulnerabilità i funzionari del GAS chiedevano: ti senti bene? Se la risposta era sì, si dava per scontato che la persona non era vulnerabile” spiega Leete.
La risposta europea alla crisi è stata la creazione dell’Agenzia Europea di sostegno per l’asilo, EASO, che negli anni ha aumentato esponenzialmente il suo raggio di azione. I pareri dell’agenzia in fase di ammissibilità, e sempre più nell’ambito della merge procedure – un’unica sessione in cui si valuta ammissibilità e merito della richiesta – sono sempre più vincolanti e le autorità greche in molti casi si limitano a confermarli. L’attività di EASO non si limita dunque alla cooperazione e al sostegno agli operatori locali, come previsto da statuto. I funzionari sull’isola si stanno sostituendo in toto alle autorità locali nella gestione della registrazione e delle domande di asilo, con l’obiettivo di far valere l’accordo del 2016 e di spingere i greci a un riconoscimento più generoso della vulnerabilità, condizione grazie alla quale il richiedente entra nel sistema di protezione greco.
“Moria no good” campeggia sui muri della struttura, “Moria no good” ci dicono due dodicenni afghani appesi a una recinzione. “Ti sei mai dovuto difendere?”, chiediamo a N., una giovane promessa del pugilato marocchino, a Moria da otto mesi con il sogno dell’Europa e del professionismo: “sì solo una volta, mi avevano rubato la coperta, di notte, mentre dormivo” risponde. “Non ci sono luci e le donne hanno paura ad andare in bagno da sole. Riceviamo donne vittime di violenza e bambini traumatizzati”, racconta ancora Billewand. “Quando succede qualcosa dentro al campo, la polizia è la prima a levare le tende” aggiunge Leete. E se non lo fa è forse peggio.
Il 18 luglio 2017 35 africani inscenano una protesta pacifica dentro al campo, la polizia entra e spegne la protesta sparando lacrimogeni. L. viene da Haiti, è afroamericano. È un parrucchiere, nel campo taglia i capelli a tre euro ed è conosciuto da tutti. Quando scoppia la rivolta si rifugia in una tenda di congolesi. Nella notte la polizia fa di nuovo irruzione nel campo, in cerca dei responsabili, e prende tutti gli africani: tra di loro anche L., sulla base del colore della sua pelle.
“Quando sono entrati nella tenda ho detto loro che non c’entravo niente, mi hanno gettato a terra, colpito con mazze di ferro in faccia, sul corpo. Ad alcuni amici hanno fratturato mani e piedi, agli africani sputavano addosso dicendo di tornarsene al loro Paese. A Mitilene in prigione a me hanno strappato il piercing, per giorni non abbiamo visto un medico”.
La mattina che lasciamo Lesbo ha smesso di piovere. Poche ore prima un altro barcone è approdato su una spiaggia nella zona dell’aeroporto, 45 persone a bordo. Una volta a terra, i migranti hanno acceso un falò e atteso l’arrivo delle autorità. Qualche ora dopo inizieranno il procedimento che dovrebbe portarli alla valutazione della loro domanda di asilo. Le tempistiche, come per gli altri, sono ignote. La stessa mattina dal campo arriva un’altra notizia. Un ragazzo afghano di 22 anni è stato ucciso, accoltellato tra gli ulivi del campo informale. Gli sono stati sottratti 90 euro, esattamente la cifra che il GAS eroga mensilmente a ogni richiedente asilo, una volta stabilitosi nell’hotspot di Moria.
Sullo stesso argomento:
L’opinione di Marco Bertotto – Responsabile Advocacy di Medici Senza Frontiere – che dalle nostre pagine richiedeva l’evacuazione urgente del campo di Moria.
Il reportage di Marianna Karakoulaki sullo stato di salute dei migranti nel centro di Moria, dove il 64% degli assistiti soffre di depressione, il 60% ha pensieri suicidi e il 29% ha provato a togliersi la vita.
Foto di copertina: Gli ambiti permessi che consentono di allontanarsi dal campo e, a volte, lasciare temporaneamente l’isola (foto: Emanuele Gaudioso come tutte quelle presenti in quest0 articolo)