1. Nel libro, lei e Paola Parmiggiani, spiegate come spesso la narrazione mediatica sulle migrazioni sia di tipo “emergenziale”. Può spiegarci come questo avviene e perché?
Lungo il percorso tratteggiato nel libro abbiamo evidenziato come i media contribuiscono nel demarcare i confini sotto molti punti di vista, sia nella realtà concreta della vita quotidiana, sia nell’immaginario sociale che la precede: lo fanno etichettando lo straniero come diverso, alimentando la paura e i discorsi d’odio, riproducendo stereotipi razzisti, e soprattutto legittimando politiche di emergenza e securitizzazione.
L’immigrazione raccontata dai media non è un fenomeno strutturale, naturale e storico quale dovrebbe essere. Ma una perenne crisi, un fenomeno in costante e drammatico aumento, in prevalenza costituito da giovani uomini, soprattutto rifugiati e immigrati irregolari, provenienti in gran parte dall’Africa e dal Medio Oriente, di religione musulmana (e quindi sospettati di terrorismo), accusati di rubare il lavoro agli italiani e di costituire un peso per il welfare italiano. In realtà, numeri alla mano, gli stranieri regolarmente residenti in Italia si sono assestati ormai da 6 anni a poco più di 5 milioni, pari a circa l’8,5% della popolazione residente, sono in lieve prevalenza donne (52%), provengono in maggioranza da paesi Europei (51%, di cui quasi i 2/3 da paesi UE) e confessano in prevalenza una religione cristiana (54%). A questi si aggiungono i rifugiati (cioè persone con uno status di protezione), che sono poco più di 200mila e gli immigrati irregolari, di poco superiori alle 500mila unità, rispettivamente pari al 5,7% e all’8,7% della popolazione straniera complessiva presente in Italia.
Numeri che non ci legittimano a utilizzare termini quali “crisi, emergenza, invasione”, ma che vengono distorti per riprodurre un processo già visto: negli anni ‘90 ci sono stati i “vu cumprà” e gli albanesi; dopo l’attentato del 2001 l’attenzione si è focalizzata sugli immigrati musulmani visti come potenziali terroristi; con l’allargamento dell’UE alla Romania è stata la ribalta dei rumeni e dei rom. Una volta individuata la categoria si sviluppa la stigmatizzazione. L’“emergenza” di turno risuona nei media come un’eco che si auto-alimenta, narrando l’“invasione” che mette a serio rischio l’ordine pubblico e alimentando l’emotività nei confronti dei reati e dei problemi connessi alla presenza dello straniero.
Basti pensare a come l’“emergenza” sia stata esasperata durante la pandemia di Covid-19 per presentare i flussi migratori come l’emergenza nell’emergenza. Mentre non viene utilizzata oggi per descrivere le oltre 100.000 persone ucraine che abbiamo accolto in soli due mesi, ma senza appunto gridare all’invasione.
2. Reportage o voyeurismo? Le immagini delle vittime dei naufragi in mare possono sensibilizzare l’opinione pubblica? O esiste un limite anche in questo modo di documentare i fatti?
Esiste un rapporto ambivalente tra rappresentazione del dolore e solidarietà, tra lo sforzo traumatico di documentare la sofferenza e la capacità di esserne partecipi. Tra etica del mostrare e etica del vedere, come scriviamo nel terzo capitolo.
Di certo la fotografia, con la sua capacità di attivare la mobilitazione dello spettatore, è stata un elemento chiave nella creazione di una sensibilità e una cultura dei diritti umani. Dalla Shoah alla guerra in Vietnam, dalla carestia in Biafra al terremoto di Haiti, foto e video, amplificati dalla crescente penetrazione dei media globali, ci hanno reso testimoni della sofferenza umana e delle condizioni in cui versano gli “altri” lontani da “noi”. I media hanno ampliato il nostro spazio di azione quotidiano, la consapevolezza di vivere in un mondo diseguale e l’urgenza morale di agire. La mediatizzazione della sofferenza messa in atto dalle organizzazioni umanitarie ha contribuito alla creazione di una coscienza dei diritti umani, favorendo al contempo la crescita di un impegno umanitario senza frontiere, alimentato dagli attori della solidarietà internazionale.
Al contempo però siamo consapevoli che la vista del dolore affatica, che la crisi può essere manipolata e la sua visualizzazione strumentalizzata, che il frame può essere capovolto. Si pensi al rovesciamento semantico operato attraverso le immagini e le pratiche discorsive relative ai flussi migratori nel Mediterraneo. Tra le immagini gloriose e pietistiche di Mare Nostrum, nel 2014, e quelle relative ai ‘taxi del mare’ del 2018 sembra trascorso un secolo. In breve tempo, i salvataggi in mare operati dalla Marina Militare sono stati sostituiti dalle accuse verso l’operato delle Ong nella gestione della “crisi dei migranti”, culminata nella diffusa criminalizzazione della solidarietà e in un allungamento della distanza tra “noi” e “l’altro vulnerabile”.
Nel racconto e nelle immagini veicolate dai media, i soccorritori umanitari sono divenuti complici di trafficanti e scafisti, non evocando più nello spettatore un sentimento di empatia nei loro confronti, bensì di sospetto e giudizio moralmente negativo. Una svolta comunicativa che ha contribuito a legittimare politiche migratorie più restrittive e il rafforzamento della militarizzazione dei confini, i cui effetti sono ricaduti sugli stessi migranti. Lo abbiamo visto anche nel settembre 2015 con le reazioni alle immagini di Aylan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni ritratto morto sulla spiaggia turca di Bodrum, che dai social media hanno conquistato le prime pagine di tutti i giornali europei, provocando un’onda emotiva che ha spinto cittadini e politici ad accogliere più benevolmente milioni di siriani in fuga. Foto che testimoniano il tragico epilogo di un disperato viaggio, uno dei tanti finiti in tragedia nel Mediterraneo, ma che, a differenza di tante altre, hanno suscitato stupore, incredulità, indignazione, rabbia, commozione, compassione, pietà. Diventando così – anche grazie all’esaltazione mediatica collettiva, amplificata dalla velocità di diffusione delle immagini sulla rete – icone universali, immagini di ogni diversità e di ogni ingiustizia fondata sull’ineguaglianza, che si è insinuata nelle scelte politiche, mutando (almeno per un breve tempo) la percezione del migrante nell’opinione pubblica europea.
Eppure, nonostante la pietas che la foto ha stimolato, non possiamo dare per scontato che testimoniare la crudezza della realtà – come ha fatto la fotografa Nilufer Demir che ha immortalato la scena – renda migliori i testimoni e più solidale il comportamento morale del genere umano: il vero nodo della questione è l’uso che facciamo di queste immagini di crudeltà.
Davanti all’immagine di Aylan, come a quelle dei disperati in fuga da Kabul o dall’Ucraina, possiamo commuoverci e sforzarci di capire di più di quel contesto, per poi decidere di agire in maniera solidale (donando soldi o tempo alle organizzazioni impegnate con i profughi o arrivando a offrire ospitalità a quanti ne hanno bisogno); oppure possiamo voltare la pagina con indifferenza, se non addirittura rimetterne in discussione la veridicità e usarla come strumento per diffondere odio. L’effetto morale della rappresentazione della sofferenza è dunque possibile, ma mai garantito, perché lo spettatore, al pari del fotografo, è posto di fronte a un bivio: così come certe foto possono essere prodotte con cinismo o con partecipazione, allo stesso modo possono essere guardate con indignazione o voyeurismo. E questa intrinseca e ineludibile ambiguità ci mette dinanzi a una scelta con implicazioni importanti.
3. In che modo le fake news e la retorica dell'”invasione” hanno influito sull’opinione pubblica?
Come abbiamo evidenziato con Paola Parmiggiani nel secondo capitolo del libro, immigrati e immigrazione non hanno “invaso” solo le prima pagine dei giornali e dei telegiornali degli ultimi anni, ma anche la comunicazione sui social network, Facebook e Twitter in testa, dove la narrazione distorta e distorcente che si fa di questo fenomeno si esaspera.
Si pensi a quanto accaduto nel 2018 a seguito dell’omicidio di Pamela Mastropietro a Macerata ad opera di Innocent Oseghale, un ragazzo nigeriano, e della successiva aggressione razzista e di estrema destra da parte di Luca Traini che sparò per strada contro chiunque avesse l’aspetto dello straniero, ferendo sei persone, per “vendicare” la ragazza uccisa. Una vicenda sovraesposta mediaticamente e strumentalizzata dalla campagna per le elezioni politiche di quell’anno, che sfociò in una proliferazione di discorsi di odio online verso gli immigrati e di sostegno all’aggressore, anche nelle fan page di alcuni quotidiani nazionali.
Oppure, nel 2019 alla vicenda che ha visto come protagonisti l’allora ministro dell’interno, Matteo Salvini, e Carola Rackete, capitana di una nave gestita dalla Ong Sea Watch. Qui si vede bene l’intreccio tra hate speech e fake news: una lunga serie di violenti attacchi razzisti e sessisti (affermazioni, dichiarazioni e post) da parte sia di esponenti politici (anche in forza al Governo) che di giornalisti e di persone comuni. Descritta da politici e giornalisti (non solo di destra) “figlia di papà”, “una pirata”, “complice dei trafficanti”, “potenziale assassina”, “delinquente”; denigrata su Istagram da una simpatizzante della Lega per le sue “fattezze estetiche”; minacciata e insultata di stupro (“Spero ti violentino ’sti negri. Zingara. Venduta. Tossica. Criminale. Arrestatela”). Numerose le notizie false sulla sua vita privata, in seguito “debunkizzate”, come la notizia secondo la quale il papà di Carola sarebbe un mercante di armi o quella che la capitana sarebbe priva dei titoli per poter condurre una nave. Gli esempi potrebbero essere molti altri. Basti leggere le ultime edizioni della Mappa dell’intolleranza curata da “Vox Diritti – Osservatorio italiano sui diritti” o del “Barometro dell’odio” di Amnesty International.
L’immigrazione come “invasione” è una delle cornici narrative comuni del discorso sull’immigrazione anche nei social network, che si coniuga con il tema dell’allarme sicurezza e dell’allarme sociale (la teoria della coperta corta) che prefigura una concorrenza tra categorie in lotta per risorse scarse, una guerra tra poveri, tra “noi” e “loro”. Un linguaggio apertamente ostile e discriminatorio, declinato su vari livelli: dagli insulti al turpiloquio all’apologia della violenza contro un gruppo su base etnica. Messaggi di odio che esercitano una funzione identitaria, politica e aggregativa. Discorsi che fanno un ampio utilizzo di fake news, di notizie infondate, statistiche o dati alterati, dati amplificati per suggestionare, della genericità della definizione di luoghi, personaggi e contesti e della lacunosità delle fonti di riferimento. E la cui rapidità di diffusione viene amplificata dal fenomeno delle echo chambers descritto nel primo paragrafo, le bolle di risonanza dalle quali gli utenti faticano a fuggire perché vi trovano la conferma ai loro pregiudizi, e quindi vi si trovano perfettamente a proprio agio.
4. Quali sono, secondo voi, i metodi efficaci per decostruire gli stereotipi sulle persone immigrate, in chiave antirazzista?
Come scriviamo nel quarto capitolo, a proposito delle pratiche di ospitalità mediatica, ci sono tante azioni e strumenti comunicativi messi in campo nel nostro Paese per sviluppare e promuovere rappresentazioni e narrazioni diverse e alternative dei migranti, attraverso lo sradicamento di stereotipi e pregiudizi e la produzione di nuove “cornici di senso”. Esiste un variegato panorama di istituzioni, fondazioni, associazioni e altri soggetti della società civile che sono quotidianamente impegnati nella produzione di una diversa immagine dell’alterità nel nostro Paese. Una rappresentazione basata su una maggiore complessità in termini di contenuti, immagini e chiavi interpretative, e sulla volontà di favorire lo scambio con i portatori di altre culture e il riconoscimento reciproco.
Non solo l’informazione, ma anche il cinema o l’arte possono diventare strumenti di critica e denuncia rispetto alle modalità con cui i migranti vengono rappresentati. Poesie, romanzi, film, graffiti, mostre, fotografie, performance teatrali, installazioni, sono solo alcuni dei dispositivi di cui artisti e attivisti si servono per fornire un’immagine diversa, dissonante e contro-corrente della migrazione e dei suoi protagonisti. Arte che può diventare anche uno spazio fisico e simbolico dove migranti e rifugiati hanno la possibilità di sviluppare processi di partecipazione interculturale, stimolando la creazione di narrative alternative.
Credo la cosa più importante sia provare a decentrare la prospettiva sulla complessità delle diversità in un mondo in movimento e sulle narrazioni che spesso la deformano. E includere nelle nostre comunicazioni in primis i migranti: la loro voce, il loro racconto e il loro sguardo su di noi e sulla società di accoglienza. Comunicare significa, infatti, entrare in relazione con qualcuno, dargli la possibilità di essere ascoltato, negoziare insieme le possibilità e le soluzioni ai problemi. Significa aprire il cerchio del “noi” accettando le storie di vita diverse dalla nostra e dunque ponendosi in una condizione di accoglienza, di rispetto, di desiderio e curiosità di conoscere e condividere il mondo dell’altro, dandogli “ospitalità mediatica” appunto. Trasformare il migrante da oggetto a soggetto della comunicazione con l’intento di disegnare una diversa topografia dello sguardo, dando voce a chi di solito è “parlato” e aprendoci alla rappresentazione di “noi” da parte dell’altro.
5. In ultima analisi, quali buone pratiche, a livello mediatico, consigliereste per raccontare le migrazioni?
A più di 30 anni dalle prime grosse ondate migratorie in Italia, è ora di dare voce ai protagonisti e creare architetture affinché le loro parole trovino ascolto. Per riuscire in questa sfida, è importante comprendere la natura etica e politica della mediapolis e creare spazi fisici e simbolici che permettano di andare oltre la chiusura nella sfera privata e individuale che un secolo di comunicazione mediata sembra aver provocato.
Promuovere l’ospitalità mediatica come giustizia mediale è dunque il primo passo per allenarsi a una idea e una pratica di meticciato e di ibridazione che ancora in Italia fatica a farsi strada. Il primo presupposto per entrare in relazione con l’altro e riconoscerlo, anche se a volte non siamo in grado di comprenderlo. Riconoscerlo nella sua «opacità», rispettando il suo diritto a essere diverso, non riconducibile alla nostra scala di valori, al nostro metro di lettura e di conoscenza.
I mezzi per farlo sono tanti, come detto, dall’arte ai romanzi, dal teatro ai festival. Penso ad esempio ai tanti eventi realizzati all’interno del progetto Atlas of Transitions. Attraverso un uso innovativo delle pratiche performative, il progetto ha sfidato gli immaginari stereotipati veicolati dai media, lavorando su nuovi modi di percepire gli spazi pubblici e sperimentare la convivenza tra cittadini europei e nuovi arrivati.
Sempre con l’obiettivo di contribuire a innescare un cambiamento nell’immaginario collettivo, affinché si creino condizioni più favorevoli all’inclusione interculturale, superando le percezioni negative e i pregiudizi, penso al Festival del Turismo Responsabile IT.A.CA’_Migranti e Viaggiatori, nato a Bologna nel 2009, e che oggi viene realizzato in 26 territori da Palermo a Trento. Anche qui, sfidando la contrapposizione tra la visione negativa stigmatizzante di migranti e rifugiati, da un lato, e quella eccessivamente positiva di turisti e viaggiatori, dall’altro, il festival propone di guardare il mondo come l’insieme di culture diverse. Come il Manifesto del festival evidenzia, il turismo è qui inteso come strumento per uno sviluppo sostenibile e inclusivo del territorio: punti di vista differenti di individui che, migrando da un emisfero all’altro, arricchiscono il proprio bagaglio culturale di nuove sfumature grazie al confronto e al dialogo.
Ma questi sono solo due dei tanti progetti raccontati nel nostro libro, con l’obiettivo di contribuire a un ripensamento delle pratiche educative, culturali e politiche del nostro tempo. Ci auguriamo che questo libro diventi una ulteriore risorsa per aprire spazi di libertà e di convivenza, per moltiplicare gli immaginari possibili e innescare dinamiche di incontro e cambiamento; che sia utile a dare dignità e cittadinanza ad altre lingue, pratiche culturali e religiose, giurisdizioni. O che almeno sia un invito a ripensarci come esseri in movimento, in divenire, persone che vivono in-between, capaci di incontrare chi non si conosce, con la sua imprevedibile singolarità. Perché tutti siamo migranti, lo siamo stati o potremmo esserlo.
“Ospitalità Mediatica. Le migrazioni nel discorso pubblico” è disponibile a questo link.
Foto copertina via Melting Pot Europa/Twitter.