L’11 ottobre 2013, a 61 miglia dalle coste dell’isola di Lampedusa, si consuma uno dei naufragi più drammatici che la storia recente del nostro paese ricordi. La notte precedente un barcone partito da Zuwara, in Libia, carico all’inverosimile di profughi siriani sfuggiti alla guerra civile, è stato attaccato a colpi di arma da fuoco da una delle tante milizie libiche presenti in quelle acque. Si aprono delle falle e inizia a imbarcare acqua. Le persone a bordo chiamano i soccorsi, lo fanno con crescente disperazione e fino all’ultimo sperano che qualcuno arrivi a salvarle. Ma, nonostante gli aiuti siano stati chiesti in tempo e nonostante la presenza di una nave italiana non lontana dal luogo in cui si trovano, il disastro avviene: il barcone si rovescia e affonda, portando con sé sul fondo 268 persone. Tra loro ci sono anche 60 bambini.
Nei mesi scorsi si è conclusa con una sentenza di prescrizione il processo – qui raccontavamo la lunga e complessa genesi del procedimento – iniziato nel luglio del 2019. Una sentenza di prescrizione accompagnata però da una ricostruzione dettagliata delle responsabilità degli imputati e che certifica quindi anche le responsabilità di Guardia costiera e Marina Militare italiana nel naufragio di 268 persone, 60 delle quali bambini. Abbiamo chiesto ad Arturo Salerni, uno degli avvocati delle vittime costituite parti civili nel procedimento, un giudizio sul processo, su come interpretare la pronuncia e su cosa aspettarci per il futuro.
Avvocato Salerni come si è arrivati alla prescrizione?
Si è arrivati alla prescrizione a seguito di un processo complesso e lunghissimo.
La vicenda giudiziaria vedeva coinvolti due ufficiali, rispettivamente della Marina Militare e della Guardia Costiera, che fanno capo l’una al Ministero della Difesa e l’altro al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Quindi due apparati del nostro stato chiamati in giudizio come responsabili civili.
Da una parte ad allungare i tempi c’è stato l’atteggiamento delle Procure, prima di Agrigento e poi di Roma, che ne ha rallentato lo svolgimento. Come avvocati difensori o di parte civile abbiamo dovuto opporci a diverse richieste di archiviazione. C’è stato un rimbalzo di competenze con il Gip di Agrigento che ha rimandato il procedimento alla Procura di Roma. Il Gip, a seguito della richiesta di archiviazione della Procura di Roma, ha imposto un’imputazione coatta che è stata formulata in modo impreciso e ciò ha portato a perdere altro tempo davanti alla Corte di cassazione per rendere possibile la celebrazione del processo.
Il dibattimento è stato necessariamente lungo anche in ragione del numero e della condizione delle persone coinvolte. Abbiamo speso molto tempo ed energie per raccogliere documenti che dimostrassero il grado di parentela tra i sopravvissuti e le persone morte a seguito del naufragio, e i sopravvissuti si trovano attualmente in altri paesi europei. Quindi è stato molto complicato anche raccogliere le testimonianze e organizzare le partecipazioni al processo. Tutto questo anche per motivi linguistici.
La vicenda però non è mai stata semplice neppure sotto il profilo processuale
La vicenda non è stata semplice neanche sotto questo aspetto. Anche grazie all’aiuto della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili siamo riusciti a far venire i parenti delle vittime in Italia, a portare la loro vicenda all’attenzione della stampa e della televisione. Ma al di là dell’aspetto mediatico, li abbiamo sostenuti nel predisporre le procure che gli hanno consentito di costituirsi in giudizio e siamo stati essenziali nel raccogliere le prime dichiarazioni e portarle nel procedimento come investigazioni difensive. Abbiamo fatto un lavoro enorme, reso ancora più pesante dalla mancanza di attività investigativa registrata nello stesso frangente da parte della Procura, che si è limitata sempre a dire che non esisteva responsabilità italiana in quanto il naufragio era avvenuto in zona Sar maltese e il coordinamento delle operazioni da un certo momento in poi fu assunto dai maltesi.
Le considerazioni dei p.m. non sono state condivise da tutti i giudici che si sono occupati del caso che hanno sempre individuato responsabilità da parte delle autorità italiane.
Quali? Di cosa erano accusati gli imputati?
Il capo d’accusa nel loro nel loro confronti era il rifiuto di atti dovuti di ufficio e legato a questo l’omicidio colposo di 300 persone. Si trattava di accertare le responsabilità nel rimbalzo di competenze tra Italia e Malta, rimbalzo durato per diverse ore e che ha significato inerzia, un’inerzia assoluta. Quando si è intervenuti infatti il naufragio era già avvenuto.
Responsabilità ricostruite dal Tribunale di Roma nella sentenza, anche a fronte della prescrizione dei reati.
Andiamo con ordine, cosa dice nel merito la sentenza sulla responsabilità del naufragio?
Nel merito dice che gli imputati hanno ignorato la richiesta di soccorso colpevolmente e più volte e che le convenzioni internazionali, il diritto del mare, invece imponevano un intervento.
Gli imputati si sono difesi affermando che ci fossero altri mercantili in zona che sarebbero potuti intervenire perché dall’Italia la situazione era stata segnalata alle autorità maltesi.
Ma se si ricostruisce la cronologia dell’intera vicenda, come abbiamo fatto durante il processo, si vede che si è perso molto tempo e come un intervento tempestivo della nave Libra della Marina Militare italiana – vicina al luogo del naufragio perché in missione di vigilanza, ma la cui presenza veniva taciuta a chi doveva coordinare le operazioni di ricerca e soccorso – avrebbe potuto salvare tutte le vite. La nave era infatti a un’ora di navigazione ma si è mossa soltanto al momento del ribaltamento della barca, alle ore 17.00. Quando un’ora dopo arriva sul luogo del naufragio è tardi per salvare le vite di molte delle persone in mare. Sarebbe bastato partire con anticipo, già dal momento delle chiamate di soccorso ma anche nelle tante ore successive, per evitare questa tragedia.
Questa ricostruzione, oltre che ora dal Tribunale, era stata avvallata anche da una pronuncia del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che aveva condannato l’Italia per il mancato intervento.
Come si arriva dunque alla prescrizione davanti accuse così gravi?
Per quanto riguarda l’omicidio colposo, pur avendo delle pene anche molto elevate in caso di pluralità di morti, i tempi di prescrizione si calcolano a partire dalla pena massima prevista per ogni singola ipotesi di reato. Ciò significa che anche se il reato contestato riguardasse la morte di 300 persone, la prescrizione è fissata a sette anni e mezzo (a cui si sono aggiunti alcuni termini di sospensione, come ad esempio quelli dovuti all’emergenza Covid e altri rinvii e impedimenti di imputati e difensori). Per cui, anche per la difficoltà nel celebrare questo processo, si è andati oltre e i reati sono stati dichiarati estinti per prescrizione. Nonostante questo, il Giudice, nelle motivazioni, ha ricostruito pienamente la vicenda e, nonostante le posizioni prese dall’Avvocatura dello Stato e dalla difesa delle parti che chiedevano un’assoluzione nel merito e una dichiarazione di assenza di responsabilità degli imputati e delle amministrazioni statali, ha evidenziato la responsabilità degli imputati in ordine ai fatti.
Difatti sia l’Avvocatura dello Stato che i difensori degli imputati hanno presentato appello anche per evitare conseguenze in sede civile.
Cosa potrebbe avvenire in sede civile?
Si chiederà che le responsabilità vengano dichiarate e che gli imputati nonché i ministeri, debbano risarcire economicamente le vittime. La sentenza depositata al termine di primo grado è in sostanza un atto di accusa molto preciso nei confronti dello Stato italiano e di quelle persone. Si riscontra una responsabilità gigantesca, tragica, drammatica, che ha portato alla morte di tante persone, che certamente avrà il suo peso nel procedimento civile. Per questo le difese, nonostante l’intervenuta prescrizione, puntano al processo di appello per far prevalere l’ipotesi di una mancanza di responsabilità e quindi di una assoluzione nel merito.
Guardando all’attualità di quanto sta avvenendo in questi giorni in Italia quale importanza può avere questo processo?
Un’importanza enorme. Ci consente di chiederci cosa significhi non avere soccorritori in questi scenari. In questo caso c’è un colpevole mancato intervento, ma in tanti casi c’è l’impossibilità di intervento, perché – per precise scelte politiche – non si rendono disponibili i mezzi di soccorso. La scelta di allontanare le navi dei soccorritori dai luoghi dove si verificano più frequentemente i naufragi – come si sta facendo sia con il decreto Piantedosi, che credo sia corretto chiamare “decreto Erode”, che con la decisione di assegnare porti lontani dalle aree di intervento – rende ancora più rarefatta la presenza di chi soccorre, e ciò va esattamente nella direzione opposta di ciò che sarebbe necessario.
La tragedia davanti alle coste calabresi dei giorni scorsi ci ricorda che non fare i soccorsi significa moltiplicare le possibilità di tragedie. Non è un caso invece che proprio a seguito del naufragio dell’11 ottobre 2013 e di quello di Lampedusa di 8 giorni prima, il Governo di allora – e la Commissione Europea – decisero di avviare la missione “Mare Nostrum”. Inoltre, il rimbalzo di accuse tra autorità italiane e Frontex rende evidente come processi di questo tipo possano aiutare a far emergere responsabilità individuali nell’assenza e nel ritardo dei soccorsi, responsabilità che – laddove ci siano – vanno fatte emergere, chiamando a rispondere chi si è reso colpevole di queste omissioni. Senza che ci si possa nascondere dietro scelte o indicazioni politiche.
Immagine di copertina: frame tratto dal lavoro giornalistico di Fabrizio Gatti “Un unico destino”